Perché sì, ci saranno anche stati lo studente di piazza Tienanmen, il primo uomo sulla luna, la bambina vietnamita, l’atleta con le protesi di adamantio, lo sguardo della ragazza afghana, l’uccello con le ali di petrolio, la vecchietta che respinge le forze armate, la nascita del puledrino, il vostro primo figlio e il sorriso di vostra madre.
Ma questa:
è la singola
immagine
più
commovente
di
sempre.
Senza timore di smentita alcuna.
E se non capite perché… siete delle brutte persone. U_U
Yao Hung-i è un nome relativamente nuovo del cinema cinese.
Pur avendo realizzato un unico lungometraggio, ha all’attivo diverse pubblicità, cortometraggi e soprattutto vanta la collaborazione con quel mostro sacro di Hou Hsiao Hsien per diversi suoi film.
Così giovine, ha visto già riconosciuto il suo lavoro raccogliendo diversi premi in giro per il mondo e questo è il motivo per cui nelle foto c’ha sempre quel mezzo sorrisetto da Oddio me sa che ijela faccio.
All’edizione del 2011 del Taiwan International Film Festival s’è aggiudicato il Golden Horse per il miglior documentario con Hometown Boy, dedicato all’arte, i dubbi, le paure, e le goie di quel gran genio di Liu Xiaodong.
Ma chi è Liu Xiaodong?
Cominciamo col dire che è questo bel tomo qui:
ma per farvelo capire meglio, parlano in maniera decisamente più chiara i suoi lavori:
Diplomato alla Central Academy of fine Arts di pechino – dove adesso insegna – Liu Xiaodong è uno dei maggiori esponenti della pittura contemporanea cinese.
Il che non gli impedisce di trasformarsi in attore o direttore artistico nelle restanti 37 ore della giornata.
Al centro del suo sguardo, l’uomo inserito nella realtà che lo circonda. Che dell’uomo mostra i segni, le sconfitte e i momenti di trascurabile felicità.
La realtà come prova più visibile e concreta del suo passaggio e della sua esistenza.
Incontrando nel suo cammino il sorridente regista di cui sopra, i due hanno deciso di unire i loro sforzi in un progetto comune.
Nasce così Hometown Boy, la storia di Liu Xiaodong, un pittore che sta ottenendo un discreto credito in tutto il mondo da quando ha lasciato la Provincia di Liaoning, nel nord della Cina, a 17 anni, e che ha un’unica grande paura: tornare nel paesino dov’è nato e dove ha vissuto la sua adolescenza, guardare i suoi vecchi amici e trovare, nei loro occhi, un rifiuto di quel che è diventato.
Del “famoso” pittore che adesso è.
Partendo dalla sicurezza delle mura domestiche, unico luogo che Xiaodong ha continuato a frequentare – ma solo una volta l’anno, per la settimana delle feste di capodanno – Yao Hung-i segue il viaggio del pittore alla ricerca di quella parte della sua giovinezza che ormai è diventata altro e la sua necessità di fermarla, dipingendola.
Emergono con forza, dalle immagini del documentario, le sue insicurezze, il crollo delle certezze, le piccole ansie e le grandi gioie di ritrovare dei compagni di strada che credeva perduti e che, mostrando sulla loro pelle i segni del tempo trascorso, gli permettono, orgogliosamente di lasciarsi ritrarre.
E’ così che nascono questi quadri.
Simboli di un momento d’incontro e di ritrovo.
Fotografie, attimi rubati che racchiudono e fermano il tempo perduto nella serenità di un nuovo incontro.
Hometown Boy è un viaggio attuale che parte dal ricordo di un tempo passato e arriva a raccontare come si cresce e cosa si diventa.
Una storia di amicizia e di abbracci, ma anche di nervi scoperti e vecchi rancori che vengono alla luce con la forza di un furgone che, nottetempo, si abbatte contro il tendone all’interno del quale veniva realizzata un’opera che non sarà mai terminata.
Perché la vita, quella vera, proprio come l’arte, è capace di commuovere e ferire.
“Mischiare la vita con l’arte è sempre stato uno scoglio troppo grande da superare.” Dichiara Liu Xiaodong in un passaggio molto toccante.
“Perché il concetto di arte è ormai troppo legato al suo aspetto più commerciale. L’atto stesso del dipingere viene prima identificato come un modo per fare soldi che come una pulsione necessaria. Adesso la realtà mi spaventa meno, e per me, dipingere, diventa ogni giorno più giusto se con i pennelli e i colori posso mostrare al mondo, il mio punto di vista.”
Opinione condivisa da Yao Hung-i che usa la sua macchina da presa per lo stesso motivo.
E anche da me che, nel mio piccolo, provo ogni giorno a fare lo stesso, anche tra le righe di questo blog.
Stellette?
8 su 10
E un nuovo, immenso, grazie al prezioso staff di Asiatica Film Mediale, che dà la possibilità ai cittadini di Roma di poter conoscere queste realtà.
In una location splendida e in via del tutto gratuita.
Wired.it dedica un mini speciale al film animato a cui ho lavorato negli ultimi anni, mostrando un estratto – prevalentemente tecnico – di quello che sarà il backstage ufficiale.
Tra le buffe facce in mostra, oltre a quella del sottoscritto, potrete anche riconoscere quelle di alcuni habitué di queste pagine.
E rendervi conto del fatto che anche in Italia, si è ormai raggiunto un livello di CGI tale da permetterci di iniziare ad affacciarci nei mercati internazionali, senza sentirci il fanalino di coda dell’industria dell’animazione.
Non avere una televisione in casa ti salva la vita ma ti fa arrivare tardi.
Ho scoperto solo mentre ero a Treviso del plagio di Woodkid nel video del nuovo “evento musicale” di Adriano Celentano, e mentre tutti dicevano: “Buuuuuu!” io pensavo
“Oh, no, l’hanno fatto di nuovo.”
Ma andiamo con ordine.
Nel 2005 la tv ce l’avevo ancora, e l’evento dell’anno sembrava essere Rockpolitik, la trasmissione televisiva del molleggiato che prometteva di suonarle a tutto e tutti.
La Rai ci credeva talmente tanto che decise di fare una massiccia campagna promozionale composta, per lo più, da tre promo animati.
Questi:
Vi ricordano qualcosa?
Già.
Tra il 2004 e il 2005 infatti, un po’ prima dell’uscita di quei promo lì, la Passion Picture aveva realizzato i videoclip promozionali del nuovo album dei Gorillaz.
Due di questi video, in particolare, fecero il giro del mondo sia per l’immediata presa dei pezzi musicali sia per l’indiscussa qualità artistica dei video stessi.
Questi:
Notate delle somiglianze? Delle leggerissime ispirazioni?
Tutto è plagio.
Le inquadrature, i movimenti di camera, addirittura il sound design.
E quando viene presa una direzione diversa dalla Gorillaz Matrice di partenza, il prodotto diventa improvvisamente più che mediocre.
La regia era di Gaetano Morbioli, uno dei nomi più noti tra i registi italiani di videoclip musicali.
Quei promo non gli fanno onore ma tant’è, in una carriera lunga può capitare.
Trascorsi sette anni però, l’accoppiata Morbioli/Celentano, torna a far parlare di sé per un nuovo, presunto, plagio e questa volta riguarda un artista che amo molto e a cui ho già dedicato spazio su QUESTE PAGINE.
Woodkid.
Sembra infatti che il promo di Rock Economy sia una copia spudorata del video di Iron, il primo singolo dell’artista francese.
Vediamoli.
Questo è il Celentano diretto da Morbioli:
EDIT: come potete notare, dopo la pubblicazione di questo post, e di altri che denunciavano la stessa situazione, la RTI ha tentato di bloccare la diffusione del video online.
E quindi ecco un altro link (fino a quando non bloccheranno anche questo!)
http://www.youtube.com/watch?v=8EjQw69GleI
e questo invece è “Iron”
Parlare di somiglianze è un eufemismo e mai il concetto di plagio è stato così ben riassunto in un unico prodotto.
Entrambi cominciano tra le nuvole
ma nel secondo caso c’è scritto il nome di Celentano che altrimenti non si capisce.
Il primo attacca col gufo.
Il secondo risponde con un barbagianni!
Il primo c’ha il suonatore di bonghi incazzato
Il secondo c’ha il suonatore di bonghi che ti chiede se c’hai 50 centesimi per fare il biglietto del treno.
Il primo c’ha quello che urla.
Il secondo c’ha quello che urla.
Sia nel primo che nel secondo i cani sono perplessi
e i tatuati si mettono di spalle.
Poi, nel primo, tutti si mettono a correre ripresi di lato mentre gli cadono addosso dei fumogeni.
Nel secondo tutti si mettono a correre ripresi di lato mentre gli cadono addosso degli improbabili effetti compositati.
Nel primo, quello che viene colpito cade da una parte.
Nel secondo quello che viene colpito cade dall’altra parte.
Perché non sia mai che in un video italiano non sia presente la solita buona dose di scavalcamenti di campo.
Nel primo, quel video e quel montaggio hanno un senso in funzione della musica, nel secondo, musica e immagini non legano in alcun modo, per cui, le ragioni del plagio restano del tutto oscure e fanno pensare a quella solita cialtroneria furbesca di cui siamo tra i massimi esponenti mondiali.
Il che è eclatante, considerato che nel tempo che ci sarà voluto per plagiare Woodkid, qualche buona idea sul piatto, poteva essere messa.
“Per fare le cose bene o farle male, ci vuole lo stesso tempo.” Diceva quello.
Lo stesso Celentano, sommerso dalle critiche, è stato costretto ad ammettere che il suo promo sia “ispirato” al video di Woodkid, ma è dalla bizzarra pagina Wiki di Gaetano Morbioli che emerge la verità.
Sorvolando sul passaggio che letto oggi sembra una presa in giro:
“Morbioli viene riconosciuto unanimemente quale videomaker che ha saputo in questo campo creare uno stile tutto suo e perfettamente riconoscibile, nel quale è possibile rintracciare delle mappature concettuali e creative, ricorrenti e persino ossessive.”
Si arriva ad una ben più notevole chicca:
“Sin da piccolo gli è piaciuto il videoclip dell’artista Woodkid, “Iron” ad opera del visionario regista Yoann Lemoine, tanto che ha deciso di plagiarlo in occasione dell’evento musicale Rock Economy di Adriano Celentano.”
Evidentemente, l’ignoto autore della scheda wiki non sa che Woodkid non è altro che lo pseudonimo dietro cui si nasconde proprio il regista Yoann Lemoine, ma la vera notizia che emerge da quelle righe è che
Morbioli era piccolo un anno fa.
E allora ritiro tutto e mi complimento.
Io da piccolo, al massimo facevo asticelle e palloncini.
Copiandole spesso e volentieri al mio compagno di banco.
E’ iniziata il 5, e continuerà fino al 13 ottobre, la rassegna annuale che la città di Roma offre agli amanti dell’Asia e delle sue espressioni artistiche.
Scrivo “offre”, perché la totalità dei film, dei cortometraggi, dei documentari, delle mostre fotografiche, degli incontri con gli autori e dei concerti, sono assolutamente, completamente, meravigliosamente, gratuiti.
Quest’anno, come negli anni precedenti.
E questo, unito alla qualità delle proposte in cartellone, mi sembra un ottimo motivo per partecipare e supportare l’iniziativa portata avanti dall’Associazione Mnemosyne.
Ieri pomeriggio c’ho passato un po’ di tempo.
Cornice dell’evento, come di consueto, lo splendido spazio Macro di Testaccio,
all’interno de La Pelanda
dove basta un minuto appena per comprendere la logistica interna tra sale di proiezioni, accessi e il fondamentale bar.
Ancora sfranti dalla precedente serata alcolica trascorsa con lo staff Rainbow CGI e altri amici, io e Meme abbiamo deciso di porci un tetto massimo di tre proiezioni.
Massimo tre proiezioni.
Questa la prima:
My fancy high heels, diretto da Ho Chao-ti, è un documentario che, in poco meno di un’ora, ci prende per mano e ci trascina in un viaggio a ritroso nella vita di una scarpa di lusso.
Dai piedi di una donna che la indossa orgogliosamente, si torna alle vetrine dove questi oggetti vengono venduti, si passa per le briglie della distribuzione,
nelle fabbriche dove vengono assemblate,
sulle scrivanie dove i design vengono approvati, nelle concerie dove le pelli vengono trattate, fino ai mattatoi dove vacche, o vitelli, sono massacrati a seconda che si voglia un prodotto di alta, o media qualità.
Il viaggio termina negli fattorie cinesi, al confine con la russia, dove si coltivano i terreni che daranno prodotti per il sostentamento degli animali da pelle.
Nelle immagini di Ho Chao-ti non c’è uno sguardo accusatorio.
Siamo lontani dai proclami animalisti e, per quanto alcune immagini siano decisamente forti e hanno portato buona parte dei presenti a lasciare la sala, l’interesse di Chao-ti è sempre rivolto all’uomo.
L’uomo che è parte di una catena che nasce, cresce e si sviluppa, nella ricerca del proprio sostentamento.
E non importa se i suoi sforzi serviranno alla vanità di esseri umani che non sapranno mai, né si chiederanno, quale sia il legame che li unisce.
L’uomo sopravvive con quello che ha e quello che inventa.
Lasciata la sala 2 e lasciata la Cina ci siamo spostati in Indonesia, dove il regista Garin Nugroho ci ha svelato i metodi in cui il fondamentalismo islamico cerca adepti per la propria jihad.
Seguendo le vite di tre ragazzi: Rima, Nanda e Asimah, scopriamo la realtà dei giovani indonesiani e come entrano in contatto con le derive estreme della religione islamica.
La regia è asciutta, privo di fronzoli e punta dritta alla comunicazione.
Nascondendosi dietro la tendina della fiction, Nugroho, ci porta dietro le quinte di un mondo reale non così diverso da quello in cui viviamo.
Un mondo dove il punto di partenza è quello ben noto anche in occidente dell’apatia giovanile e del disagio adolescenziale, ma quello d’arrivo prende le sembianze di uno dei più grandi orrori del nostro tempo.
Il terzo e ultimo film della serata era quello che, sulla carta, prometteva le maggiori emozioni (ed è stato quello che ha visto, effettivamente, il maggiore accesso di pubblico) rivelandosi non all’altezza delle aspettative.
3:11 – In the moment
di Kyoko Gasha.
Kyoko Gasha è una giornalista e reporter giapponese, che ha avuto modo di testimoniare in prima persona al disastro del crollo delle Twin Towers di quell’11 settembre 2001 che ha segnato il più importante spartiacque dell’epoca moderna.
Forte della sua esperienza ha cercato di raccontare le conseguenze, sull’uomo, della devastazione naturale che ha colpito la sua terra d’origine.
3:11 – In te moment, parte col botto.
Cinque minuti di immagini di repertorio, la maggior parte delle quali mai passate nei nostri network, che raccontano come le vite degli abitanti della costa nord orientale del giappone siano state distrutte da un terremoto e seppellite dallo tsunami.
La macchina da presa della reporter si ferma sui sopravvissuti, focalizzando il suo interesse sulle vite di alcuni personaggi che si sono occupati, più della ricostruzione umana che di quella architettonica o paesaggistica.
Ed è qui che la forza del documentario si incarta su sé stessa, perdendo, mano mano, di forza e incisività.
Perché per quanto possa essere interessante conoscere la signora che ha rinunciato a tutto pur di fare fisioterapia ad un gruppo di anziani, per quanto possa esserci utile sapere che degli asciugamani a forma di elefante possono contribuire alla ricostruzione di intere aree ridotte in macerie, un documentario che ha la pretesa di raccontare la distruzione e la ricostruzione di un popolo, non può fermarsi a questo.
Può dedicargli un capitolo del suo percorso, non la totalità.
Nel documento che Kyoko Gasha sta lasciando ai posteri, non c’è spazio per i ragazzi. Vediamo i bambini e gli anziani. Vediamo la reazione di due cinquantenni. Ma non abbiamo la risposta di una notevole fetta di popolo.
Non ci vengono dati gli strumenti per riuscire a capire a che livelli, e per quanto tempo, la distruzione avvenuta inciderà sul Giappone e sui giapponesi.
I problemi di mancanza di cibo, gli aiuti esterni, la perdita delle case e del lavoro, la radioattività residua nell’aria, sono argomenti che, quando non vengono del tutto esclusi dal racconto di Kyoko Gasha, sono trattati con estrema superficialità al servizio di una visione ottimistica spesso sconcertante, riassunta nell’opinione dell’anziana signora che ci dice che lo tsunami avrà portato anche tanta distruzione però è servita a farla entrare in contatto con tanta gente di buon cuore.
Nell’incontro al termine della visione del film, l’autrice svela che l’obiettivo primario che si è posta con questo documentario, è quello di farci capire che anche dalle disgrazie può nascere qualcosa di buono.
Sono d’accordo.
E condivido.
Ma questo documentario, purtroppo, non lo è.
E quindi, quante stellette meriteranno questi film?
My fancy high heels: 7 su 10
The Blindfold: 7 su 10
3:11 – In the moment: 4 su 10
Compatibilmente con i miei impegni di lavoro, proverò a passare ad Asiatica anche nei prossimi giorni.
Se ci siete, e io vi consiglio di esserci, ci incontriamo lì!
In tutto il mondo angloassone il termine Reality significa “realtà” e i Reality Show nascono come tentativi di rappresentazione e spettacolarizzazione della realtà stessa.
In Italia, non solo il doppio significato sparisce in funzione della sola accezione scenica e televisiva, ma venendo a cadere – nell’uso comune – il suffisso “show”, ecco che quella parolina: “reality” assume un volume contrario e opposto a quello originale.
“Perché lo sanno tutti che nei Reality è tutto finto.”
Garrone lo sa talmente bene che è proprio così che intitola il suo nuovo film, definendolo una fiaba.
“Volevo fare un film Pixar.” furono le parole che i giornalisti presenti durante il festival di Cannes si sbrigarono a riportare a tutto il mondo.
Parole capaci di spiazzare i presenti che ancora non avevano avuto modo di vedere in che modo Garrone fosse riuscito a sconfiggere l’ansia da prestazione, che da tempo lo affliggeva, nella ricerca del successore di quel Gomorra che aveva alzato di diverse tacchette il livello del cinema italiano, e la sua eco in quello mondiale.
E Reality, una fiaba lo è davvero.
Scritta da un Capra maligno e interpretata da attori usciti dagli inchiostri di un Dorè alle prese con l’Inferno dantesco, ma pur sempre, una fiaba.
La fiaba di Luciano, pescivendolo napoletano, che arrotonda la sua giornata con piccole truffe e rallegra quella dei suoi parenti con improbabili travestimenti, che un giorno decide di partecipare ai provini del Grande Fratello che si tengono in un centro commerciale locale.
Da lì, a una seconda convocazione a Cinecittà, il passo è breve e il sogno inizia a prendere forma.
La possibilità di cambiare vita, di smetterla con le truffe, di smetterla di svegliarsi presto tutte le mattine, e di poter ricominciare da capo.
Di realizzare i propri desideri.
Di essere riconosciuto per strada.
Benvoluto.
Cercato.
Voluto.
Ammirato.
Invidiato.
Ammirato.
Nell’ossessione della chiamata, avverrà la trasformazione.
Strepitosamente interpretato dall’ergastolano Aniello Arena, Luciano è un personaggio puro, folle e commovente.
Figlio della tradizione classica della commedia Napoletana, tra un De Filippo e un Principe De Curtis, Aniello porta sulla sua pelle tesa, tatuata e muscolosa, il riso amaro del neorealismo e il sacrificio dell’attore pronto a posare la maschera una volta sceso dal palcoscenico e a tornare alla sua realtà.
La realtà di un uomo incarcerato a 23 anni perché coinvolto nella strage di Piazza Crocelle a Barra avvenuta l’8 gennaio del ’91, e che soltanto nel teatro ha trovato la forza di andare avanti.
La realtà di un ergastolano che, dopo aver interpretato un uomo pronto a fare di tutto per entrare tra le quattro mura di una casa controllata 24 ore su 24, ha salutato tutti, ringraziato, ed è tornato nella sua dimora piantonata.
Dove non ci sono applausi né fischi. Solo attesa, rabbia e pentimento.
Contrariamente ai dettami del Reality televisivo, che trova nell’accostamento di camere fisse la propria misura e il proprio linguaggio, Garrone predilige l’utilizzo della macchina a spalla.
In questo modo segue costantemente i movimenti di Luciano comunicando l’idea di un Grande Fratello, che non l’abbandona mai.
Che gli punta contro il suo occhio non solo in sede di provino ma anche nei giorni successivi, sul posto di lavoro, nell’intimità delle mure domestiche.
E questo porterà Luciano ad abbandonare la sua vita di truffe, nell’assurda convinzione di essere costantemente spiato dagli inviati della trasmissione televisiva, rinunciando alla sua vera vita in funzione di una supposta verità televisivamente compatibile.
E’ qui che la realtà di Luciano si frantuma per lasciare il posto ad una reality da prima serata. Da televoto.
Qui Luciano diventa buono, e un po’ come tutti quei poveri cristi presenti alla Via Crucis all’ombra del Colosseo che chiedono la grazia in attesa della risposta del loro dio, accetta di buon grado di portare la sua croce.
Garrone, lontano dalle atmosfere cupe e documentaristiche di Gomorra, gioca la carta della commedia nella messa in scena di un’Italia ridotta in ginocchio dalla telereligione. Per questo motivo l’ìmmedesimazione è assoluta, la presa emotiva è letale, e il terrore si insinua sotto la nostra pelle e sale fino alla bocca.
Dove nel bivio tra un urlo e una risata, sceglie la seconda.
Il 5 febbraio 2011 è andato in scena per la prima volta al Nationale Theatre Live di Londra il Frankenstein di Danny Boyle.
La presenza del regista pluripremiato per essere il sosia meno riconoscibile di Morrissey
e per film come: Trainspotting, 28 giorni dopo, The Millionaire e 127 ore, non era però l’unico motivo per cui valesse la pena nascondersi in un angolo buio, sgozzare qualcuno dei fortunati possessori dell’invito e precipitarsi in sala vestiti di tutto punto.
Il motivo per cui l’omicidio sarebbe stato visto come una giusta causa era tutto nel nome degli attori coinvolti a dare vita all’adattamento scritto da Nick Dear:
Sherlock Holmes
e Sick Boy.
Oppure, se preferite,
Sherlock & Sherlock.
Oppure, se preferite ancora,
Benedict Cumberbatch
e Jonny Lee Miller
che si sarebbero alternati nell’interpretare, vicendevolmente, una sera uno, una sera l’altro, la matta matta genialità del Dottor Victor Frankenstein e la triste e rabbiosa solitudine della Creatura.
Avete capito bene, nel teatro più fico di Londra, diretti da Danny Boyle, su sceneggiatura di Nick Dear, e con la colonna sonora originale degli Underwold (già coinvolti da Boyle per Sunshine), Cumberbatch e Lee Miller hanno veramente interpretato entrambi i protagonisti del più bel romanzo gotico di sempre.
Solo quella sera? No, dal 22 Febbraio al 2 Maggio 2011.
Provai tre volte a comprare i biglietti e tutte le volte rimasi col telefono in mano come Bateman quando tenta di prenotare al Dorsia: tutto prenotato. Per sempre.
Così è la vita.
Come Bateman, la presi bene, e accettai anch’io il mio destino trascorrendo la notte a torturare ragazze ordinate su un catalogo ma poi capii che l’unica soluzione era andare a casa di Gondry e sottopormi ad un intervento per dimenticare tutto quel dolore.
Trascorsi tranquillamente la mia vita fino a quando non vidi questo trailer qui:
Alcune immagini apparvero nella mia testa come un’eco lontana.
Quei nomi mi dicevano qualcosa ma non riuscivo a mettere a fuoco cosa.
Gondry, stavolta aiutato da Jim Carrey, entrò in casa mia per iniettarmi del nuovo siero ma era troppo tardi, un altro trailer era già apparso davanti ai miei occhi:
Nulla potè l’eternal sunshine of the spotless mind contro la potenza dei link di Giovanni
Il quale, fiero e tronfio, mi salvò con una .jpg
e con due semplici parole: “Tre Ottobre“.
Ieri siamo andati.
In sala, il pubblico delle grandi occasioni: Gio’, Fede, Vale, Meme e il sottoscritto.
Più forse un altro paio di persone nascoste a pomiciare.
E basta.
Basta.
La possibilità di vederlo soltanto in lingua originale con sottotitoli in inglese ha probabilmente scoraggiato i più, o forse ha contribuito il fatto che l’evento non fosse pubblicizzato da nessuna parte.
Noi che c’eravamo siamo rimasti a bocca aperta.
Per la messa in scena che ha reso iconico ogni momento.
Per le idee, nuove, nuove veramente, nel rappresentare il mondo di Frankenstein allontanandosi dallo stereotipo del laboratorio dello scienziato pazzo e inchinandosi a quello che è, in tutto e per tutto, un inno alla vita. Per il modo in cui si è trovata una via personale per raccontare una storia che pur essendo vecchia di un paio di secoli non smette di continuare ad affascinare.
Per il lavoro fatto dagli Underworld sulle atmosfere
per quello di Miller nei panni di Victor Frankenstein e per la performance mozzafiato di Cumberbatch nei panni della creatura (e complimenti al trucco per il risultato clamoroso).
Voi che già stimate il lavoro di Cumberbatch, credetemi, fate in modo di recuperare questo spettacolo.
Purtroppo, in Italia, sono al momento disponibili soltanto altre tre date.
Soltanto in tre cinema verrà trasmesso l’adattamento filmico della piece teatrale.
In questi:
4 Ottobre
Milano – Cinema Mexico
10 Ottobre
Volterra – Cinema Centrale
16 Ottobre
Treviglio – Ariston
Se potete, non perdetevelo.
Se non potete, non disperate: la speranza che ne venga presto tratta una versione in dvd non è poi così campata in aria.
E’ solo questione di tempo.
Se invece siete alla ricerca di una versione digitale vi consiglio di tenere d’occhio QUESTA PAGINA fb.
La prima volta che ho visto i Radiohead dal vivo era il 22 giugno del 2000.
Ero il più piccolo di una macchina che conteneva donne capaci di pisciare ad ogni autogrill, la direzione era Firenze, la piazza Santa Croce e il tour quello di Kid A.
Nonostante fosse la prima volta che si riaffacciavano in pubblico in seguito al successo mondiale di Ok Computer, la scelta di suonare soltanto in caratteristici luoghi d’arte, permise giusto a qualche migliaia di persone di gustarsi il concerto.
La scaletta fu questa:
Optimistic
Bones
Karma Police
Morning Bell
How to Disappear Completely
Street Spirit (Fade Out)
Talk Show Host
The National Anthem
My Iron Lung
In Limbo
No Surprises
Climbing Up the Walls
Fake Plastic Trees
Exit Music (for a Film)
Airbag
Just
Everything In Its Right Place
Encore: Lucky Pyramid Song The Tourist Paranoid Android
Encore 2: Bullet Proof..I Wish I Was
ed io rimasi folgorato per l’eternità.
Da quel momento in poi, risposi alla chiamata ogni qual volta si presentarono in suolo italico (per non parlare di quando, per puro caso, mi ritrovai a vederli suonare a Londra) e acquistai qualsiasi bootleg si affacciasse sul mercato, anche solo timidamente.
Tutto questo non per dare un’improvvisa svolta hipster a questo blog e dire che i veri Radiohead li ho visti solo io e non voi che siete accorsi a Roma qualche giorno fa.
Nossignore. Ci mancherebbe. Ho una reputazione da rispettare, io.
Tutto questo per dire, invece, che ho esperienza sufficiente per poter affermare, senza timore di smentita, che il loro concerto del ventiduesettembreduemiladodici è stato in assoluto il migliore tra tutti quelli a cui ho assistito. E se voi c’eravate, avete fatto gran bene.
Ma andiamo con ordine.
Uscito The King of Limbs io feci: mh.
Anzi, più che Mh era: Mh. Mh. Mh. Con piccolissime pause, uno dietro l’altro, e l’espressione pensosa.
Non fraintendetemi, non sono un reduce di The Bends, di ascoltare l’ennesima riproposizione di Creep mi vengono le bolle e non rimpiango assolutamente i tempi di Ok Computer, anzi, per sgombrare subito qualsiasi dubbio, sappiate che il mio album preferito dei Radiohead è In Rainbows.
Detto ciò, The King of Limbs mi lasciò perplesso.
Discontinuo e troppo legato agli interessi dubstep di Thom Yorke, l’ottavo album in studio del collettivo inglese mi sembrava più il nuovo lavoro solista del loro cantante che l’espressione artistica di un gruppo coeso.
Questa sensazione era talmente forte che ne presi istintivamente le distanze, salvo poi iniziare a ripensarci dopo aver letto alcune dichiarazioni dei membri della band.
Mentre Thom lo definiva: “un ‘espressione di puri movimenti fisici e selvaggi”, Jonny Greenwood dichiarò a Rolling Stones che non aveva più voglia di imbracciare chitarre e mettersi a comporre con le corde.
“Non vogliamo neanche sederci di fronte a un computer. Quello che vogliamo è una terza ipotesi che includa suonare e allo stesso tempo sperimentare programmando nuovi software.”
Gli fece eco il chitarrista Ed O’ Brien che dichiarò che per loro fu come tornare bambini in un asilo. Dimenticare quello che sapevano e ricominciare da capo, giocando.
E dimenticare ciò che si è diventati per ricominciare da zero è il leit-motiv di una band che ha fatto del non sedersi sulle proprie conquiste, la propria ragione d’essere.
Ma trasformare quelle composizioni in materiale riproducibile dal vivo non dev’essere stato facile. Sei mesi, ha rivelato lo stesso Yorke. Sei mesi chiusi nel loro studio per tirare fuori delle versioni capaci di rappresentare e svelare il vertice del loro percorso più recente. Sei mesi e la scelta necessaria di inserire nell’organico un secondo batterista, quel Cleave Deamer che già s’era fatto notare nell’ultima tourné dei Portishead.
Ed è proprio con lui che hanno dato via al loro tour.
A quel punto, solleticata anche dallo splendido documento King of the Limbs: live from the basement, la mia curiosità era alle stelle.
I biglietti per le date italiane uscirono online mentre ero impegnato a tenere una lezione di regia, e bastò una ricreazione anticipata di dieci minuti per permettermi di accaparrarmeli immediatamente.
Ma ci si mise di mezzo il fato, il crollo di un palco, la triste morte di Scott Johnson e tutto slittò di qualche mese.
ci dissero loro. “Di nulla”, rispondiamo noi che ci presentiamo in massa alle porte di Capannelle.
Ora, se c’è un posto dove fa schifo vedere un concerto è proprio Capannelle.
Ok sì, fa schifo anche l’Atlantico, ma Capannelle è quel posto dove c’è sempre qualcuno che sta ballando la salsa alle tue spalle e per questo merita di sprofondare primo tra i primi.
Ma stavolta qualcosa è cambiato e io e gli altri 24998 presenti ce ne accorgiamo perché veniamo dirottati qualche migliaio di metri più in giù (scusate se non parlo del traffico surreale e delle due ore che ci volevano per arrivare perché io sono arrivato comodamente in scooter alla facciaccia vostra).
E “più in giù” voleva dire lontano da tutto ciò che rende Capannelle un posto osceno e molto vicino a quella che potrebbe essere la location ideale per questo tipo di eventi.
Giusto il tempo di comprare un paio di magliette (di rito) di abbeverarci e di imbatterci per puro caso in una collinetta che permetterà anche a Marti di gustarsi per bene il concerto, ecco che salgono sul palco Caribou e la sua allegra cricca.
Provo talmente tanto tanto tanto tanto amore per la creatura di Daniel Victor Snaith che non mi passa neanche per la mente di fare video e mi abballo che è una meraviglia tutti i pezzi.
Marti, tra un ballo e l’altro, trova il tempo di fare le due foto che vedete qui intorno.
Io invece vi segnalo la scaletta del miniset
Kaili
It’s a Crime (Virgo Four cover)
Leave House
Bowls
Jamelia
Odessa
Sun
e vi faccio sentire due dei miei brani preferiti tra quelli che hanno eseguito:
Odessa
e Sun
che se nella versione ufficiale dura quei 4 minuti scarsi, dal vivo vi porterà a ballare per un buon quarto d’ora.
Tutti contenti. Applausi applausi. Buio. Musica.
Sul palco salgono i tecnici e per la prima volta li vedo indossare tutti il completino a norma. L’esperienza, quindi, insegna.
Poi di nuovo buio.
Di nuovo applausi.
Ed ecco salire sul palco i protagonisti della serata.
Raccolgo ogni emozione nel polpastrello del mio pollice destro e premo REC.
http://www.youtube.com/watch?v=fdnOpdyFOqM
Con Lotus Flower, l’unico singolo (anche se vero singolo non è) estratto da King of Limbs danno inizio alla loro esibizione.
Il palco è una giostra di luci, colori, schermi, proiezioni e azzeccate regie e contribuisce a creare, insieme alla musica, un unicum emotivo che durerà per l’intera durata del concerto.
Il secondo brano in scaletta, Bloom, è quello che ha avuto l’onore di aprire il loro ultimo album in studio e. nella versione live, vede addirittura Johnny Greenwood unirsi ai due batteristi per sporcare con una rabbia quasi tribale, la controllata precisione di Selway & Deamer.
La scenografia trasforma il palco in un abbraccio liquido in cui perdersi senza alcuna rassicurazione.
http://www.youtube.com/watch?v=01BFeDgzwdM
Thom Yorke ci chiede in italiano se va tutto bene, e al nostro urlo di risposta inizia a ballare e a cantare sulle note di 15 Step.
Con questa canzone che inizia a prendere corpo la forma di un concerto che alternerà momenti riflessivi ad altri in cui il carismatico frontman si mostrerà decisamente più a suo agio di quanto lascia solitamente trasparire.
Ed O’Brien si toglie la maschera di reduce di una boyband anni ’90 e insieme al più irrequieto dei fratelli Greenwood pennella il tappeto sono di Weird fishes / Arpeggi
http://www.youtube.com/watch?v=rBbyL1AT2rc
che ci riporta nel passato di recente di In Rainbows.
Kid A è invece la filastrocca sghemba per i bambini di Akira che ci ricorda dell’album omonimo.
http://www.youtube.com/watch?v=meIYh7mvXbo
Morning Mr Magpie
http://www.youtube.com/watch?v=b44p9pC2L74
è una finestra (con un panorama molto più interessante di quanto sembrasse su album) che si apre sul loro percorso più recente, mentre
There There
http://www.youtube.com/watch?v=tXeUQyEge0Y
e The Gloaming
http://www.youtube.com/watch?v=cHa797qEUiI
aggiornano le diapositive del periodo Hail to the thief.
Terminati i convenevoli si entra nella seconda parte del concerto. Venticinque minuti sospesi tra le proiezioni più sognanti del loro repertorio più o meno recente.
Si parte con Separator
http://www.youtube.com/watch?v=SZi0LCsz3r0
si continua con Pyramid Song
http://www.youtube.com/watch?v=ofrsQIb1esM
affidata per una buona metà ai soli Thom Yorke e Johnny Greenwood.
Il primo al piano e alla voce, il secondo, novello Jonsi, intento a far suonare la sua chitarra come un canto di gabbiani ,sfiorandola appena con l’arco di un violino.
Il vertice emotivo del concerto, per chi scrive, si tocca con Nude, sulla quale Yorke torna a dedicarsi soltanto al bel ballo e alla voce, poggiandola sull’ipnotico loop creato dal Greenwood invisibile.
http://www.youtube.com/watch?v=efQoLZzly4w
Lo stesso Greenwood che, per la prima volta dall’inizio della sua carriera, muta la sua solita espressione passando da catatonico a basito
probabilmente per la visione improvvisa delle tette di qualcuna in prima fila.
Ma salutiamo Ultimate Greenwood, che Nude si è conclusa e possiamo goderci il rilassamento post-orgasmico, sulle note di Staircase.
http://www.youtube.com/watch?v=GtHDrPl4Tt4
La nostra sveglia buona. Quella che si può rimandare, e rimandare, e rimandare ma che a un certo punto ti convince ad alzarti e a muoverti.
E poco importa che il risveglio sia affidato al rock recente di I might be wrong
http://www.youtube.com/watch?v=0vEGY3lC6cU
a quello passato di Planet Telex
(“a very old, old, song” ripescata per questo tour e che infatti mostra tutto il tempo passato dagli esordi ad oggi)
http://www.youtube.com/watch?v=hTA277Hfyag
O all’elettronica selvaggia e allo stesso tempo minimale di Feral
e dell’immancabile Idioteque
http://www.youtube.com/watch?v=kXs-QL-18v8
in seguito alla quale, la band fa un lungo inchino e ci saluta tra gli applausi della folla che già pregusta il loro rientro in scena.
Il primo encore è affidato alla piccola tragedia per voce, chitarra e valvole di
Exit music (for a film)
http://www.youtube.com/watch?v=AZWushqZurs
che, non è stata rovinata nonostante l’impegno di alcuni simpatici urlatori tra il pubblico.
Ma gioite, se tutto è andato come doveva andare, ossia se almeno metà delle mie maledizioni è andata in porto, adesso stanno serenamente continuando a urlare nel reparto di Estroflessione Anale del Gemelli.
House of cards è una carezza autunnale
http://www.youtube.com/watch?v=Nl-xpvKKbF4
e The daily mail
http://www.youtube.com/watch?v=2u0G2GguwWY
una lettera sarcastica dedicata, tra sorrisi e applausi, al nostro ex presidente del consiglio.
Sulla furia viscerale di Myxomatosis
http://www.youtube.com/watch?v=GcQzvPScZWU
Thom Yorke urla, rappa e balla coinvolgendo tutto il pubblico e preparandolo all’arrivo del momento che tutti stanno sperando e aspettando.
Paranoid Android
http://www.youtube.com/watch?v=nhNZo63D_LM
La Happiness is a warm gun dei Radiohead, presenza costante di ogni loro concerto dal 1997 a ieri sera, non smette di emozionare e coinvolgere un pubblico adorante che, per la prima volta durante tutto il concerto, spezza la coltre di silenziosa devozione e si lancia in un coro unanime di 25.000 voci che ne fanno una sola insieme a quella di Thom Yorke.
E’ il momento del secondo saluto.
Il concerto sta per finire, molti sono addirittura convinti che sia appena concluso, ma non è così.
C’è tempo per un secondo encore che si apre con la canzone di King of Limbs che più di tutte avevo sottovalutato, ma che nella sua versione live schizza in cima alle mie favorite di sempre.
Give up the ghost
http://www.youtube.com/watch?v=fvJabe80Rzg
Si continua con quella Reckoner che spesso durante questo tour è stata dedicata a Scott Johnson
http://www.youtube.com/watch?v=5ZtW0ovf8rc
e si conclude con quello che sempre più spesso è il loro saluto di rito.
Everything in it’s right place
Per l’occasione, introdotta dalle note di Small Axe di Marley, che vanno a prendere il posto di The One i Love dei R.E.M. e di After the gold rush di Neil Young con cui Thom apriva il brano quest’estate.
A questo punto, io diligentemente, spengo la videocamera, ingoio i miei principi e getto alle ortiche quel poco di dignità che mi è rimasta urlando a squarciagola “Yesterday i woke up suckin’ a lemon”.
Per questo motivo il video della loro ultima canzone (come anche quello di Feral che l’ho passata a ballare) sono andato a cercarlo sul tubo in modo da farvi gustare tutto il concerto di seguito.
Qui vi ho linkato i brani presi singolarmente, ma se volete godervi le due ore di concerto tutte di filato e in HD vi basterà premere Play sul filmato qui sotto e partirà una playlist creata appositamente!
I Radiohead oggi sono questo.
Una band partita dall’analogico che ha trovato la sua realizzazione nella commistione col digitale e che oggi propone uno spettacolo che è l’ibrido perfetto tra i due estremi.
Vederli divertiti e concentrati a cavallo tra strumenti tradizionali e software brevettati da loro stessi è lo scherzo che svela quanto il punto d’arrivo raggiunto con Ok Computer sia tornato ad essere – oggi più che mai – nient’altro che Ok Humans.
Ieri, nella loro ultima data italiana, hanno annunciato che per un po’ non torneranno ad esibirsi nel bel paese.
Spero davvero che non ve li siate persi.
In caso contrario, rincorreteli.
Da qualche parte stanno suonando.
P.s. Tutte le foto a corredo di questo articolo sono di Martina.
Se volete vederne altre, seguitela sul suo account Instagram: mememonamu
Checché ne dicano i giovincelli, la maledizione del supereroe è e sarà sempre quella di mantenere segreta la sua identità.
In questo modo i supercriminali non gli si presenteranno direttamente alla porta di casa spacciandosi per quelli dell’Acea.
Quelli dell’Acea non gli si presenteranno direttamente alla porta di casa spacciandosi per il Dr. Octopus.
Nessuno scoprirà quello che scriveva sui forum 15 anni fa.
Le sue fan potranno continuare a fantasticare su cosa si nasconda sotto quella maschera.
E’ per questo che, a malincuore, ho deciso finalmente di smetterla di presentarmi al mondo con le mie solite fattezze di Capitan Paranoico
e di iniziare a proteggere la mia reale identità.
La ricerca di un travestimento adeguato non è stato facile e dopo aver inutilmente tentato di celarmi dietro le rassicuranti fattezze di Lolita Barbuta,
o dietro quelle più avvenenti ma inevitabilmente perplesse di Lolita Barbuta Dark,
di BiDimensio, l’uomo mezzo piatto
o di El Luchadero Entelletualo
ecco arrivare, limpida, chiara, inequivocabile, la soluzione.
Dopotutto, se per Superman va bene da più di sessant’anni, perché non dovrebbe funzionare anche per me?
Date quindi tutti il benvenuto a Clark Mauro Kent, l’identità dietro cui mi celerò da oggi in poi.
Per quanto si faccia fatica a riconoscermi dietro quel look introverso e sbarazzino, quello sono io.
Quello è il fardello che sono costretto a trasportare sulle mie spalle per impedire di mettere in pericolo la mia vita e quella dei miei cari.
Ma non temete…
Nella notte più buia e nell’alba più splendente, Capitan Paranoico, continuerà a vegliare su di voi!
L’aspetto più interessante di Prometheus è che, a livello karmico, riequilibra lo splendore fuori scala di Alien.
Ridley Scott infatti ci presenta sostanzialmente lo stesso film ma si impegna a sostituire certosinamente, una ad una, le scelte azzeccate del 1979, con una loro controparte 2012 casuale e sciatta.
La sacra quadrilogia di Alien è una roba talmente alta che nemmeno le orribili contaminazioni contro Predator sono riuscite a scalfire.
Una roba talmente alta che l’annuncio di un quinto film sarebbe stato salutato da tutti con orrore a meno che non avesse recato in calce la firma del proprio papà.
E così è stato.
Per mesi si sono susseguite le voci su un ipotetico prequel della saga che avrebbe fatto luce sui misteri legati allo Space-Jockey che si vede nel primo capitolo, e a tutti quei bui angoli di mitologia che ne hanno caratterizzato buona parte del fascino negli ultimi trent’anni.
Ma come tutte le più belle cose, anche queste voci vissero soltanto un giorno, come le rose.
Per motivazioni che partono da mere questioni contrattuali e arrivano a toccare la propria sfera personale, Ridley Scott non avrebbe diretto il prequel di Alien, bensì Prometheus.
Il 12 aprile 2012 fu chiaro a tutti cosa realmente avesse in testa il regista britannico.
Fu chiaro a tutti che Prometheus pur non essendo, ma sarebbe comunque stato.
Guardate, guardare che bello:
Il problema dei trailer è che spesso sono seguiti dai film.
Un film che si apre con un umanoide che beve un espresso e cade sfaldandosi in mille pezzi nella vicina cascata, dando così origine alla vita terrestre.
Questa, che mi sento di condividere, è la spiegazione che mi ha dato Rrobe perché né io, né tutti quelli con cui ho parlato, l’avevamo capito.
Ma torniamo al film, che continua migliaia di anni dopo, quando per andare a prendere contatti con la razza aliena che ha creato l’umanità, viene inviata una spedizione composta da scienziati innamorati
geologi punkabbestia,
scaltri biologi
l’androide diafano, poetico e filosofo
quattro segnalini de L’isola di fuoco
e una fregna incazzata
Come andrà a finire? Come vi aspettate.
Tutti i personaggi tentano di replicare il loro corrispettivo del 1979, eccetto Charlize Teron che infatti è l’unica a portarsi a casa qualcosa di decente.
Per il resto, Lindelof scrive svogliatamente.
Non Svogliatamente Lost (ossia quella tecnica con cui uno o più sceneggiatori mettono in bocca ai personaggi una serie infinita di frasi a caso finché lo spettatore non dice “Eh?” e loro gli rispondono in coro: “Cazzooooooo!”) ma svogliatamente e basta.
Alla fine del film non si resta senza risposte, gliene va dato atto. Bravo Lindelof.
Ma questo succede perché le domande non vengono proprio in mente, tanto è il disinteresse verso quei personaggi e quello che avviene in scena. Cattivo Lindelof.
Gli attori recitano tutti offrendo il minimo sindacale ma comunque il premio per la peggiore in scena è tutto per la Rapace
che può strillare quanto vuole ma, come ha dimostrato anche il recente orrore di De Palma, anche diretta da mostri sacri, si rivela una cagna, cagna maledetta.
Il migliore in campo, com’era prevedibile, è Fassbender, che se ne bulla il giusto
Ma il problema vero è Scott che li dirige con scarsa attenzione e arriva anche a relegare le (poche) buone intuizioni registiche a niente più che inside joke che rimandano al primo Alien.
E di rimandi, questo film, ci muore.
Ci muore perché il primo Alien è stato la pietra angolare su cui si è basato un certo tipo di cinema della tensione e ancora oggi viene studiato nelle scuole di cinema scomposto in tutte le sue parti.
Perché come dice Rrobe in questa recensione qui, tutto in Alien è stato dell’arte: scrittura, regia, interpretazioni, fotografia, suono e – soprattutto – design. Tutto è così ispirato da falciare gli antecedenti e a risultare unico in ogni sua scelta.
Prometheus invece crolla proprio su quelli che erano i punti di forza dell’antecedente.
Se già ho detto di scrittura, regia e interpretazioni, il tonfo maggiore arriva nelle atmosfere plasticose e patinate che stanno ad Alien come l’orrendo Tron Legacy stava all’immortale Tron.
Nella colonna sonora anonima e fuori contesto per la maggior parte dei momenti clou, ma soprattutto in un design che grida vendetta, odio, ecatombe e disperazione.
Ma è nei ricalchini pedissequi alle tecnologie, nelle astronavi, nelle planimetrie, di Avatar che il ritorno alla fantascienza di Ridley Scott fa la figura più meschina. Nella copia di un film recentissimo e troppo famoso per poter essere plagiato in questo modo anche nell’utilizzo della stereoscopia, che tanto in Avatar ci permetteva di entrare in un nuovo mondo
tanto qui restituisce l’effetto di una postproduzione farlocca e bidimensionale.
Ma purtroppo, e per fortuna, non si vive di solo Avatar, ma quando ci si allontana dal film di Cameron e si tenta di ripercorrere le tracce che furono di Giger, la bestemmia è completa.
I troni si riempiono di ghirigori
l’allegoria si fa cialtrona
involontariamente comica
E alla fine, quel che resta, è la delusione di assistere ad uno spettacolo che, nonostante il dispiego economico, non è altro che la brutta copia di qualcosa d’importante.
Come ritrovarsi in mano, per il proprio compleanno, la sottomarca cinese del nostro pupazzo preferito.
Anzi, peggio.
Stellette? 3 su 10
P.S.
Mega nota di merito al tizio seduto vicino a me che, alla vista del logo animato della Scott Free
ha detto: “Oh, mica lo sapevo che ‘sto film l’hanno prodotto quelli della Fandango.”
E all’amica che gli ha risposto: “L’italiani piangono sempre miseria e poi vedi, i soldi pe’ fa i film stranieri li trovano sempre!”