“Il denaro mette inevitabilmente alla prova chi vive in una società capitalistica dove tutti sono convinti che esso possa risolvere ogni cosa. Il denaro è spesso causa di quanto accade ai giorni nostri. In questo film, due persone che provocano o subiscono dolore per via del denaro e che molto difficilmente si sarebbero potuti incontrare, si conoscono e diventano una famiglia. Grazie a questa famiglia ci accorgiamo che siamo complici di tutto quanto ci accade. Il denaro farà domande tristi fin quando tutti quelli che vivono in quest’epoca moriranno. Finiremo per diventare denaro agli occhi degli altri, schiacciati sull’asfalto. Piango ancora rivolto al cielo con scarsa fede. Dio, abbi pietà di noi.”

Queste le parole con cui KIM Ki-Duk presenta il film nella cartella stampa dedicata.
Parole importanti che identificano quello che un po’ ovunque inizia a venir chiamato il “cinema della crisi”. Definizione errata e fuorviante in quanto tenta di mettere a fuoco un periodo determinato mentre le parole e le immagini raccontate da Kim Ki-Duk sono una forma universale di comprensione dell’uomo.

Per questo motivo arrivo con ben 3 minuti d’anticipo ad assistere alla conferenza stampa.

Presenti in sala: il regista e i due attori principali Lee Jung-jin e Cho Min-soo.

Come ogni conferenza di questo festival, lo scoglio più grande da superare è la domanda idiota del pelato in prima fila che, chissà per quali (de)meriti dà il via al dibattito.
In questo caso chiede:

“Ho notato nel film un errore di edizione: in uno shot la serranda è abbassata per metà, in quello dopo è quasi tutta sollevata, da cosa è dovuto? Alla fretta?

Con aplomb più che orientale Ki-duk lo ringrazia per la grande attenzione che ha dedicato al film e si scusa dicendo che il basso budget che ha a disposizione per i suoi film, fa sì che spesso non ci sia il tempo necessario per curare tutto nei minimissimi particolari.

Corea batte pelato italiano un milione a zero.

Cominciamo con le domande serie:

“Il film è per diversi motivi vicino alla tragedia greca e quindi chiaramente più comprensibile e accessibile per il pubblico occidentale. E’ stato voluto? E il concetto di pietà espresso è quello che prova lei per l’umanità contemporanea? Quanto c’entra con l’opera di Michelangelo?”

Ki-Duk risponde:

“In Corea conosciamo moto bene la tragedia greca, viene studiata ed è un punto di riferimento per molto teatro, anche contemporaneo. Penso soprattutto a Elettra. Il punto di contatto con le tragedie greche credo però rientri soltanto nell’aspetto dei sentimenti e dei rapporti familiari, mentre nel mio film a me interessa soprattutto parlare del capitalismo estremo e sulle dinamiche che il capitalismo genera nelle relazioni. Quale potere abbia nel modificarle, quanto possa influire e incidere. Soprattutto in negativo. Per quanto riguarda il titolo invece, nasce dal fatto che ho visto due volte il capolavoro di Michelangelo, e senza entrare nei meriti della bellezza oggettiva dell’opera, sono rimasto colpito dall’idea di una madre che abbraccia il figlio vittima della sua stessa croce. E’ un’immagine che colpisce tutti. Che lega tutti in una grande condivisione del dolore.”

Una tipa chiede:

Al termine del film mi sentivo serena. Non depressa come spesso mi succede guardando i tuoi film. E’ una mia impressione o c’è stato realmente un cambiamento? E come mai hai scelto una donna giovane per farle interpretare la madre?

Lui sorride, ringrazia come al solito e aggiunge:

“Sì, può sembrare in un certo modo più luminoso dei miei film precedenti. Forse perché quelli erano concentrati sull’identità altrui, sui rimorsi altrui, mentre questo è un film dedicato alla razza umana intera che si trova in difficoltà. La scelta della madre invece, aldilà della bravura dell’attrice è dovuta alla grande fama che ha in Corea per le sue commedie e quindi spero che un po’ di quell’attenzione che solitamente riceve, stavolta venga rivolta ad un mio film!”

Questa schiettezza di argomentazioni sarà una costante della sua conferenza e tornerà anche in seguito. Ma a questo punto sono io a trovare il coraggio e alzandomi in punta di piedi come gli altri, microfono in mano e ingoiando in una sola parola: “Salvesonomaurouzzeodinontistavocercandocomplimentiperilsuofilmvolevochiederle”, gli faccio questa domanda:

“Ha dichiarato che il vero protagonista del film è il capitalismo e infatti tutti i personaggi del film ne sono vittime. Tutti tranne il protagonista che sembra del tutto disinteressato ai soldi. Vive in un appartamento schifoso e lurido. Svolge del lavoro in più che non gli viene richiesto. Non accumula denaro. Questo perché è lui stesso una rappresentazione del capitalismo o qualcosa che va ancora oltre? E poi mi interessava sapere se per lei, carnefice e assassino meritano la stessa pietà.”

Lui si fa tradurre tutto, fa i soliti sorrisi, i soliti ringraziamenti di rito e poi mi risponde:

“Nel capitalismo e impossibile vivere senza soldi ma l’importanza non e nel denaro stesso ma dell’uso che di quel denaro si fa. L’utilizzo può modificare l’approccio, penso ad esempio a chi ne fa un uso caritatevole che non può che essere positivo. Ma è di quello negativo che ho voluto parlare e che ho deciso di mostrare. Ed è vero, i protagonisti sono tre, i due attori e il denaro. E se ci pensi alla fine sarà anche vero che il denaro non è importante per il protagonista ma è proprio a causa del denaro che i due protagonisti finiscono per incontrarsi.
Per quanto riguarda il discorso sulla pietà, invece, credo che per vittime e carnefici vada provata allo stesso modo, perché per quanto noi possiamo sforzarci di cambiare o agire per il meglio, lo siamo entrambi contemporaneamente. Siamo sia vittime che carnefici.”

A questo punto, grazie alle domande di una giornalista coreana, KIM Ki-duk inizia a far luce su alcuni degli elementi più ostici per un pubblico lontano dalle loro dinamiche interne.

“Cheonggyecheon, la location in cui il film è stato girato è il luogo a cui si deve la nascita dell’attuale capitalismo coreano. Luogo dove avvenne il suicidio di Chon Ta-Li, colui che fece nascere il movimento sindacale in Corea battendosi per i diritti dei lavoratori e dove io stesso lavorai come operaio qualche anni fa. Il luogo dove Chon Ta-Li si diede fuoco per protestare contro lo sfruttamento della classe operaia.
Il suo sacrificio è ricordato ancora oggi ed è stato un grande esempio per tutti, compreso per me negli anni della mia formazione. Per questo ho scelto di seguire le sue orme denunciando quelle situazioni che col passare del tempo non sono cambiate poi molto, con la mia modalità d’espressione che è, per l’appunto, il mezzo cinematografico.”

E per rispondere all’ultima domanda, Ki-duk si rivolge ai giornalisti italiani parlando come ben pochi occidentali, in quella situazione, farebbero mai.

“Voi parlate della forza del mio film e dell’importanza del mio cinema, e questo mi lusinga. Ma in Corea quando ci si riferisce a me parlano del regista famoso in Europa. Questo potrebbe essere motivo d’orgoglio, e sicuramente lo è, ma leggendola in un modo leggermente diverso sta a significare che il mio cinema, in Corea, non è noto. Non è considerato. I miei film trovano pochissimo spazio all’interno del mercato cinematografico nazionale che è composto soprattutto da cinema d’intrattenimento e quindi di commedie distribuite dalle major. Major che, a loro volta, sono le stesse che posseggono e gestiscono i multiplex e le maggiori sale cinematografiche coreane. Capirete bene quindi che i miei film trovino pochissimo spazio in un sistema del genere. Allo stesso tempo non posso negare di avere un piccolo pubblico di fan affezionati che mi seguono da sempre ma spero sinceramente, per poter continuare a fare film, che la situazione cambi nel mio mercato di riferimento. L’Europa può essere una marcia in più ma non l’unica realtà capace di sostenermi. E spero quindi che questo film, in cui ho scelto due attori bravissimi, bellissimi e allo stesso tempo idoli delle masse, possa portarmi a vivere una condizione migliore per la mia cinematografia all’interno della Corea stessa. Me lo auguro.

Applausi in sala.
Il tempo è finito e io riesco a raggiungerli tutti e tre per un soffio per una dedica sul press-book del film.

E poi ce li portano via, verso il photocall dove Martina farà le foto che avete visto a corredo di questo post.

Tra cui quelle che dimostrano che quando impedisci a KIM Ki-duk di travestirsi da Bocelli, sulle prime ride, ma poi ci resta malissimo.

Salvo poi riprovarci, e riuscirci – davanti agli occhi allibiti del mondo –  sul palco della Sala Grande, mentre ritirava il Leone d’Oro ricevuto per il suo film:

http://www.youtube.com/watch?v=68iEyOXiA7Q

In sala stampa eravamo tutti felicemente sconvolti.
Sicuramente il momento più alto di tutta la 69esima edizione del festival del cinema di Venezia.

Il film uscirà nelle sale italiane il 14 settembre, distribuito da Good Movies (in sole, ahinoi, 60 copie!).

La carriera di KIM Ki-Duk in ambito cinematografico deve buona parte del suo successo al festival di Venezia.
E’ stato proprio qui, e precisamente nel 2000, che dopo aver presentato al mondo “L’isola” ha capito che con questa faccenda del regista ci si poteva campare meglio rispetto alle due alternative che aveva percorso fino a quel momento: prete di una chiesta per ciechi (true story) e pittore che non voleva mostrare i suoi quadri (ari-true).

Dopo L’Isola arrivò la doppietta di tutto rispetto composta da: Indirizzo sconosciuto e Bad Guy e poi, la consacrazione totale di Primavera, estate, autunno, inverno e… ancora primavera, La Samaritana, Ferro3 e L’arco.

A quel punto siamo arrivati al 2006 e Kim, dimostrandosi umano, inizia a sanguinare.

Dal 2006 al 2008, nell’arco di tre film (Time, Soffio e Dream), KIM Ki-Duk passa da essere il regista da studiare nelle scuole a quello da evitare nelle sale, il regista che, al solo nominarlo, prosciugava le voglie delle studentesse de La Sapienza che, proprio grazie a lui, eri riuscito a portarti a casa.

Ma il dio dei registi bravi è sempre pieno di attenzioni verso i suoi pupilli e, mettendoci un po’ del suo zampino, durante le riprese di Dream fa morire impiccata l’attrice protagonista.
No, dai, non è vero.
Non è che muoia veramente, diciamo che si accontenta di morire quasi quasi, e Kim Ki-Duk la prende così bene che saluta tutti, si ritira su un eremo in montagna e stacca qualsiasi collegamento col mondo esterno.

Non potendo contare su Chatroulette, sfoga la sua frustrazione girando Arirang.

Arirang è un autodafé di proporzioni polifemiche. Un J’accuse allo specchio rivolto verso quello che era un grande regista e adesso non ne imbrocca una.
Un documentario in cui Kim si dà ripetutamente dello stronzo svuotandosi di tutto quello che tiene sopito fino a restare senza più nulla.

Dopo Arirang, soltanto un Amen.

E poi il ritorno.

Pietà è il ritorno di Kim Ki-Duk, la sua rinascita.
Un lavoro che è talmente tanto figlio del suo percorso personale da risultare, a tutti gli effetti, una nuova opera prima.

In linea con le sue dottrine spiriturali, Kim Ki-Duk muore tra le ceneri del suo harakiri pubblico e rinasce a nuova vita con la stessa espressione ma con dei vestiti nuovi.

Il suo 18esimo film, come viene ironicamente e orgogliosamente scritto in apertura , è un film lontanissimo da quanto ci si sarebbe aspettato dal regista coreano e allo stesso tempo l’opera più coerente che avrebbe potuto presentare.

Pietà è un Vendetta Movie secco, diretto con pochi fronzoli e in continuo bilico tra l’orrore, il sentimento e la comicità.

Kang-do è uno spietato sicario che ha il compito di riscuotere i crediti dei debitori di Cheonggyecheon, un’area poverissima i cui abitanti riescono a tirare avanti soltanto lavorando in piccole officine e chiedendo soldi a strozzo.
Sono molte le famiglie rovinate dalle punizioni di Kang-do che ha il simpatico vizio di amputare gli arti a quelli che non rispettano la parola data, ma Kang-do non si lascia intenerire, né intimorire.
Lui, contrariamente a tutti gli altri, non ha nulla da perdere e nessuno che lo aspetti a casa.

Almeno fino a quando non gli si para davanti una donna che, inginocchiandosi e invocando il suo perdono, sostiene di essere la madre che lo abbandonò in fasce tanti anni prima.

Questo l’incipit di un film scritto e diretto splendidamente, nonostante (o forse soprattutto grazie a) gli inevitabili rimandi stilistico/narrativi certamente in linea con uno specifico tipo di cinema popolare asiatico che trova nel melò, nelle improvvise virate comiche e nell’ultraviolenza la sua cifra riconoscibile.

Spartiacque tra ciò che è stato e quello che, inevitabilmente, sarà, Pietà dà il bentornato al KIM ki-duk che conoscete e a uno che non vi aspettate.
Ma che comunque potrete giudicare da voi a partire dal 14 Settembre, distribuito da  Good Films.

Vi mostro il trailer originale coreano che non vi farà capire niente di quel che si dicono i personaggi ma almeno è integrale e privo di censure.

Quello sottotitolato in inglese che si differenzia dall’altro soltanto per il taglio di una scena. Due secondi che per il pubblico occidentale, evidentemente, sarebbero stati intollerabili.

E infine quello italiano, ennesimo, maldestro, tentativo dei distributori nostrani di manipolare il prodotto che stanno vendendo, spacciando una cosa per un’altra.

Pietà è uno dei miei Leoni d’Oro di questo 69esimo Festival del cinema di Venezia.
Insieme a  Sinapupunan (Thy Womb) di Brillante Mendoza e a La Cinquième Season di Jessica Woodworth e Peter Bronses.

Ma di loro parliamo poi, ora andiamocene alla conferenza di Kim Ki-Duk, che ne ha di cose interessanti da dire.

Stellette? 7 su 10

Per i motivi precedentemente elencati in questo post, sono arrivato a Venezia soltanto il 3 settembre, perdendomi così i due film dei nomoni del festival: The Master di Paul Thomas Anderson e To the Wonder di Thomas Malick.
Poco male (non è vero), tutta roba (bestemmio forte) comunque recuperabile (seeee, si dice sempre così!) in seguito nelle sale cinematografiche (che le fiamme dell’apocalisse vi avvolgano tutti).

Per cui, effettuato l’abbonamento per le navette, ritirati gli accrediti, eccomi pronto a spararmi il nuovo Kitano.

Outrage Beyond
di Takeshi Kitano

Il più recente tassello del grande affresco sulla nuova Yakuza realizzato dal maestro giapponese, si differenzia dal precedente capitolo soprattutto per il fatto che il primo sono riuscito a vederlo mentre questo no.
Troppo tardi.
La porta della Sala Grande si è chiusa proprio davanti ai nostri sogni di bambini e ha lasciato me e Martina sotto la pioggia, esposti, al vento, alle intemperie e all’Acciaio.

E quindi, per l’appunto:

Acciaio
di Stefano Mordini

Si sa che chi ben comincia è a metà dell’opera ma non è questo il caso: qui siamo lontani sia dalla metà che dall’opera.
Mordini, alle prese con un materiale narrativo trasgressivo come un 3×2 in corsia di autogrill, e impegnato come il mio status su Skype quando guardo le signorine nude, realizza, fuori tempo massimo, un film nato già vecchio.
Vecchio e deciso a non rischiare mai troppo né quando prova a titillarci con le due minorenni figlie di youtube, della prima serata di Canile 5 e dell’irrequietezza tipica dei loro thirteen e fourteen,  né nel limitarsi a voler tratteggiare l’acciaieria con la pretesa di qualche dettaglio significativo come un fegatello.

Vecchio e prevedibile nella scelta della colonna sonora post grunge e delicatamente new wave (per quanto sia sempre detto grazie ogni volta che qualcuno utilizza la voce di Hope Sandoval) e nel maldestro tentativo di denuncia sociale delle condizioni dei poveri lavoratori della fabbrica.
Vecchio e involontariamente comico nella messa in scena di un tipo di lavoro distante anni luce da quella che è la realtà degli operai e in quella che dovrebbe essere il momento tragedia del film e che invece ci colpisce al cuore come uno spot della wind di Aldo, Giovanni e Giacomo.
Nonostante le buone interpretazioni del cast, l’ottima fotografia, il sapiente uso del montaggio e alcune brillanti intuizioni registiche (motivo per cui spero al più presto di poter vedere nuovi lavori di Mordini), Acciaio è un film che non parte, che non prende, che non tocca nonostante i temi siano di facilissima e immediata presa pop e che, soprattutto, non lascia nulla dopo la visione se non un fastidioso sapore di furbetto.

Stellette? 4 su 10

Venezia 69. Prima volta senza Muller.

5 settembre 2012 da Mauro

Il giorno in cui è stato reso noto che Marco Muller avrebbe lasciato la direzione del Festival del Cinema di Venezia ho pensato che da quel momento il mondo sarebbe stato più brutto.
Quando ha annunciato che sarebbe andato a dirigere il Festival di Roma ho gioito ma non ho cambiato il mio punto di vista sul mondo.
Fosse stato un bel posto, Muller li avrebbe diretti entrambi.
Avrebbe diretto anche tutti gli altri festival sparsi nel globo e avrebbe scelto personalmente come organizzare le mensole della mia videoteca personale.

Ma il mondo si sa, è quel posto in cui Mister No ha chiuso e le ragazze continuano ad andare in giro con le tette troppo coperte, per cui, fuori Muller, dentro Barbera.

Alberto Barbera.

Per mesi io e femmina monitoriamo la situazione, nasando mormorii, anticipazioni, dando credito a tutte le voci possibili.
Ci esaltiamo, ci ridimensioniamo e poi facciamo quello che sappiamo avremmo fatto comunque.

E via, dopo una doverosa tappa obbligata al Castello Scaligero di Villafranca di Verona,

dove nell’ordine abbiamo ascoltato Alt+j (miglior esordio dell’anno, a mio modesto modo di vedere)

i dEUS in splendida forma,

un Mark Lanegan mai così timido e introverso,

e quegli alieni giunti su questo pianeta solo per renderci un po’ più tristi e un po’ più felici che si fanno chiamare anche Sigur Ros,

eccoci raggiungere Venezia.

Sul traghetto mi godo il paesaggio vomitando su due signore gentili e su un tale che ha veramente raccontato la barzelletta dei carabinieri veneziani che hanno i pantaloni bagnati perché lanciano le sigarette nella laguna e poi le spengono col tacco.
Poi arriva il lido

e soprattutto il nostro amato campeggio di S.Nicolo.

Che uno dice: minchia, 7 giorni di festival tutti in tenda… da morire…

7 giorni di festival in tenda con la pioggia che sta facendo…

7 giorni di festival in tenda col freddino della sera in laguna…

7 giorni di festival in tenda quando si potrebbe tutti andare a casa di Desiree che ci sono i posti disponibili.

Ecco, uno dice tutte queste cose e poi comunque, vince il fatto che è un anno che non vedi l’ora di ritrovarti qui.

Sarebbe divertente raccontarvi in quanti modi sia possibile riuscire a non montare una tenda che non ne ha bisogno, di quante volte si possano togliere e rimettere gli stessi picchetti, di come sia possibile martellarsi due dita una sull’altra con lo stesso colpo e di quanto io possa diventare agile come una tartaruga sul guscio appena entro lì dentro.

Ma riuscite a immaginarvelo benissimo senza che io sprechi ulteriore parole.

Per cui è con l’immagine del guerriero vincitore che vi lascerò

e con il primo brindisi inaugurale a questo nuovo festival.

Da domani, foto esclusiverrime e recensioni in anteprima da parte dei vostri due fedeli e infaticabili reporter di quartiere.

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Come non detto.

1 settembre 2012 da Mauro

Chi ha letto questo post sa bene che tipo di rapporto mi leghi a Ivan Silvestrini.
Chi ha letto quel post sa che la nostra amicizia si basa su una complessa equazione di affetto, stima, casualità, passioni in comune e vita.
Che non è ciò che ti succede mentre sei occupato a fare altri progetti, come sosteneva quello che si faceva fotografare nudo insieme a quell’altra lì, ma la capacità di scegliere in quale progetti imbarcarti, e il tuo personalissimo modo di portarli a termine.

Nel 2011 Ivan mi ha preso da parte per tre volte e in ognuna di queste mi ha rivelato uno specifico progetto su cui voleva misurarsi.

Del primo ne abbiamo già parlato, del secondo non ne parlerò perché è qualcosa che riguarda solo lui e quell’adorabile donna che gli sta vicino, il terzo ho avuto modo di vederlo realizzato qualche ora fa.

Per 90 minuti ho trattenuto il respiro.

Un apnea discreta, la mia, nascosto tra le poltrone della Casa del Cinema di Villa Borghese e circondato da un pubblico di soli giornalisti che da lì a qualche ora avrebbero reso pubbliche le loro opinioni sull’esordio cinematografico di Ivan.
Un’apnea ansiosa, la mia, di dita intrecciate e sguardo fisso, con un’occhio alle scelte di regia, uno allo script, uno alle luci, uno agli attori e uno, il più grande e attento, al ritmo.
Un’apnea dalla quale sono emerso solo sulle note della canzone di Sirya e Ghemon che dà il via ai titoli di coda, tra gli applausi e lei risate dei presenti e la conferma che Ivan c’era riuscito veramente: Come non detto, il suo film d’esordio cinematografico, era lì e tutti l’avevamo visto.

Nata dalla mente e dalla caparbietà dello sceneggiatore Roberto Proia, l’idea alla base di Come non detto è quella di portare sul grande schermo una storia di coming out e crescita, affrontandola con i toni tenui della commedia invece di utilizzare i colori del dramma con cui sono solitamente inzuppati argomenti del genere.
L’ingresso di Moviemax nel ruolo di produttore ha reso possibile la sua realizzazione, mentre la scelta di affidare la regia a Ivan Silvestrini ha determinato il tono e lo stile del film.

La storia è quella di Mattia e del suo ultimo giorno a Roma prima di andare a convivere con Eduard in Spagna.
Un giorno importante perché combattuto tra il dichiararsi finalmente gay alla sua famiglia, oppure continuare a rimandare il momento del coming out.
Una scelta che diventa obbligata nel momento in cui Eduard, a sorpresa, si presenta a Roma per conoscere i genitori del ragazzo che ama e che, a quanto gli ha detto lo stesso Mattia, appoggiano in pieno la loro unione.

Ma le cose non stanno decisamente così, e questa che Eduard potrebbe scoprire, non è l’unica falsità che gli è stata detta, perché Mattia, pur di tenere nascosta l’unica verità – che una volta dichiarata, l’avrebbe reso, in un modo o nell’altro, più leggero – ha scelto di trincerare la propria esistenza in un castello di infinite bugie di carta, sostenuto da uno sforzo immane davanti alla sua famiglia e alla società che lo circonda.

Una famiglia e una società che, a ben vedere, inibirebbe un po’ a tutti la libera espressione della propria essenza, composta com’è da bulletti figli di papà, madri represse, padri infoiati dal culto della virilità e sorelle disinteressate.

La storia di Mattia, quindi, ci mette poco ad uscire dal proprio ombelico e diventare simbolo di una liberazione.

“Essere sé stessi non dovrebbe mai essere un gesto eroico.” dichiarerà Proia in conferenza stampa sottolineando quanto, tutti i personaggi del film, aldilà delle loro inclinazioni sessuali, siano alla ricerca di un personale coming out che potrebbe liberarli dalla condizione di schiavitù sociale che gli impedisce di vivere realmente la propria vita.

Ivan sceglie di raccontare questa storia utilizzando una serie di strumenti che, anno dopo anno, iniziano a diventare veri e propri segni distintivi di un percorso artistico ben definito.
Il suo cinema è diretta conseguenza delle esperienze su corto, medio e lunghissimo raggio, figlio della youtube generation e di una sensibilità che lo porta a guardare tutti negli occhi.
La persona è l’elemento attorno a cui ruota il suo immaginario di primi piani intensi e crescendo emotivi affidati alle musiche, ai ralenty e a piccoli movimenti di camera, mai invadenti, che servono a restituirci un’immagine non banale, ben costruita, in cui è forte la spinta pop che sostiene l’intera operazione.
Coadiuvato dalle luci di Rocco Marra alla fotografia, Ivan porta nella commedia italiana un utilizzo del colore che parte dalle atmosfere del Muccassassina ma arriva dalle parti di quel cinema asiatico che mette seduti sullo stesso tavolo Won Kar Wai e il primissimo Ang Lee di Mangiare, bere, uomo, donna.

Il suo lavoro sugli attori – sin dai tempi di Autodistruzione per principianti punto forte e centrale della sua direzione – è così misurato da riuscire a non far cadere nel macchiettistico personaggi che sulla carta potevano rischiare di sembrarlo.

Loro lo ricambiano regalandogli delle interpretazioni straordinarie a partire dal protagonista Josafat Vagni

che riesce a reggere l’intera durata del film acquisendo credibilità minuto dopo minuto, passando per le ottime interpretazioni di Francesco Montanari (in un ruolo mai così lontano da quello con cui si è imposto all’attenzione del pubblico),

di Monica Guerritore,

del sommo Ninni Bruschetta,

dell’esilerante coppia composta da Valentina Correani e Andrea Rivera,

della commovente Lucia Guzzardi,

fino ad arrivare a Valeria Bilello che, nei panni di Stefania, la migliore amica di Mattia, interpreta forse il personaggio più affine al percorso artistico finora effettuato da Ivan.

E’ un film esente da critiche?
Tsk. La perfezione non è di questa terra figuriamoci nel cinema italiano.
Per quanto gli archi narrativi dei personaggi siano più che ampiamente portati a termine, alcuni passaggi risultano trattati più frettolosamente di altri.
E’ il caso della madre interpretata dalla Guerritore, per la quale, chi scrive, avrebbe preferito un maggiore approfondimento del suo percorso, o del bulletto Christian che non fa un passo più in là dello stereotipo che rappresenta, né all’inizio, né tanto meno nel twist finale che conclude la sua vicenda.
Ma stiamo parlando di elementi che non inficiano in alcun modo la visione del film, ben sostenuta dal montaggio continuamente alternato tra il passato e l’oggi in cui tutta la vicenda si svolge, e da una serie di battute davvero azzeccate.

Più di qualcuno, infine, poi potrebbe contestare la scelta stessa di mostrare l’elemento comico di un momento che per molti potrebbe essere vissuto come una tragedia, ma come sottolineato da Ivan durante la conferenza stampa, molte volte, la commedia è il modo migliore per raccontare il dramma.
Una commedia che non si limita ad accontentarci dicendoci che, in fondo in fondo, le persone sono tutte belle, ma che, in alcune circostanze e con il giusto coraggio, anche “i più stronzi tra gli omofobi, possono cambiare”.

Yann per fare altro. I Batida pure.

23 luglio 2012 da Mauro

Terminato il dibattito sulle direzioni che sta intraprendendo, o intraprenderà, il fumetto, noi cinque ci si gingilla a destra e manca.
Prendiamo dieci earl grey al ghiaccio.
Poi altri due.
Poi saliamo. Poi scendiamo.
Camminiamo, camminiamo, camminiamo e alla fine ci ricongiungiamo con Jonny e le maestre d’Arezzo, ceniamo e veniamo scortati vero il mainstage dove sta per esibirsi Yann Tiersen.

Immaginate che io vi regali un buono per cenare insieme ad una ultramegagnocca.
Che questa ultramegagnocca, dopo anni e anni di castità coniugale sia finalmente single.
Tettonissima.
E cieca.

Ora immaginate di incontrarmi il giorno successivo.
Se io vi chiedessi che tipo di musica di sottofondo avevano messo al ristorante, sapreste rispondermi?

Ecco, questo è l’effetto che mi fa la musica di Yann Tiersen anche senza il bisogno di maggiorate ipovedenti.

Per fortuna ad alzare il livello d’adrenalina della serata ci pensa Roberto, che prima si mette alla guida della trappola elettrica che regala una morte silenziosa, e poi decide di scalare una parete verticale.

Ah!Ah! Roberto che scherza!
Ah! Ah! Andrea che decide di accompagnarlo!
Ah!Ah!

Lo fanno sul serio.

Videocamera alla mano, pronto a testimoniare a eventuali mamme e fidanzate gli ultimi momenti di vita dei due baldi giovini, la tensione svanisce in un batter d’occhio.

Roberto è alto esattamente come la parete da scalare, per cui riesce a toccare la cima senza neanche il bisogno di mettersi in punta di piedi.

Andrea si allena da quando ha dodici anni a combatter contro gli orsi delle valli trevigiane per cui riesce a salire prima che io prema “play”.

E’ chiaro che se avreste voluto vedere il sangue scorrere, avremmo dovuto arrampicarci io e Paolo ma per saziare la vostra voglia di carne grassa spiaccicata su una parete verticale dovrete pagare molto di più.
Pervertiti.
Tsk.

Ma intanto, da qualche minuto, o forse da qualche ora, Yann Tiersen ha cominciato la sua esibizione.

Mentre cammino vero il village per girare qualche video mi accorgo che la mia impressione iniziale è sbagliata.
Mi sembrava ci fossero poche persone per questo che dovrebbe essere il main event dell’arezzowave e invece, piano piano, la gente sta riempiendo tutto lo spazio a sua disposizione.
Tra spalti e platea c’è sempre meno posto e la gente non accenna a smettere di affluire.
Sembra che aretini e non abbiano deciso di godersi in tutta tranquillità il sabato sera.
E fanno benissimo.

L’aria è perfetta, un venticello leggero ci sfiora, i long island sono ottimi e poi… e poi c’è Yann Tiersen.

http://www.youtube.com/watch?v=IBdoXTPmg74

La versione live dei suoi pezzi è sicuramente più calda ma è chiaro che per far esplodere il pubblico c’è bisogno di ben altro.
Io ascolto, cerco di farmi prendere ma non c’è niente da fare. E se uno gnegnerellone non riesce a prendere me, non ci siamo.

http://www.youtube.com/watch?v=FDP_mPs03zU

Mi guardo intorno: un coso bianco attira la mia attenzione e mi ci siedo fantozzianamente.
Prendo il mio iPad, scorro le pagine de L’isola del tesoro che non so perché ho deciso di rileggere, e scopro di aver fatto la scelta del secolo.

Ascoltandola mentre faccio altro, la musica di Yann Tiersen è quanto di meglio si possa desiderare.
Mi coccola, mi scalda, mi distacca dal resto e mi permette di concentrarmi nella lettura.
I venti minuti che seguono sono i migliori della giornata.

Pace.

Poi arriva Gud e mi porta una birra.

Pace & Amicizia.

Poi arriva Rrobe e si siede con noi due a scherzare.

Pace & Amicizia & Fratellanza.

Siamo così belli che Jonny ci fotografa. Click.

E ci porta a farci intervistare da RadioWave.
Io, che dei tre sono il più timido, decido di riprendere il tutto, a vostro uso e consumo:

http://www.youtube.com/watch?v=SwybnIpxvCA

Bene. E’ l’una di notte.
Tra sei ore inizierà il concerto di Giovanni Lindo Ferretti.
I miei soci sono tra il sì e il no.

Gli dico che ho scoperto che il concerto si terrà nel luogo che, sembra, abbia fatto da sfondo alla Gioconda dipinta da Leonardo.
I miei soci dicono sì, subito.

Incredibile come quando si nasconda una storia dietro quello che vogliamo fare, il nostro interessa sale alle stelle, per cui, saggiamente, siamo propensi ad andarcene.

Ma iniziano a suonare i Batida.

Ora, se c’è qualcosa di cui non potrebbe fregarmene di meno è un tizio che aggiorna sonorità angolane al ritmo del moderno dancefloor.
Figuriamoci se questo tizio decide di tirare su un baraccone di rappresentanti di queste popolazioni che eseguono i loro brani, interpretandoli con studiate e raffinate coreografie al fine di divertire, informare, documentare, coinvolgere e intrattenere.

Figuriamoci.

Figuriamoci.

LO SHOW DEI BATIDA E’ UNA FIGATA PAZZESCA!!!

Alle ore 1.05 della notte, io e le diverse centinaia di persone presenti, già mezzi anestetizzati da Yann Tiersen, iniziamo a ballare e non ci fermiamo più.

Riesco a fare solo un video, questo:

http://www.youtube.com/watch?v=Jd_dWhRLm7c

E poi salto, salto con Gud, salto con quelli che mi circondano, salto con gli sconosciuti accorsi alla corte di Dj Mpula e applaudo al loro spettacolo.
Per oltre un’ora la platea sorride ed è coinvolta dalle luci, dai suoni e dalle performance.

Tutti ballano e saltano. Si baciano e saltano. Fumano e saltano. Giocano e saltano. Cantano e saltano. Ridono e saltono.
E noi 5blogger facciamo lo stesso.
Persino Paolo, che credevo addormentato su un puff, scodinzola le chiappe al ritmo di musica.

Passate le due, ce ne torniamo in stanza contenti di aver scoperto qualcosa che non ci aspettavamo e che non credevamo ci avrebbe presi così tanto.

Non sapevamo che solo qualche ora più tardi avremmo assistito ai due eventi più emozionanti dell’intero festival.

A che punto è il fumetto?

19 luglio 2012 da Mauro

Panze piene grazie ad Olga, ci predisponiamo per l’ormai tristemente nota “Corsa In Salita ‘Che Siamo In Ritardo”.
Disciplina di cui i 5Blogger sono campioni olimpionici.

Il motivo dell’arrampicata è presto detto: alle 17.00 in punto, nel chiostro della Biblioteca di Arezzo, Luca Valtorta, direttore di XL – Repubblica, chiederà: “A CHE PUNTO E’ IL FUMETTO?” a

Paolo “Ottokin” Campana,
Alberto Corradi,
Ale Giorgini,
Roberto Recchioni
e David “Diavù” Vecchiato.

Tre dei disegnatori di punta dello staff di XL e due rappresentanti dei 5Blogger, sicuramente quelli che, tra di noi,  da più tempo conoscono, vivono e producono fumetto in italia a 360°, dal mainstream più popolare, all’indie più nascosto.

Per arrivare in tempo ignoriamo le meraviglie che ci circondano, sputiamo polmoni come fossero zavorra, sfondiamo muri come nelle pubblicità della Levis e non aiutiamo l’unico rimastino rimasto in città.

Ma ci siamo.
La location è notevole e già c’è un nutrito pubblico ad aspettare i nostri eroi.

Tra i presenti, accorso a conoscerci de visu, il mio mito personale: lo Sgargabonzi, che poi mi farà da cicerone per le via della città.
Ma mentre io sono qui che divago, ecco che i conferenzieri stanno già conferenzando.

L’incontro, integrale, eccovelo qui.
Guardatevelo che ce n’è di materiale su cui discutere.

http://www.youtube.com/watch?v=TuwEB6K3Vik

http://www.youtube.com/watch?v=a9FaTcc_zWc

http://www.youtube.com/watch?v=28Gj-AV-_vk

http://www.youtube.com/watch?v=EO77X7YwkkY

(oppure se volete vederlo tutto di seguito, cliccate QUI)

Un incontro interessantissimo in cui si è messa a fuoco quella che è l’attualità del fumetto in Italia.
Si è parlato dello sforzo del mainstream di battere nuove strade e quello del circuito indipendente di esserlo sempre meno battendo percorsi alternativi.
Si è parlato di digitale e dei vantaggi della distrubuzione, senza dimenticare di considerare che gli autori stessi sono molto impreparati sull’argomento.
Si è parlato tanto e giustamente di diritto d’autore, di pirateria e del rapporto che intercorre oggi tra produttore/realizzatore/fruitore finale.

Un rapporto che sta necessariamente cambiando e che inizia ad adattarsi alle nuove regole di questa realtà sempre più social.

Se una volta l’unico legame tra quelle tre figure era l’oggetto realizzato, venduto e comprato, oggi il “contenuto” è solo uno degli elementi che fanno il mercato.
Oggi le distanze tra questi mondi sono sempre più corte e una certa fetta di pubblico sempre più interessata al vivere l’esperienza intera, dalla realizzazione, alla distribuzione, del prodotto che compra.

Tante domande, tanti spunti, tante idee.
Peccato solo per la mancanza di un contraltare forte.
I punti di vista degli intervenuti sono per forza di cose, pur venendo da esperienze anche molto distanti tra di loro, decisamente simili e monodirezionali.

Sarebbe ancora più interessante se adesso questo dibattito venisse affrontato da chi, i fili del fumetto italiano, più che muoverli, li tiene.

Si è parlato del triunvirato “popolare”: Astorina-Bonelli-Disney, di quello più indipendente della Coconino e delle autoproduzioni di ZeroCalcare.
Ecco, sarebbe bello se adesso la domanda “A che punto sta il fumetto?” venisse rivolta a loro.

A quel punto, tirando una linea tra i meridiani e i paralleli, potremmo averne un’idea più chiara di come raggiungerlo, e magari trasferirci a vivere lì!

Arezzo Wave: da Edda fino ad Olga.

18 luglio 2012 da Mauro

Ore 2.40.
Premo invio sulla mail che contiene in allegato la mia sceneggiatura e posso andare a dormire.
Ho la sveglia tra 4 ore e poi partirò alla volta dell’Arezzo Wave.
Poco male, sembra che la febbre mi sia passata, ora rimangono solo litri di morbido moccio.
Si può fare. Come si suol dire: meglio moccio che Moccia.

Ore 7.00.
Apro gli occhi. Mi lavo un po’. Scrivo il post. Mi lavo un altro po’. Caffè. Mi lavo. Mi vesto. Videocamera. Zaino pronto. Via.

Con Martina e Carolina voliamo fino alla stazione tuscolana dove 3 dei 5 blogger mi stanno già aspettando.
Mi viene incontro Rrobe che fotografa qualsiasi cosa da quando si è svegliato.
Fico.
Sto facendo lo stesso con la videocamera quindi siamo due cowboy che duellano all’alba armati dei loro rispettivi attrezzi fermatempo.

Gud sembra stia male tipo me. Ma lo fa con stile.
Conosce i nomi di almeno tre medicine il che lo rende, ai miei occhi, a metà tra un guaritore di D&D e uno sciamano sioux.

Ottokin, invece, sembra si sia camuffato da cosplayer di Homer Simpson ma io me ne renderò conto veramente soltanto arrivati al primo autogrill.

Ciambelle...

La colazione che mi sveglia è un sapiente mix di girella infilzata (quella da un euro e quaranta, sono sicuro che l’altra me l’avrebbero data gratis)

e Zerinol Flu a manetta. Che è tipo diecimila volte più buono della Fanta e del Brioschi messi insieme.

A questo punto, completamente riavviato e col defrag eseguito, posso finalmente considerare iniziato il mio viaggio!

L’Arezzo Wave per me è un pezzo di cuore.
E’ stato il primo festival a cui ho partecipato nella mia vita e lo amerò per sempre non fosse altro perché c’ho visto suonare C.S.I., Nick Cave con i Bad Seeds e i Sonic Youth.
Respect Arezzo Wave. Respect.

Per il festival questo è un anno importante.

Dopo l’esperienza in giro per  lo stivale della sua incarnazione Italia Wave, si torna dove tutto è cominciato , ed è nei parchi e nelle strutture attrezzate del capoluogo toscano che si giocherà la partita di questa edizione 2012.
I nomi in cartellone, ad una prima impressione, denunciano uno stato non troppo rassicurante.

Basti pensare che al nome più interessante, in termini di eco di pubblico, è stata affidata la serata di apertura di giovedì e non il classico main event del sabato sera (che invece tocca all’internazionale Yann Tiersen).

Ma per fasciarmi la testa decido di aspettare di cadere per cui mi predispongo a godermi le proposte del festival e mi riprometto di tirare una linea a fine esperienza.

In tutto ciò, Arezzo ci accoglie.
Chiamiamo i tizi di Google Maps per dirgli che si sbagliano a scrivere che possono volerci dalle 2, alle 3 ore e un quarto, e li avvisiamo che noi, per arrivare da Roma, ce ne abbiamo messe cento, ma mica a causa del nostro pilota che è stato un fulmine, nossignore.

Poi vediamo arrivare verso di noi due loschi figuri:

Abbracci, abbracci e ancora abbracci, ci ricongiungiamo ad Andrea, il quinto blogger, e diventiamo un Supercar Gattiger di felicità e cazzate a raffica.

Menzione d’onore per il valido sesto elemento aggiunto: Jonny dell’organizzazione del festival.
Con lui ci sono anche due valide fanciulle, Pamela & Marzia, le nostre nuove maestre, le salutiamo e poi corriamo verso i posti in fondo, dove sembra che stia per esibirsi Edda.

Arriviamo al Wake Up Stage che ancora i One Way Ticket non hanno finito la loro esibizione, ma quel che vedo è veramente troppo poco per stabilire se sì, se no, se boh, quindi taccio fino al momento buono.

Mi guardo intorno. Vuoto. Mh. Brutto segno.
Poi guardo meglio.

E scopro che in realtà sono tutti camuffati sotto le oasi d’ombra per tentare di ripararsi da sole.

Noi 5Blogger, come un sol uomo, decidiamo che è cosa buona e giusta seguire la tattica di guerrilla attuata dal resto della popolazione indigena, e ci adeguiamo.

Non passano 5 minuti che l’ex cantante dei Ritmo Tribale ci si palesa in tutto il suo splendore.

Dopo l’uscita della sua seconda opera solista “Odio i vivi”, Edda sta vivendo, a dispetto del titolo, una fase di profondo amore, soprattutto da parte di quello zoccolo duro di appassionati che si fa di volta in volta più grande e che non sembra voler smettere di dimostrargli il proprio affetto.

http://www.youtube.com/watch?v=l64ZmlP21dQ

“Odio i vivi e ho i miei motivi” canta, e non abbiamo dubbi nel ritenere che sia vero, ma la rabbia che riesce a tirar fuori dal palco sembra un unico, continuo, inno alla vita.

http://www.youtube.com/watch?v=1Q8mFCEmq-g

Sarà il sole, saranno i colori, sarà il bambino che lo accompagna sul palco, ma Edda sembra sereno nell’esibirsi come fosse davanti ad una folla oceanica, nello scherzare sulla scaletta tutta sbagliata, nel complimentarsi con alcuni illustri ospiti tra il pubblico, nell’urlare dediche sghembe per le quali è impossibile non adorarlo.

http://www.youtube.com/watch?v=6JR3CkNSlUY

Un’ora dura la sua esibizione e, saltellando qua e là tra il suo repertorio recente

http://www.youtube.com/watch?v=8UscQb462EI

Edda trova anche il tempo di farci ascoltare la sua versione di Suprema, brano originariamente composto e interpretato da Moltheni.

http://www.youtube.com/watch?v=u8UlHyuvZoA

Edda, al secolo Stefano Rampoldi, è un artista non ancora stanco di cercare.
Non ancora fermo sulle sue posizioni.
Non ancora definibile in alcuna forma conosciuta.
Non ancora incanalabile in un percorso stabilito

Quello che si esibisce sul palco dell’Arezzo Wave è, come sempre, un Oggetto Non Identificabile, caduto su questa terra per colpire forte e scuotere dal loro torpore un gruppo di persone aggrappate alla propria ombra.

Con noi ci riesce.

In pieno.

Fomentati dalla bella esibizione, facciamo un salto in albergo e, su consiglio dell’enturage del festival, ce ne andiamo a pranzo nella trattoria di Olga.

Olga è il filo che corre tra Roma e Arezzo. La Sora Lella a tavola con l’ironia toscana.
Il meglio delle due culture tutto in un donnone scorbutico per finta e sorridente per davvero.

Chiaramente, sono pazzo di lei nel giro di 4 minuti.

Olga mi racconta dei suoi anni trascorsi nel ristorante, di quanto è bella la nipote, del suo fidanzato di Milano, del figlio che lavora in sala e che si preoccupa di gestire il locale, il tutto, continuando a piegare le buste e a rimbrottare i clienti che si attardano o che non mangiano. Per poi rassicurarli ogni volta dicendogli che sta scherzando.

Stila anche una sua personale classifica dei più appetibili tra i 5Blogger e la vinciamo io e Andrea.
Che fosse una donna di gusto lo si capiva fin dall’inizio.

E di gusto sono anche i piatti che ci porta a tavola.

Nell’ordine mangiamo:

Salumi e formaggi toscani.
Ciaccia col prosciutto.
Tortelli di patate.
Filetti al lardo di colonnata.
Fagioli.
Cantucci al vino.

E la qualità è così alta che ad ogni portata facciamo questa faccia

e gli assegnamo ben quattro balloon su cinque della nostra personale classifica di gradazione.
Il quinto non glielo diamo perché siamo cacacazzi e non siamo mai riusciti a bere acqua fresca. Né il primo, né il secondo giorno.

Ma se siete da quelle parti e volete mangiare bene, i 5Blogger dicono “Olga”.
Magari con un po’ di ghiaccio a parte.

O al massimo lasciatevi annaffiare da Olga prima di entrare.

Fine prima parte.

Nelle prossime puntate scoprirete come i nostri eroi sopravviveranno alla guida di macchine supersoniche, tra i fumi di antiche danze africane, arrampicati su delle pareti verticali, conferenze sul destino del mondo (del fumetto) e alle interviste dalla radio del festival. Il tutto, come al solito, ben condito dalla solita ammucchiata di foto e video.

5 Blogger all’Arezzo Wave!!!

14 luglio 2012 da Mauro

Si riparte!
Dopo le esperienze di Angouleme e Napoli, i 5 blogger si rimettono in viaggio.

Stavolta la nostra meta sarà il festival musicale più importante della penisola che, dopo aver girovagato in lungo e in largo con l’incarnazione “Italia Wave”, torna nel suo luogo d’origine con un programma fitto fitto di eventi, tra i quali

un paio d’incontri proprio con noi cinque.

Per tutto il fine settimana, quindi, potrete seguire i nostri resoconti sulle pagine di questo blog e su quelli di Roberto, Paolo, Daniele e Andrea, sui nostri profili twitter all’ #5blogger, facebook e instagram.

Da parte nostra, potete contarci, faremo del nostro meglio per riportarvi l’esperienza dell’Arezzo Wave in tutti i suoi aspetti.
Seguiteci!

Gigi Maturità è un ragazzo fortunato.
E’ uno di quei ragazzetti bellocci e svegli, che col minimo dello sforzo ottengono il massimo risultato a scuola.
Uno di quelli adorato dai prof ma allo stesso tempo pieno di amici, che ascolta musica interessante, legge un sacco di fumetti di supereroi, che gioca a calcetto e vince.

L’anello di congiunzione tra lo sfigato e il più fico della classe.

Gigi Maturità quest’anno ha gli esami, gli esamoni grossi che lo lanceranno nel mondo dei grandi.
Ma lui non si spaventa: ha avuto un’idea.

Vuole coniugare le materie d’esame con la sua grande passione per i supereroi.
Ogni materia: un supereroe con le sue specifiche caratteristiche.

Filosofia? Superman e l‘oltreuomo nietzschiano.
Biologia? La roccia di cui è composta La Cosa, i rubini al quarzo che tengono a freno il potere di Ciclope.
Letteratura? Le citazioni colte di Lee. Storia dell’arte? Kirby e il peso avuto nella cultura pop.

Grande, genio. GENIO.

Gigi Maturità ha anche una simpatica prof Monia Vignagnuoli, che ci tiene tanto a lui e che, venuta a sapere della sua tesina, gli dice che è in contatto con qualcuno che forse può aiutarlo: uno sceneggiatore di fumetti che conosce da anni e che ha appena scritto una storia che è tutta un grande omaggio ai supereroi.

Monia me ne parla il giorno stesso.
Mi racconta di questo ragazzo davvero bravo, mi dice che lui ci terrebbe tanto, che è emozionatissimo per l’eventualità che io possa aiutarlo e in tre minuti mi convince. “Ok, dagli la mia mail e fammi mandare la tesina!”

Passano tre giorni e io ricevo ciò

Il Nonno Mauro che è in me sta per mettersi a inveire contro questi giovini che non si degnano neanche di salutare, presentarsi e spiegare a grandi linee di cosa tratta il proprio lavoro, ma lo zittisco immediatamente.

“Nonno Ma’, eddaje, non rompe’ come al solito, che so’ regazzi!”

Apro il file con la tesina e non ci capisco nulla.
Una paginetta e mezza di trafiletti messi in fila come uno schemino ma senza un reale filo di collegamento tra di loro.
Uno addirittura in inglese.

Per un attimo penso che Gigi Maturità si sia limitato a copiancollare roba presa qua e là da internet ma poi la prof Monia mi spiega che quegli schemini corrispondono alle diverse materie che deve portare all’esame (che però non sono indicate) e che rappresentano il discorso su cui verterà tutta la sua prova orale.

Bhé, l’idea è buona. Mi piace. Ma manca di corpo, di struttura.
E alcuni argomenti potrebbero essere affrontati in modo più completo.

Parto in quarta e mi fermo di colpo.
Se mi metto a scrivergli quello che penso ci metto una vita e rischio di confonderlo.

No, la soluzione è farmi chiamare.
Sì, gli do il mio numero e ci facciamo una chiacchierata.

E’ decisamente la soluzione migliore.

Il primo giorno, non si fa vivo.

Il secondo, alle ore 14.49, Gigi Maturità risponde.
E io resto dieci minuti paralizzato davanti al monitor.

Invito tutti i lettori di questo post ad ipotizzare la risposta più surreale possibile e a confrontarla con quella che io, alle 14.49 ho ricevuto veramente:

Gigi maturità è uno di quei ragazzetti bellocci e svegli, che col minimo dello sforzo ottengono il massimo risultato a scuola.
Uno di quelli adorato dai prof ma allo stesso tempo pieno di amici, che ascolta musica interessante, legge un sacco di fumetti di supereroi, che gioca a calcetto e vince.
Gigi Maturità è l’anello di congiunzione tra lo sfigato e il più fico della classe.

Gigi Maturità è un ragazzo fortunato.

Perché nel momento in cui ho letto “non credo di poter trovare il tempo per chiamarti” e “per me sarebbe molto più comodo se me le scrivessi così da poterle tranquillamente leggere quando ho qualche minuto libero.” stava troppo lontano pe’ prendese ‘na ciavattata!

“Che male, non gli avrebbe fatto!”

A Nonno Ma’… ennamo.
Piuttosto, le hai prese le medicine dopo pranzo?

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