Se qualcosa di buono l’ha fatta, questa edizione del Festival del film di Roma 2012, è stata premiare Larry Clark con il Marc’Aurelio d’oro per il suo ultimo lavoro: Marfa Girl.

Togliamoci subito di torno le F.A.Q.

E’ il miglior film di Larry Clark?
No.
E’ un tassello imprescindibile della sua filmografia?
No.
E’ un passo avanti nel suo percorso autoriale?
No.
E’ un passo indietro?
Neanche.

E insomma, checccazz’è Marfa Girl?

E’ il nuovo film di Larry Clark.

Ma ci sono i soliti adolescenti?
Certo.

Che scopano?
Sì.
E si drogano forte senza che nessuno gli dica che è sbagliato. E suonano male senza che nessuno gli dica che è corretto. Gli unici rapporti che hanno  con gli adulti sono riconducibili all’incapacità di comunicarsi i rispettivi bisogni e vivono immersi in una realtà decadente che è una gabbia con la finestrella aperta dalla quale non potranno comunque fuggire perché sono legati per entrambi i piedi.

 

La solita storia, quindi?

Sì.

E no.

Per cui, se odiate Clark e le sue ossessioni, saltate pure al post successivo (o al precedente).

Se invece vi riconoscete nella sua poetica, se adorate il suo sguardo sulle cose, se non siete stanchi di ascoltare la sua canzone ma ne vorreste ancora, continuate a leggere.

Fatelo anche se siete tra quelli che non hanno idea di chi sia questo bizzarro individuo nato a Tulsa, Oklahoma, 70, precisi, anni fa, perché adesso ve lo racconto.

(Say: “wiiiiiiii!!!!”)

Mister Clark nasce da madre fotografa, e per accontentare in tutto e per tutto il proprio dna decide di iniziare a spaccarsi di anfetamine intorno ai sedici anni. Così. Perché le compagnie non possono essere cattive quando sono le uniche a disposizione.

Di sfascio in sfascio, tra il 1963 e il 1971 decide di fotografare ciò che fa e ciò che vede. E quel che fa e che vede (compresa la parentesi nella guerra del Vietnam) non è bello, anzi, è la rappresentazione perfetta di ciò che più terrorizza il genitore ciccione americano medio.

Le sue fotografie mostrano adolescenti provenienti dalle più differenti classi sociali, uniti dalla livella della tossicodipendenza e della promiscuità sessuale.

Le sue immagini immortalano luoghi e momenti che diventano universali aprendo per la prima volta gli occhi al mondo su cosa fossero realmente gli adolescenti, a dispetto di quanto raccontato  e mostrato nei canali televisivi in chiaro.

Il volume che raccoglie questi documenti si intitola Tulsa ed è stato fondamentale per forgiare l’immaginario di molti di quelli che ci si sono imbattuti.
Tra i tanti, lo Scorsese di Taxi Driver e il Van Sant di Drugstore Cowboy che lo citano al primo posto tra le loro fonti d’ispirazione.

A Tulsa hanno fatto seguito due altri volumi: Teenage Lust e The perfect Childhood dalle identiche tematiche e con una focalizzazione sempre più ossessiva verso l’adolescenza.

Di gioia in gioia, quindi, si arriva al 1993, anno in cui per la prima volta Clark si ritrova dietro a una macchina da presa per girare il videoclip di Solitary Man di Chris Isaac

A Larry il gioco piace parecchio, e visto che nel video ci sono già molti dei suoi elementi caratteristici tranne i minorenni, decide di mettersi nuovamente alla prova.

Ma stavolta con un film.

Galeotto fu l’incontro con quel giovincello di Harmony Korine.

Immaginate di essere un po’ pischello, un po’ skater, un po’ tossichello, un po’ aspirante fotografo, un po’ scrittorino, un po’ ventenne e di imbattervi in Larry Clark che se ne passeggia tranquillo per Washington Square Park. Immaginate che vi prenda un colpo tanto forte da placcarlo e dirgli che avete la sceneggiatura che fa per lui.

Immaginate che lui vi dia retta.

Shakerate e fate passare due anni.

Kids colpisce al petto come un’inaspettata ginocchiata al petto durante l’esibizione degli Slayer durante il farlocco tour di reunion dei Sex Pistols (true story).
Che sì, dici, la ginocchiata ci sta, ma proprio al petto?

Ecco. Per quanto tu possa immaginare cosa sta per raccontarti Clark, il modo in cui lo fa rimane sulla pelle fino a macchiartela. E proprio come il livido sul petto ci mette mesi ad andarsene e a volte, con la giusta luce, ti accorgi che ancora un po’ si vede.

I ragazzi s’innamorano. Escono. Si incontrano per la prima volta. Si baciano per la prima volta. Si fanno per la prima volta. Uccidono per la prima volta. Fanno sesso per la prima volta. Crescono per la prima volta.

E Clark è proprio lì che li fotografa, in quella precisa fase di passaggio, testimone tra il prima che è sempre stato e un dopo col quale per tutta la vita si troveranno a fare i conti.

Non ti dice da dove vengono, ma ti mostra quel che fanno e quello che potranno un giorno diventare.

A meno che non siano loro stessi a decidere di interrompere il cammino, come gli assassini di Bully

o come il suicida Ken Park del film omonimo.

Sempre adolescenti, sempre Korine in fase di scrittura (ma da un suo vecchio script, che nel frattempo i rapporti tra i due erano andati a marengo e l’ex skater aveva deciso che sarebbe diventato un regista bravissimo. Cosa, effettivamente, poi successa) e sempre vietato in mezzo mondo a causa del suo contenuto shock riassunto nell’equazione: sesso, droga, morte, minorenni.

Questo, quindi, il vietato mondo di Larry Clark.

Queste la sue ossessioni che, come dicevo qualche riga più su, tornano, sempre meno prepotenti, anche in Marfa Girl.

I colori sgargianti hanno preso il posto del bianco e nero.
La decadenza delle immagini ha ceduto il passo ad uno stile cesellato e morbido.

Ma soprattutto, la repulsione che suscitavano gli adolescenti degli anni 70 è svanita del tutto.
Ci si immedesima nei ragazzi di Marfa invece di prenderne le distanze e in questo sta tutto il cambiamento della società che da anni Clark racconta.

La società è cambiata. Alcuni tabù sono crollati. Altri aspetti sono stati accettati.

Quello che non cambia sono proprio i ragazzi e il loro big bang emotivi, l’entropia che li circonda e che può annullarli in un secondo così come farli risplendere per tutta la vita.

Per questo ci sarà sempre bisogno di un film di Larry Clark.

Perché per quanto i ragazzi non possono far altro che essere tali, è il mondo intorno a loro che muta, interrogandosi su cosa siano questi piccoli alieni che popolano la Terra, e come si possa arrivare a comprendere quante cose nascondano dietro quei sorrisi, dentro quelle incostanti malinconie.

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Grazie ad una splendida iniziativa del Kino, ho potuto trascorrere una serata con Larry Clark partecipando ad un interessante incontro che lo vedeva protagonista.

Questo il video integrale.

http://www.youtube.com/watch?v=0xgwJInwevA
Se siete suoi fan, o anche solo ne siete rimasti incuriositi da questo post, dategli un’occhiata.
Ne emergono parecchie di cose interessanti.

A causa dell’eccessiva durata della conferenza, non sono riuscito a fargli la domanda che volevo (nel video, risponde solo alla prima parte), ma fortunatamente riesco a raggiungerlo dopo e gli chiedo quanto, dalle foto per Tulsa fino alle riprese per Marfa Girl, siano cambiati gli adolescenti in relazione a lui.
In che modo, anche la sua crescita e notorietà come regista abbia influito sul modo in cui i ragazzi accettino di farsi riprendere dal suo occhio.

Mi ha risposto: “Non c’entra la fama. Oggi come allora, la caratteristica fondamentale dell’adolescenza è esibirsi, sfoggiare una caratteristica per trovare la propria identità.
Sono cinquant’anni che li racconto, e in cinquant’anni non ho mai conosciuto un adolescente che non volesse essere raccontato.”

A quel punto sopraggiunge Martina che finora aveva fatto le belle foto che vedete qui intorno. Le chiedo di fotografarci insieme, lei lo fa ed eccomi qui in tutta la mia beata beotezza.

Clark indica la mia maglietta e mi dice: “Io con lui ci ho lavorato! E’ il matto problematico più fottutamente romantico che abbia mai conosciuto.” E credo che non esista modo migliore per descrivere Daniel Johnston.

Martina si presenta e gli chiede se può fargli una domanda. Lui dice di sì.

“Chi è la ragazza di Marfa? Nel film se ne vedono tante, ma qual è quella a cui hai dedicato il titolo?”

Lui le sorride, e abbassando la voce risponde: “Il titolo è dedicato a tutte le ragazze di Marfa. Noi siamo le ragazze di Marfa, esattamente come noi siamo tutti Ken Park.”

Con queste parole ci firma la cartella stampa del suo film, e ci saluta, salendo sul taxi che lo porterà in stanza.

Sarà a Roma, per qualche giorno ancora.

 

“La vendetta non invecchia mai.”

Una frase di lancio che non trova riscontri nei 97′ della pellicola ma che dice molto sull’approccio avuto da  Hill nella realizzazione del suo ventiduesimo film.
A settant’anni dalla nascita, e a trenta esatti da 48 Ore, il regista statunitense torna sui luoghi del delitto che lo consacrarono al grande pubblico come alfiere di quegli action buddy movie che da lì a poco sarebbero letteralmente esplosi con la saga di Arma Letale.

E ci torna con una grossa consapevolezza del tempo trascorso, affidando ai protagonisti della sua storia un volto segnato dal passato e un altro pulito e in attesa di futuro.

Stallone è un sicario vecchia scuola.
L’ironia della sua lingua è più tagliente della lama del coltello che abbatte sulle sue vittime, e gli spari della sua pistola sono un pelo meno roboanti delle gran mazzate che ancora riesce a tirare.
Non ha un cellulare, non conosce internet e la sua è una vita semplice: prende dei soldi “da dei pezzi di merda per fare fuori pezzi di merda ancora più grossi”.
Con quei soldi paga i debiti d’affetto nei confronti della figlia (che dalla morte della moglie vede di rado) e trascorre il resto del suo tempo in una rimessa di barche nascosta tra le fratte.

In pace. Sereno con sé stesso.

Fino a quando non gli ammazzano il suo compagno di scorribande, il giovane sicario che lo accompagnava in tutte le missioni.

 

Sung Kang invece, estirpato dalle auto di Fast & Furious, è un detective di nuova generazione ma di stampo classico.

Nero Wolfe da Blackberry, risolve i casi semplicemente smuovendo i suoi contatti che, a differenza della Diane che nulla concedeva al povero Agente Cooper, si preoccupano di dargli tutte le risposte che gli servono nel giro di una manciata di secondi.

La trama la sapete ancor prima di leggerla qui, o di vedere il film in sala.

I due si uniranno per motivazioni diverse e uno scopo comune, si stuzzicheranno, litigheranno, si separeranno e alla fine si riuniranno dopo aver imparato molto l’uno dall’altro.

Same old, niente di nuovo sotto il sole e menomale.

Perché quello che interessa a Hill non è innovare, né reinverdire i fasti di un’epoca passata, ma mostrare quanto, nella lotta del vecchio contro il nuovo, il vecchio sia ancora il cavallo vincente.

“Sarò anche vecchio, ma te le posso ancora suonare.” Dice Stallone a Sung Kang e gli crediamo talmente tanto che è proprio per questo che il castello crolla sparpagliandosi in mille carte.

Perché la ragione d’esistere dei Buddy Movie è proprio data dall’equilibrio tra i due protagonisti.
I limiti dell’uno vengono suppliti dalle peculari caratteristiche dell’altro ed è solo la loro perfetta integrazione che è in grado di fare la forza.

E questo, forse a causa dell’ingombrante presenza di Stallone come parte attiva nella preproduzione (e di Walter Hill che ci teneva a dirigerlo per la prima volta), è il limite più grosso della sceneggiatura scritta dall’italiano Alessandro Camon.

Un limite che, per quanto mi riguarda, compromette tutta la struttura del film, ma sono certo che lascerà comunque la stragrande maggioranza del pubblico contenta e soddisfatta.
Perché Jimmy Bobo è un personaggio all’interno del quale Stallone gigioneggia e giganteggia il giusto, un personaggio adorabile che non sbaglia un colpo e che vorremmo rivedere in diecimila altri sequel.

Il suo buddy, Taylor Kwon è invece un disastro.

Tutto ciò che nel primo atto viene sapientemente inserito per costruirlo, sparisce nel secondo e viene completamente dimenticato nel terzo, al punto che lo stesso Hill se ne rende conto e decide di toglierselo dalle scatole proprio nel momento in cui dovrebbe emergere.

Se a questo aggiungiamo una regia solida quanto priva di guizzi e tormentata dall’asfissiante presenza del filtro Burn di After Effects

(che nelle intenzioni di qualcuno dovrebbe fare giovane e invece riesce solo a suscitare grandi risatoni dall’aldilà alla buon’anima di Tony Scott) ecco che quello che rimane è niente più che una robina.

Una robina con tante buone cose,

altre decisamente meno buone,

e che in finale, si limita a scivolare via come un martedì pomeriggio.
Quando invece poteva essere sabato.

 

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Stellette? 5 su 10

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In seguito alla proiezione del film ho avuto modo di partecipare alla conferenza stampa e riprenderla tutta.

Se riuscite a resistere a un Walter Hill inutilmente svogliato e incapace di rispondere a qualsiasi domanda, ne riceverete in cambio uno Sly che è ESATTAMENTE come sperate che sia nella vita reale.

Guardatevela.
Il loro inglese è decisamente accessibile, e in ogni caso sarete aiutati dalla traduzione simultanea che avevo in cuffia.

http://www.youtube.com/watch?v=sHDHBmqJTnc

Ascoltare Stallone parlare dei suoi inizi con Woody Allen e delle sue idee su Rocky e su ipotetici sequel di Rambo, ma soprattutto sentirgli dire, rivolto verso tutta la sala, che nella vita non bisogna mollare, e che se ci è riuscito lui, tutti possono riuscirci, è stato davvero, davvero, emozionante.

Concludo con due chicche nerdine.
La prima, poco interessante, è che Bullet to the head è l’adattamento di un fumetto francese che in Italia non ha letto nessuno.
La seconda che invece fa molto Trivial è che Walter Hill si è divertito ad ambientare la lunga sequenza dello scontro finale nella stessa centrale elettrica che fece da sfondo a L’eroe della strada, il suo film d’esordio nel dorato mondo del cinema.

E questa, giocandovela bene a fine proiezione, allontanerà tutte le donne intorno a voi per un raggio di 700 metri ma susciterà la stima dei vostri buddy.

 

Six Days Under.

21 novembre 2012 da Mauro

Ci sono voluti sette anni dalla sua conclusione e l’insistenza continua di Ivan & Solina e l’appoggio di Meme per farmi vedere Six Feet Under. 


Non che avessi qualcosa contro questa serie, anzi. Avevo visto la prima stagione e l’avevo adorata, ma sulla seconda il mio interesse era calato e non ero mai ritornato sui miei passi.

Col senno di poi capisco che non era il momento.

Six Feet Under è il più grande affresco mai realizzato su cosa sono oggi l’uomo e la donna.

Cosa sono nel momento in cui si uniscono e si dividono.
Cosa sono al cospetto della famiglia, delle amicizie, della paternità, della maternità, della vita e della morte.

Ci mette davanti a ciò che siamo e non limitandosi a farci da specchio, ci mostra anche ciò che sono gli altri e quanto ogni cosa sia conseguenza ma quasi niente una risoluzione.

Alan Ball e il suo gruppo di geniali sceneggiatori non ci fanno domande e non si preoccupano di darci delle risposte. Si limitano a mettere in scena uno spettacolo che dura cinque anni e ne dura anche cento.

Uno spettacolo che non aveva precedenti e che ha inciso profondamente nel linguaggio delle serie tv, cambiandolo e aggiornandolo come il cinema non è ancora riuscito a fare.

Uno spettacolo composto da attori capaci non solo di crescere coi loro personaggi, ma di incarnarli e donargli anima e corpo al punto da rendere impossibile la scissione tra l’uno e l’altro.

Uno spettacolo in cui ogni canzone scelta fotografa il momento rendendolo universale e sottolineandone l’unicità.
Ci riescono i Radiohead, ci riescono gli Arcade Fire ma soprattutto ci riesce Sia, a cui vengono affidati i sei minuti e trenta della conclusione dell’ultima puntata.

Sei minuti e trenta di ininterrotta commozione, gioia e malinconica serenità.

Questi sei minuti e trenta qui:

(guardateli solo se già avete visto tutte le puntate, altrimenti spoiler come se piovessero)

E a causa di quei sei minuti e trenta e di cinque stagioni che, tra alti e bassi, mi hanno detto tutto quello che non avevo il coraggio di ammettere, ho passato gli ultimi sei giorni della mia vita immobilizzato sul letto.

Mai successo prima che un prodotto di fiction riuscisse ad essere così penetrante da rendermi incapace di alzarmi, di scrivere, di muovermi e di lasciarmi solo con il soffitto e i suoi puntini neri, nascosti dal bianco.

Mi rendo conto che a guardarmi da fuori sembro decisamente  scemo, ma è perché, voi che mi guardate da fuori, non avete visto le cinque stagioni di Six Feet Under, altrimenti mi chiedereste di farvi posto per mettervi a guardare il soffitto insieme a me.

Mai successo prima, dicevo.  E questa, come ogni cosa nuova, è una cosa importante.

Ma adesso è il momento di alzarsi e ricominciare a fare.

Con consapevolezza.

Everything.
Everyone.
Everywhere.

Ends.

 

 

Da qualche giorno è iniziato il Festival Internazionale del Film di Roma e io, che per Muller provo un’adorazione profonda, decido di partecipare per la prima volta alla kermesse che si svolge da sette anni nella mia città.

Della trafila necessaria per ottenere gli accrediti, così come dei film visti fino a questo momento, ve ne parlerò nei prossimi post.
Ora è fondamentale parlarvi del supereroe che ho conosciuto in fila alla cassa del bar.

Le file alle casse del bar dell’Auditorium sono parte integrante del programma.

Puoi scegliere se partecipare a Abbiamo finito i soldi spicci per il resto, la fila neorealista fuori concorso, o a Non funziona la macchinetta del bancomat! che è quella in concorso, dura 90 minuti ed il colpo di scena spoilerato nel titolo viene rivelato solo nel momento in cui arrivate al cospetto della cassiera.
Per i curiosi che vogliono sapere come mai non venga attaccato un cartellino con l’avviso lì sul muro, sembra stiano realizzando un prequel.

Io decido di partecipare a Non funziona la macchinetta del bancomat! ma il caso vuole che arrivi in fila esattamente nello stesso istante in cui arriva un uomo alto, ben piazzato, camicia bianca, giacca nera, elegante, integerrimo, tutto d’un pezzo.

Un uomo così.

Il dialogo che seguirà tra noi due è una fedele trascrizione di quello realmente avvenuto perché, ancora estasiato dall’incontro, mi sono precipitato a tavola e ho riportato parola per parola sulla cartella stampa del film che stavamo per vedere.

(sì, ho dei problemi)

Per immergervi maggiormente nell’atmosfera del dialogo, io e Marlon Brando ci siamo adoperati per voi.


“Prego, passi lei, che ha la maglietta di uno preparato sul cinema.”

Inizia tutto così. Lui che mi vede vestito da straccione, con i jeans sdruciti e la maglietta di Vixen.


Ma no, si figuri.” rispondo io sorridendo “Vada avanti lei!”


Ma lei è preparato veramente?

Approfondisce.


“Abbastanza.”

Rispondo dopo averci pensato un attimo.


“Non come me.”

Lapidario


“Sicuramente”. 


“E che ne sa che sono preparato? Mi crede sulla parola?”


“E’ vestito come uno preparato.”

E a questo punto lancia il suo affondo.


“Io ho messo in ginocchio anche Tarantino, sà!”


“NO!”


“Su Sergio Leone, ah! Ah! Ma io sono uno che gliene può insegnare di cose!”


“Bhé, intanto cominci raccontandomi di Sergio Leone e Tarantino!”

E notando la scintilla d’interesse nei miei occhi, ecco l’offerta da non poter rifiutare!


“Molto volentieri, ma solo se ti siedi a mangiare con me. Posso offrirti qualcosa?”

Rapido come una vacca sdraiata nei pressi dell’anagnina che si gode il traffico sul raccordo, la mia reazione.


Guardi, credo che se la lasciassi sola a cena, la mia compagna la prenderebbe malissimo.”

E la sua.


“Mai usare termini politici per le questioni di cuore!”


“Non conosco termini più adatti!”

In quel preciso momento lo vedo fermarsi. Riflettere. Nella sua testa si combatte una battaglia. Deve convincermi che ha ragione. Trovata! Ha la risposta!


“Poteva dire: “La ragazza che esce con me!”

Rispondo al colpo!


“Ma prima o poi non sarà più una ragazza, e invece resterà comunque la mia compagna!”

Si toglie la giacca. Non tollera che io non accetti il suo punto di vista.


“Allora, ancora meglio: La donna che sta con me!”

Ribatto ancora una volta, socchiudendo gli occhi!


“Naaaa. Spersonalizzante.”

A questo punto si asciuga il sudore dalla fronte, mi si avvicina e con voce bassa e tono minaccioso afferma:


“Ragazzo, io ho insegnato per cinque anni psicologia del linguaggio e DEVI credermi. E’ un termine politico. Magari anche solo a livello subliminale, ma sempre politico!”

Decido di farlo.


“Mi ha convinto. D’altronde la nostra è una storia politica.”

E lui, tornato in sé, per riconquistare punti cambia discorso, lanciandosi nuovamente nel dorato mondo del cinema.


“Non esistono domande indiscrete, solo risposte indiscrete.” Che film è?

Io che ho iniziato a mostrare i primi segni di stanchezza rispondo:


“Uno che lei ha visto tantissime volte!”

E lì, il Padrino, ammiccando e facendosi suadente, mi si avvicina, mi mette una mano sulla spalla e svela la tattica che aveva preso alla lontanissima:


“Per qualche dollaro in più!”

Io che capisco che siamo prigionieri di un loop senza vie d’uscita, gli do il beneficio del dubbio buttandola in caciara.


“Non riuscirebbe a convincermi neanche in euro!”

E sul suo:

“Eh?”

di risposta, mi appaiono tutti gli dei delle supercazzole mondiali.
Con la benedizione del Conte Mascetti e dei Paguri e con una precisione tale da farmi invidiare dalla lama di Goemon, ho chiuso la partita con un:

PUPPPPPAAAAAAAAAA!!!

da competizione.

Il padrino mi ha guardato triste.

Si è seduto sulla sua sedia.

E solo a quel punto gli ho spiegato che il cinema dà un sacco di risposte, ma non tutte.

Molte, ad esempio, sono anche dentro Don Zauker.

Buon festival a tutti.

 

 

I concerti di Fabrizio De André.

12 novembre 2012 da Mauro

Domani esce finalmente in tutti i negozi dello stivale il cofanetto con la più completa testimonianza live del repertorio di Fabrizio De André.

Quando è finito tra le mie mani, la mia reazione è stata sobria:

(l’audio è stato tolto dall’immagine per impedire che le orecchie vi fischiassero per le prossime settimane e le finestre esplodessero come nelle reminescenze di Higlander)

E un Cofanetto di quelli a cui viene di dargli del lei e di chiamarli solo con la maiuscola.

E’ un cofanetto, tanto per cominciare, alto.

E voi direte: “Sì, ma alto quanto?”

Facile.

Più di Shaun e meno di Astroboy.

E al suo interno vive un mega librone.

Pieno di chicche sotto forma di immagini e testi

E soprattutto con 16 cd contenenti 8 tournèe di Faber, da quella primissima, dell’esordio a La Bussola, fino all’ultima del Mi innamoravo di tutto tour coprendo i ventitre anni più importanti della sua carriera.

Entrando maggiormente nello specifico, queste le tracce presenti (ATTENZIONE: è stato ufficialmente provato che il principale motivo di malfunzionamento dei portatili è dato dalla presenza di bava tra i tasti, per cui leggete solo dopo esservi tutelati con un apposito bavaglino):

Direi che non serve aggiungere altro, no?

Sbagliato.

Oltre all’orgia di tracce presenti, c’è un ulteriore motivo di interesse per impossessarsi di questo cofanetto e custodirlo gelosamente.

Finalmente è possibile ascoltare, con un audio mai così pulito, quanto, nel corso degli anni, De André abbia preso confidenza col palco e col suo pubblico.

Per quelli abituati ai monologhi commoventi che scaturivano dai suoi ultimi tour,  sarà una sorpresa ascoltarne di nuovi ma soprattutto scoprire l’artista taciturno e timido nei confronti del suo pubblico degli anni ’70, che nascondeva tutta la sua dissacrante ironia modificando i testi delle sue canzoni più famose, con invettive contro le forze dell’ordine o infrangendo i tabù dei suoi personaggi più famosi.

Come nella versione di “La canzone di Marinella” eseguita a La Bussola, in cui Faber rivelò diversi particolari in più rispetto a quanto cantato nella versione registrata in studio.

…E c’era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c’era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui pose le sue mani suoi tuoi fianchi
Prima fu una carezza ed un bacino
poi si passò decisi sul pompino
e sotto la minaccia del rasoio
fosti costretta al biascico e all’ ingoio
Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent’anni ancora alla tua porta.

I Concerti.
Fabrizio De André.

Da domani in tutti i negozi di questa terra e anche in un paio di quelli in paradiso.
All’inferno non ne hanno bisogno, lì possono ascoltarlo quando gli pare e lo conoscono di persona.

Beati loro.

 

 

La vita è fatta di telefonate che disinnescano i piani che avevi architettato fino a quel momento.
Il mio era semplicissimo: fuggirmene da Latina così tanto velocemente da raggiungere il punto che le era più distante in assoluto in termini di gioia di vivere.
Londra.
La telefonata invece fu quella in cui Iginio & Francesco mi convocarono in via della Bufalotta per parlarmi della nascita di una nuova società: la Rainbow CGI.

Era il 2006 e io barattai la terra d’Albione per le colonne d’Ercole di Roma e Casa D2B con un appartamento a Monteverde con due tipe che erano tutto il mio opposto.

Era il 2006 e quell’azienda era nata per realizzare un lungometraggio animato che potesse portare l’Italia a competere con gli standard qualitativi europei.
Una roba da far tremare i polsi e riempire di gioia i cuori di tutti quelli che sognano che un’industria dell’animazione cinematografica possa nascere anche da noi.

In questi sei anni la mia vita è cambiata due volte. So cosa c’è dall’altra parte del mondo, ho lavorato con professionisti dai nomi impronunciabili che fanno bella mostra di sé sulle locandine che ho appeso sul muro della mia cameretta, ho visto sbocciare il talento degli umili ed evaporare quello degli arroganti, ho cambiato quattro volte il mio modo di sbagliarmi verso quel che non conoscevo e ho conosciuto  persone che mi hanno fatto crescere così tanto che se mi tagliaste a metà potrete contare il doppio dei cerchi che dimostro.

Oggi, dopo due lungometraggi, qualche spot e una manciata di videoclip, è finalmente in sala il lungometraggio che ci ha fatto unire.

In quei 90 minuti ci sono i nostri sforzi e i sogni che avevamo nel 2006.

Invece nei 20 minuti che trovate nel filmato qui sotto c’è una spiegazione di quanto e come si debba lavorare per dargli un corpo, a quei sogni lì.

In questi venti minuti ci sono molte delle persone con cui ho vissuto in trincea negli ultimi anni.

Molte ma non tutte.

E a loro comunque va un pensiero.

A quelli adesso lontani, che continuano a vincere medaglie altrove, continuando a riempirci d’orgoglio.
A quelli che hanno cambiato strada.
A quelli che nel video compaiono solo di sfuggita ma a cui dobbiamo tantissimo.
E anche a quelli che, come cantavano i CCCP, erano pre, ed erano post, senza in fondo essere mai stati niente.

E a voi che, attirati dal titolo, siete venuti qui per scoprire come si facevano i cartoni animati in CGI nell’Italia degli anni ’00, accomodatevi e  buona visione!

http://www.youtube.com/watch?v=MATrIRNDitY

La nascita del Tiramisù.

8 novembre 2012 da Mauro

Che Treviso fosse la terra del Tiramisù, non ne avevo la benché minima idea.
Così come non sapevo che fosse un dolce recentissimo, nato poco più di cinquant’anni fa.

Ma questa, sinceramente, non è ignoranza.

E’ che il mio cervello si rifiuta di concepire che mia nonna abbia vissuto, per buona parte della sua vita, in un mondo privo di Tiramisù.

E’ lo stesso processo mentale che sconvolgerà la mente di mio figlio quando proverà ad immaginare cosa eravamo costretti a inventare per procacciarci della pornografia in era PreInternet.

Che Treviso esistesse, invece, non avevo dubbi.

Le ore trascorse a leggere altri libri durante le lezioni di geografia mi avevano insegnato tutto quello che c’era da sapere in merito: era situata nel nord d’Italia.

E in più ci abitava Andrea Longhi.

Quindi nella mia testa era una città scarabocchiata in bianco e nero, con alcuni sprazzi di colore acquerellato.

E invece, sceso dal treno, mi ritrovo davanti a una roba bella bella bella bella bella, fatta di verde,

di pietra,

di acqua,

di borghi antichi e suggestivi,

di monumenti al Ferrero Rocher

e di Venusie ormai a secco di missili.

La stessa CasaBlogger, in cui ho vissuto con i miei colleghi Gud, Rrobe, Andrea e Bloggokin,

situata sul Ponte Malvasia, si trova immersa in una notevole location, con bar lungo il canale,

e ninfe che si tuffano dal lato opposto.

E oltretutto, a pochi passi di distanza c’è, a nostra disposizione, il Pulsante Distruzione del Mondo

quindi, in caso di guai, sappiamo bene cosa fare.

Ma torniamo alle cose fondamentali, ossia che noi 5Blogger siamo qui a treviso per fare tre cose: scoprire come nasce il tiramisù, ubriacarci di Prosecco, incontrare notevoli personaggi trevigiani e andarcene alla fiera del fumetto.

Per cui cominciamo con il momento in cui m’è preso un colpo al cuore.

Quando ho visto LEI

La signora Alba Campeol.

La incontriamo nello splendido ristorante Le Beccherie, gestito proprio dal figlio della signora, e pranzare con lei è come stare a tavola con John Lennon, Windsor McCay, Orson Welles, Walt Disney e Zagor in un colpo solo, perché, Cari Lettori, questa nonnina è colei che HA INVENTATO IL TIRAMISU’.

Non so se avete capito bene.

Ve lo ridico.
Nel 1961 questa signora, zitta zitta, inventa e commercializza il dolce più buono dell’intero universo: il Tiramisù.

Non mi credete? Ve lo faccio raccontare da lei.

http://www.youtube.com/watch?v=N0fvF2CMweI

Ora, intorno alla nascita del Tiramisù, in questi giorni trevigiani, ne sentirò ancora tante.
Alla storia della signora incinta che doveva tirarsi su, seguiranno la versione del “Loli”, il suo cuoco, e quella da romanzo d’appendice, del bordello in cui veniva preparato questo impasto miracoloso per rinvigorire i clienti troppo stanchi.

Scegliete voi a quale credere.

Quel che però è certo e su cui sono tutti d’accordo è che alla signora Alba Campeol va riconosciuto il merito di aver inventato il nome “Tiramisù” e di averlo commercializzato per la prima volta.

Il che, ne converrete, fa di lei l’unica meritevole da 50 anni a questa parte, del Premio Nobel per la pace.

Glielo dico mentre ci preparano al dolce facendoci assaggiare il top del loro menù autunnale composto da:

Fettuccine con funghi porcini

Quello che era un mio pallino da troppissimo tempo: la zuppa di tagliolini, fagioli e radicchio rosso.

La faraona al forno in salsa “Pèarada”

E poi, finalmente, l’arrivo del Re: Il Tiramisù della casa, realizzato con la ricetta originale della signora Campeol!

Ripresi dall’orgasmo culinario, dopo la selva di baci che avete visto nel video, c’è stato il tempo per una foto di gruppo che ci ha dato un’ulteriore conferma.

L’enorme luce che vedete alle mie spalle è la prova concreta che la grande felicità non è ancora possibile fermarla, né su pellicola, né su digitale.

 

La notte di San Lorenzo.

31 ottobre 2012 da Mauro

Si correva in salita, tra l’erba alta e il rischio della caduta.
Se eri fortunato eravate solo due e avreste visto cadere le stelle una ad una.
La prima, la seconda e poi solo labbra e saliva.
Se eri meno fortunato eravate in tanti, e si tirava l’alba a bere e a raccontarsi cazzate.
E di stelle sì, avreste visto la prima, la seconda, e poi solo le risate e il vino rosso scuro della passatella di quei 10 agosto che erano come capodanno, che erano come l’ultimo giorno di scuola e quello della ripartenza.

Una notte importante. Speciale.

Che accomuna, nel suo ricordo, persino due persone lontanissime tra di loro come me e il sindaco di Roma Gianni Alemanno.

E Gianni me lo diceva: “Vedrai Mauro, un giorno sarò così importante da allargare la notte di San Lorenzo non solo al 10 Agosto, ma anche a tutti gli altri giorno dell’anno! Quando saremo Re, ogni notte sarà la notte di San Lorenzo!”

E oggi, io che al massimo ambisco al ruolo di giullare, giosco del fatto che Gianni, c’è riuscito.

Grazie a Gianni, la notte di San Lorenzo, dura tutti i giorni.

E sono già quasi due settimane che noi, nel nostro quartiere, possiamo godercela alla faccia vostra che ancora non ce l’avete!

Le solite malelingue dicono che Gianni non lo fa per motivi romantici ma perché “Non ce so’ i soRdi e bisogna risparmia’!”

Ma io dico che è l’invidia che li fa parlare.

Loro rosicano perché noi la notte di San Lorenzo ce l’abbiamo pure a Ottobre e a Novembre, e ogni mattina ci svegliamo con una sorpresa nuova.

Giovedì, ad esempio, gli Gnomi della Notte ci hanno aperto lo scooter, consigliato di comprare una catena nuova e succhiato via tutta la benzina in eccesso

(bisogna stare attenti a non metterne troppa, o altrimenti, in caso d’impatto, lo scooter rischierebbe di saltare in aria come nei film di Michael Bay).

Sabato invece si sono premurati di farci capire che il rosso non va più di moda e quindi il fanalino rischiava di renderci retrò. Provando a passare per vintage abbiamo ottenuto che ci hanno spaccato anche la carenatura laterale.

E menomale, perché il costo del fanalino era di sole 3 euro, quello della carenatura, almeno, arriva a 300!

Domenica gli Gnomi ubriachi hanno spaccato soltanto i finestrini di due macchine sconosciute ma, consci del nostro risentimento, sono corsi ai ripari lunedì mattina ricordandoci che il bauletto va areato in caso volessimo trasformarlo in una gabbietta per uccelli o piccoli felini.

E ora spero non si incazzino troppo se Martina ha già riparato le spaccature laterali fatte al parabrezza.

Io gliel’ho detto, che erano un dono degli Gnomi della Notte di San Lorenzo, ma lei certe cose ancora non le capisce e infatti, stamattina, per noi non c’è stata alcuna sorpresa.

Tutti i regali sono arrivati ad una macchina di una tizia che, ingrata, sembrava non aver neanche molto apprezzato.

Una che, a pensarci bene, non avevo mai visto, e che probabilmente, sotto sotto, rosicava del fatto che nel suo quartiere è ancora tutto illuminato.

Invidiaci pure, Cara La Mia Sconosciuta, ma se proprio vuoi anche tu la notte di San Lorenzo anche a Prati, scrivi due righe a Gianni.
Guardando una stella cadente.

Non sia mai che il desiderio si avveri.

 

 

Domani inizia ufficialmente Lucca Comics 2012 ed io, che avevo promesso a me stesso che quest’anno mi sarei dedicato anima e corpo esclusivamente alla rosticciana di cinghiale e polenta della Signora, faccio uno strappo alla regola per starmene con un po’ di amici della Nicola Pesce Editore.

Se volete scambiare quattro chiacchiere su Asso e Wonderland, o se siete più semplicemente interessati a verificare il livello di entropia che può generarsi semplicemente posizionando Elementi Caotici Naturali come Roberto Recchioni, Davide La Rosa, Pierz e il sottoscritto, di fronte ad Alfieri del Disordine quali Giacomo Bevilacqua, Giovanni Masi e Federico Rossi Edrighi, passate venerdì tra le 10.00 e le 13.00

Ci trovate lì!

Asso.

30 ottobre 2012 da Mauro

Chiariamo subito le cose:

Asso NON E’ Roberto Recchioni.
E Roberto Recchioni NON E’ Asso.

Perché, se è noto che Roberto fa il tifo per i pregi ed i difetti di uno come Asso, d’altro canto il bullo non sarebbe altrettanto clemente con quelli di Rrobe.

In particolar modo non condividerebbe il suo bisogno di relazione col resto del mondo, le sue paure e i suoi dubbi costanti.
Apprezzerebbe la scelta di palesarli sempre dopo aver tolto il punto interrogativo al termine della frase, ma storcerebbe comunque il naso.

Esiste solo l’adesso, e lo spazio per il dubbio è stato appaltato qualche metro più in là.

D’altro canto, però, Roberto ha scelto di raccontare le sue storie e questo, Asso, ha dovuto soltanto accettarlo.

All’inizio.

Poi ha cominciato a richiedere un sacrificio di carne e sangue, e a Roberto è toccato anche dargli un corpo.
Lo spazio per l’anima, invece, è sempre stato appaltato qualche metro più in là, ma se guardate con attenzione la porta è aperta e potrete sbirciare senza che venga nessuno a dirvi che lì non ci si può stare.

L’anima con cui Roberto ha riempito il corpo di Asso, prima di richiuderlo lasciandogli vistose cicatrici, è fatta di pagine e colori.

 

Di scritte nere.
Di padri lontani e storie tutto intorno, nelle pagine di libri e fumetti, tra le schermate di un videogioco, nei fotogrammi proiettati su uno schermo cinematografico.
Di quella disciplina necessaria a non perdere alcun pezzo.
Di quella ironia che non è la risata finale che ci seppellirà, ma la mano, l’appiglio, la voce e l’aria, grazie alla quale ogni giorno è meglio di quello appena trascorso.
Delle donne eternamente presenti, chiamate a interpretare, contemporaneamente il ruolo di amanti, figlie, madri e malattia.
Degli amici a cui chiedere e dare tutte le proprie chiavi, partendo da quelle di casa e arrivando a quelle dei propri segreti.

Fino a lasciargli la possibilità di raccontare, in prima persona, il loro rapporto con Asso e il suo mondo, perché gli scettri, come le matite e i pennelli si portano meglio dividendone il peso.

Nelle 128 pagine del  volume edito da Nicola Pesce Editore e presentato in anteprima all’imminente fiera di Lucca Comics, troverete quindi:

Elisabetta Melaranci che vi racconterà una storia “dove le genti piangono sangue dagli occhi senza essere vampiri”.

Werther Dell’Edera che dimostrerà che i demoni è meglio non affrontarli da soli
Leonardo Massimiliano che spiegherà la differenza che intercorre tra vanità e verità.
Luca Bertelé invece racconterà di quella volta che Asso gli fece un regalo.
Walter Venturi giocherà come si faceva una volta, quando in Italia esistevano le riviste a fumetti.
LRNZ racconterà una storia di Asso in tre battute.
Stefano Simeone userà i colori finché qualcuno non glielo impedirà.
E la coppia formata da Federico Rossi Edrighi e il sottoscritto vi rivelerà cosa succede quando si è in ritardissimo con la consegna di una sceneggiatura, il disegnatore è lì che aspetta, e una signorina decide di voler diventare l’attrazione della serata.
E poi ci sarà Asso, tonnellate di Asso.
Quello vero, che ha eletto e condannato Rrobe come suo portavoce.
E Roberto gioca con la materia che meglio conosce, spogliandosi di tutto quello che potrebbe facilitargli il compito pur di perseguire il suo obiettivo con onestà e trasparenza.
Si mette in gioco lanciandosi da un palco già sapendo che troverà ad aspettarlo i denti dei suoi detrattori e le braccia dei suoi fan pronti a portarlo in gloria.
E in quel lancio c’è il segreto che accomuna Rrobe e Asso.
Perché per entrambi, andrà comunque bene.
Sia nella caduta, che nell’atterraggio.
——
Il booktrailer:

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