Iron Man 3 – Recensione.

23 aprile 2013 da Mauro

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Ho quindici anni e Scuola di Mostri è il mio film preferito.
Mi fa ridere un sacco, i personaggi sono fichissimi, mi spaventa anche, e c’è quell’idea finale sulla verginità della tipa che mi fa sganasciare e mi insegna in quattro secondi tutto quello che c’è da sapere in fatto di donne.

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All’epoca non ho idea di chi l’abbia realizzato, né di come si chiamino gli attori. Per me è roba legata alla magia o alla santità.
Un filo rosso di bontà che mette i suoi autori a tavola con i tipi che hanno inventato I Goonies, Indiana Jones, i Cavalieri dello Zodiaco, il Capitano Nemo e Zagor.

Benefattori dell’umanità.

 

Poi cresco.
Butto la televisione, mi tengo stretti i fumetti e vado in fissa con un sacco di cinema turco, coreano, iraniano, cinese, giapponese, spaccapallese e mi si confondono tantissimo le idee su quello che c’è da sapere in fatto di donne.

Allora vado a vedere chi c’era dietro Scuola di Mostri e scopro che l’ha scritto quello di Arma Letale 1 e 2, de L’ultimo boy scout, di Last Action Hero, di Kiss Kiss Bang Bang.
Insomma, quello di quel poco di cinema americano mainstream che ancora mi diverte tanto: Shane Black.

 

Giuro. Ora sono una persona meglio.

Quando ho saputo che ci sarebbe stato lui dietro il terzo capitolo cinematografico della saga di Iron Man, sulla faccia mi si è stampato quel sorriso d’entusiasmo interrotto a metà di quando ti fanno i complimenti su Facebook per una storia che non hai scritto tu.

Grazie per aver accettato la mia amicizia, ti seguo da quando scrivevi Bonerest.


Prego.

 

Sì, perché infilare un grande autore nel meccanismo produttivo della Hollywood attuale, vuol dire incrociare le dita e sperare che non l’abbiano ingabbiato in una tela di compromessi talmente fitta da vedersi sputtanato per sempre.
Per cui sono andato all’anteprima coi piedi di piombo.

Voglio dire, non che le aspettative fossero alle stelle, ma oggi come oggi, ho più a cuore la reputazione di Shane Black che le complicate traiettorie emotive di Tony Stark.

Anche perché, intendiamoci, non che i due precedenti film dell’uomo di ferro brillassero nel firmamento della cinematografia mondiale.

Anzi, intendiamoci ancora meglio e diciamo che, finora, nessun cinecomic ha fatto molto per lasciare ai posteri qualche degna traccia di sé. Con delle validissime eccezioni, certo.

Su tutte, il Superman di quando eravamo minuscoli.
Poi Batman 2.
Spiderman 2.
X-Men 2.
Buttman’s European Vacation.
Anal Cavity Search 6.
E poi basta film decenti con supereroi credibili.

Per questo, quand’è uscito il primo Iron Man, tutti eravamo lì ad applaudire un attore per il solo fatto che sapesse reggersi su due zampe e che non si limitasse ad abbaiare.

Wof!

Ma aldilà di uno script divertente nella prima parte, di effetti visivi sufficienti, una regia senza infamia e un Downey JR decisamente in forma, la pellicola diretta nel 2008 da Jon Favreau, soffriva dello stesso identico problema di tutti i film marchiati Marvel: crollava miseramente nella seconda parte.
Come se, aldilà del setup dell’eroe, tutto il resto fosse impossibile da gestire.
Dagli Hulk, agli Spiderman, passando per Cap e Thor, raccontare l’eroe dopo la sua prima apparizione sembrava un’impresa destinata a fallire.

La fortunata parentesi di Avengers ha dimostrato che, mettendosi nelle mani di un abile sceneggiatore, è possibile mantenere la gente in sala e costruire una storia che non muoia al cinquantesimo minuto. A Shane Black viene chiesto esattamente questo.

Nonostante l’orribile Iron Man 2 e un Downey JR sempre più cosplayer di sé stesso, ad Iron Man 3 spetta una missione impossibile: chiudere la prima trilogia del cavaliere romanista e allo stesso tempo aprire le danze per la fase 2 dell’universo cinematografico Marvel.

Dall’impossibilità di permettersi un passo falso, viene chiamata in azione una vecchia gloria del cinema action americano. Quello solido, capace di mettere d’accordo adulti e ragazzini.

E questo, Shane Black, vuole fare. E questo riesce a fare.

Potendo contare sulle sue forze anche sotto il punto della regia, Black lavora forte forte in tre diverse direzioni.

La storia.
Gli attori.
Il mito.

Cbristopher Nolan ha l’abitudine di raccontare storie semplicissime complicandole così tanto in fase di sceneggiatura che a un certo punto tarapia tapioco ed è come se fosse antani.

Uno dei dinamici combattimenti tra Batman e Bane.

Black invece, per Iron Man 3, mette su una trama intricatissima, ambientata in due diversi momenti storici, in non so quanti Stati diversi e con un fottio di personaggi a strapiovere (tra cui, ehm, 42 Iron men), con l’eroe che vince, perde, muore, rinasce, rivince e poi perde di nuovo e poi forse vince di nuovo e tutto scorre liscio come se ti fosse offerto dalla tequilera in topless di Plaza Garibaldi a Città del Messico.

Il tutto ricordandosi che un film per supereroi deve essere indirizzato ai ragazzi che vogliono immedesimarsi e aiutare il loro eroe preferito, che vogliono essere stupiti con combattimenti spettacolari e che saranno probabilmente accompagnati in sala da adulti cresciuti proprio con i suoi film.

Adulti che non si accontenteranno delle esplosioni e che, convinti di spegnere il cervello per due ore, si ritroveranno davanti ad uno dei più feroci nemici della democrazia occidentale che si siano visti nel cinema mainstream degli ultimi anni.

Snoop Dogg

Se lo spettro della guerra fredda era appannaggio degli anni ’80, il nemico s’è fatto sempre più vicino e lo scettro del male appartiene ormai da anni al Medio Oriente. Con l’introduzione de Il Mandarino, Black ci mette davanti a ciò che realmente spaventa gli americani  del post 11 settembre.
E lo fa senza sbandare sul registro narrativo, senza affidarsi ai cupi vezzi dell’ultimo Batman, senza dimenticare di essere lì per realizzare un prodotto di puro intrattenimento.

Me lo immagino, lo sguardino sorridente di Black quando vede che ha a disposizione l’accoppiata perfetta (Downey JR e Cheadle) per nascondere all’interno del film un vero e proprio bignami di quel sottogenere del cinema action che l’ha consacrato agli inizi dei ’90: il buddy movie.
Il bianco e il nero. Il genio cazzone e il colonnello combattente, uniti per risolvere una missione e salvare l’America ancora una volta. Come prima. Come sempre.

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Robert Downey JR torna finalmente a recitare dimostrando di essere un cavallo di razza che ha bisogno di redini forti per andare dritto all’arrivo. Gigioneggia il giusto, sbagliando solo quando deve mostrare una crisi a cui non crediamo realmente mai, ma tornando ad essere credibile nei momenti di smarrimento, quanto in quelli epici e comici.
Cheadle, pur comparendo per neanche un terzo del film, riesce a tenere testa al protagonista assoluto regalandoci dei momenti di totale affiatamento tra i due, senza perdere un colpo.
Per la Paltrow viene finalmente cucito un ruolo che non la releghi a mera tappezzeria da coprire subito con dei poster di donne armate in bikini prima che arrivino a pranzo i tuoi, e lo porta a casa più che dignitosamente.
Kinglsey è un Mandarino sorprendente e credibile in ogni sua sfaccettatura, Guy Pierce si riprende dalla miseria di Prometheus e per il regista dei primi due Iron Man viene ritagliato un ruolo che è il marchio di fabbrica di un cinema che purtroppo non si vede più.

Gli effetti sono incredibilmente sopra la media (scarsa) a cui ci hanno abituato e il 3d, pur non aggiungendo assolutamente nulla, non ti accompagna fino a casa aggrappato come un granchio alla calotta cranica.

Un capolavoro, quindi, esente da sbavature?
No.

D'oh!

La prima mezz’ora di film, a parte gli Eiffel 65, ci mette un po’ ad ingranare.
La crisi di Stark è un pretesto inutile narrativamente e gestito parecchio male sia in termini di scrittura che di interpretazione.
Ma se dovessi cercare altri difetti farei davvero fatica e perderei così stanto tempo a cavillare con me stesso da annoiarmi di me e andarmene sbattendomi la porta in faccia.

Iron Man 3 ha il grande pregio di riuscire a sorprendere lì dove tutti gli altri seguono il solco della noia e della prevedibilità.
Ma soprattutto, Iron Man 3 è un film che se ne fotte platealmente di quanto farà incazzare tutti i fissati della continuity con il fumetto originale.
E questo lo rende automaticamente uno dei migliori film di supereroi che possiate vedere.

Stellette? 7 su 10

—-

P.S.
Per far sbandare una donna può bastare uno sguardo, ma non servirà a nulla farle crollare addosso una casa o lasciarla precipitare nelle fiamme.
Se ha deciso di credere in noi, riuscirà ad uscirne, a salvarci il culo, e a dimostrarci, con un bacio, di essere sempre stata più forte di noi.

Me l’ha insegnato quello di Scuola di Mostri. E di Iron Man 3.

Ritorno a casa.

da Mauro

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Un viaggio per i vicoli della notte Thailandese, per i fiumi sassosi circondati dalle splendide donne del Laos, per le giungle e le scuole spaventose della più nera Cambogia. Per i caffè segreti del Vietnam e le sue città di pescatori sopravvissute alla follia. Il ritorno in una casa non più mia e in uno Stato sempre meno nostro. Un nuovo film. Un altro nuovo film. Un nuovo fumetto. Un altro nuovo fumetto. La convocazione in nazionale. Gli amici della vita nuova che sono gli stessi di quella vecchia, e menomale. La povertà. I soffitti che si riempiono di cose appena inizi a guardarli dal letto sbagliato.
I genitori, la famiglia. I concerti della vita. Quelli da riprendere ballando, quelli da cantare, quelli dei ricordi poggiati alla scala che porta verso quelli che vedono meglio ma noi siamo più vicini. Una nuova casa da trovare prima, da abitare poi, con l’aiuto di tutti. San Lorenzo con i suoi fiori e i suoi vecchi dalla parte giusta.
Un nido di sterpi raccolto in trentatre anni che mi portano qui, oggi, a scrivere un romanzo di immagini e parole insieme a te.
Per sempre.

Sono tornato a casa.
Quella nuova.
Ti Stavo Cercando.

Si ricomincia a raccontare.

2013 – Odissea nei cosplayer.

10 marzo 2013 da Mauro
Era mattina, quando a Mantova si palesò La Conoscenza, sotto forma di Monolito Rosa.
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“Vedi, Gigetto?”
“Cosa, Gigino?”
“La verità.”

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Sono in partenza per la nuova edizione di Mantova Comics & Games, convention fumettosa con un occhio particolarmente attento alle tendenze dei nuovi media.

Sono stato invitato nella doppia veste di blogger e sceneggiatore per partecipare a tre diversi incontri.
Il primo, si svolgerà domani, Sabato 9 Marzo, dalle ore 13.30 alle 15.00 sul Palchetto Foyer e mi vedrà presentare l’incontro dedicato alla Blog Community con la presenza di superstar del web quali Yotobi, Dario Moccia e Farenz.

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Stracciate le vesti di blogger e indossati gli eleganti panni dello sceneggiatore, mi troverete poi, dalle 16.40 alle 18.00 nella Sala Worskshop,sceneggiatura

dove, dopo aver attentamente ascoltato le esperienze e i consigli professionali di Sara Pichelli, Roberto Recchioni, Fabio D’Auria e Giuseppe Camuncoli, vi racconterò cosa vuol dire, oggi, sceneggiare per cinema, tv e fumetti e di quanto sia fondamentale, in tutti e tre i casi, che la Roma non abbia perso la sera prima.

La sera del sabato potrete trascorrerla tranquillamente a ubriacarvi e a molestare ignare mantovane, ma domenica mattina svegliatevi presto e venite a trovarci sul Palchetto Foyer.dylan e gladiatori

Dalle 10.30 fino alle 12.00, Francesco Tedeschi, Roberto Recchioni e il sottoscritto, vi riveleranno quanta importanza abbia la sociopatia nella formazione di una sana carriera di narratori.

Questo è quanto.
Il mio treno sta partendo, ci si vede lì.
P.S.
Per chi non potrà venire a Mantova, ricordatevi che domenica sera, a Roma, suonano i Beach House.
Perderseli sarebbe un crimine.

Per gli amici: Bangkok.

15 gennaio 2013 da Mauro

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Ogni volta che torno a Bangkok provo a raccontarla.
E mi incastro sempre sulle persone, sui momenti, sulle gioie e sulle malinconie che vengono ogni qualvolta ci si trova altrove ed è più difficile specchiarsi nell’altro.

Cliccando QUI potrete leggere alcuni resoconti di questi anni.

Quello che non ho mai fatto, però, è scrivere ad uso e consumo di chi a Bangkok non c’è mai stato, vuole andarci per la prima volta e non sa cosa aspettarsi.
Bene: Nontistavoviaggiando è qui per risolvere ogni vostro dubbio e farvi partire sereni.

Cominciamo? Cominciamo.

Il momento migliore per andare a Bangkok è quello delle festività natalizie.
Esattamente per questo stesso motivo (guarda, certe volte le coincidenze ti lasciano di stucco!) è proprio in quel periodo che a Bangkok TUTTO costa il triplo.

Tristezza per noi, a luglio Bangkok fa schifo e non è facilissimo trovare il tempo giusto in altri momenti dell’anno, comunque papabili (novembre e febbraio).

Gioia per noi, anche quel triplo, è decisamente abbordabile e Bangkok è davvero una città per tutti i prezzi.
Sta a voi scegliere se viverla spendendo dieci o mille euro al giorno. Entrambe le opzioni sono contemplabili, ed entrambe vi restituiranno esperienze indimenticabili (topi compresi nel prezzo).

Alt! Come faccio per il visto d’ingresso in Thailandia? No problema, amico.
A differenza di altri stati della stessa zona che vi chiedono di fare una giravolta, farla un’altra volta, guardare in su, guardare in giù, la Thailandia vi vuole bene, quindi vuole soltanto un rassicurante Passaporto che abbia almeno sei mesi ancora di validità.

Alt! Come faccio con la lingua? No problem, dear!
I thailandesi che parlano inglese, lo parlano male esattamente come noi, per cui ci si capisce alla grande.
Con quelli che non parlano neanche inglese, ancora meglio. Sarà un piacere riscoprire l’antica arte della comprensione a gesti, e rimarrete stupiti di quante informazioni riuscirete a scambiare anche semplicemente esprimendovi come degli Uruk-hai balbuzienti.

Ma adesso basta perdersi in problemi inutili, e partiamo.

La scelta dell’aereo è importante ma solo per mere questioni di budget dato che tutte le proposte a vostra disposizione sono, chi più, chi meno, tutte ugualmente soddisfacenti.
Il consiglio è quello di evitare i voli direttissimi e spezzettare il viaggio in più scali. Questo vi permetterà di sgranchirvi le natiche e di ridurre notevolmente la spesa (il mio Roma-Helsinki-Bangkok costava quasi mille euro meno del volo diretto preso dal mio amico carissimo, e mi ha portato a destinazione soltanto qualche oretta dopo!)

Qualunque sia la vostra scelta aerea, sappiate per certo che a bordo congelerete, ergo, non fate i fichi come il sottoscritto, che non potete permettervelo.
Copritevi con le copertine che troverete sui sedili e mettetevi in fila per deridermi all’arrivo: l’idiota che starnutisce in continuazione sono io.

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Sul volo mangerete tre volte.

I piatti serviti sono un misto pazzo con cui il cuoco sensitivo tenta di intercettare il palato di una clientela italo/europeo/medioorientale/orientale/carnivora/vegetariana per cui preparatevi a mangiare pennette all’arrabbiata cotte nel latte di cocco o spezzatino di pesce alla pizzaiola al curry o insalata di germogli di soia, patate, mango e maionese, e a trovarli comunque, incredibilmente, piacevoli.

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L’alternanza di cibo, bevande, film e videogiochi nello schermo del sedile, renderà le 11 ore di volo meno letali di quanto potreste immaginare e se non avrete preso l’815 della Oceanic, atterrerete puntualmente al posto scritto sul biglietto.
Questo è il momento più difficile di tutto il viaggio.
L’umidità afosa con cui Bangkok vi attaccherà alla gola nel momento stesso in cui avrà tra le mani il vostro corpo è una roba riassumibile pressapoco così:

Conoscendo il vostro nemico, fatevi trovare pronti. Sottovalutarlo vi lascerà agonizzanti sulle scalette dell’aereo.

Risolte velocemente le pratiche legate al passaporto e alla vostra permanenza in Thailandia, vi troverete a dover prendere un mezzo che vi conduca in città.
In taxi, in una giornata poco trafficata, ve la caverete con 45 minuti.
Se invece è una giornata di traffico della media, potrebbe non bastarvi un fine settimana.
Mettetevi comodi.

Ho scritto taxi, e non autobus, perché i taxi sono il modo migliore e più economico per coprire questa tratta.
Ma per prendere un taxi in aeroporto dovete farvi scaltri.
Primaditutto: i taxi non sono quelli neri che proveranno a spacciarvi all’inizio (quelle sono ricche automobili con autista) i taxi a bangkok sono fuxia o, al massimo, gialloverdi. Ripetete con me, miei piccoli amici: Fuxia, giallo e verdi!

In caso siate Federico, allego foto:

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Secondo punto importantissimo ancora più importante del primo: contando sul fatto che non sappiate nulla del posto in cui vi trovate, numerose “agenzie” interne all’aeroporto manderanno i loro alfieri del male a sedurvi, chiedervi dove dovete andare e rilasciarvi una ricevuta con la tratta che gli avete segnalato da pagare lì e da presentare direttamente ai tassisti (che incasseranno una percentuale in seguito).
Ecco, il 99.9 periodico di queste agenzie ve la farà pagare una cifra astronomica.

Ignorateli.
Dall’aeroporto al centro della città un costo onesto è intorno ai 400 bath (circa 10 euro) e non i 1200 (circa 30 euro) che vorranno farvi credere.

Voi direte: “Ma come faccio io, appena arrivato, a dirci che le cose non stanno come dicono loro?”

Semplice: reagite!

A Bangkok, come in molte zone della Thailandia, si tratta per tutto, dall’acquisto dei vestiti in una bancarella a quello di un frullato e quindi anche per i taxi.

Un buon combattimento di muhai-trattata vi farà guadagnare il rispetto del vostro avversario.
E se riuscirete a chiudere a 300 bath, anche il mio.

A questo punto, come dice Morpheus, siete dentro.

1

Siete pronti a ballare o a farvi trascinare (come preferite) dalla giostra di colori e contraddizioni di questa splendida città che, tra i vari primati, ha il rimarchevole record di essere la località col nome più lungo al mondo:

กรุงเทพมหานคร อมรรัตนโกสินทร์ มหินทรายุธยามหาดิลกภพ นพรัตน์ราชธานี บุรีรมย์อุดมราชนิเวศน์มหาสถาน อมรพิมานอวตารสถิต สักกะทัตติยะวิษณุกรรมประสิทธิ์

Come? Non sapete come si legge? Pippe. Ve lo dico io, che parlo per voce di Wiki.

Krung-dēvamahānagara amararatanakosindra mahindrayudhyā mahātilakabhava navaratanarājadhānī purīramya utamarājanivēsana mahāsthāna amaravimāna avatārasthitya shakrasdattiya vishnukarmaprasiddhi

Non sapete cosa significa? Non che vi perdiate molto, visto che sembra il nome appena inventato da un master inadatto durante una partita di Dungeons and Dragons poco soddisfacente:

Città degli angeli, la grande città, la città della gioia eterna, la città impenetrabile del dio Indra, la magnifica capitale del mondo dotata di gemme preziose, la città felice, che abbonda nel colossale Palazzo Reale, il quale è simile alla casa divina dove regnano gli dei reincarnati, una città benedetta da Indra e costruita per Vishnukam

Oppure, per gli amici: Bangkok.

Non sia mai che poi qualcuno potesse farsi venire in mente di accusare i thailandesi di essere un popolo ridondante.

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“Ehi, Nontistavoviaggiando, non fare il furbo. Sentiamo puzza di fine articolo, ma tu ci hai fatti arrivare fino a Bangkok, e adesso? Cosa dobbiamo fare? Cosa c’è da vedere? Vedi che noi ce ne torniamo a Latina in quattro e quattr’otto, eh!”

Calmi. Andate a farvi un massaggio, troverete le risposte a tutte le vostre domande nel prossimo post.

 

 

I dubbi della prima notte del 2556.

11 gennaio 2013 da Mauro

Chiudo gli occhi. Li apro. Sono a Bangkok e mi dicono che il 2555 sta per finire.

Sull’aereo in effetti faceva freddino ma non credevo di essere rimasto ibernato per 543 anni.
Meme dice che non c’è niente di male e che anzi, è una figata che sia successo proprio a noi.

Io inizio a farmi duemila pippe sulle linee temporali, sul Mauro del 2012, se esista ancora lì, se ce ne sia uno per ogni dimensione parallela, se quello di Terra 626 sia magro e se qualcuno si sia preso la briga, nel frattempo, di tranquillizzare mia madre.

Meme mi urla dal bagno di smetterla di blaterare idiozie, che i thailandesi calcolano gli anni dalla morte/ascesi di Buddha che è avvenuta 543 anni prima della nascita di Cristo, e che tra cinque minuti è pronta.

Io sento bussare alla porta della stanza, apro e mi trovo davanti lui:

Il che, fa già curriculum.

Mentre se ne va, mi rendo conto che non saprei neanche come raccontarglielo a Meme, quindi decido di non farlo.
Tanto lei è talmente presa dalla voglia di uscire e fare casino che non s’è nemmeno accorta che qualcuno ha bussato.

Scendiamo in strada e veniamo fermati da un thailandese ciccione con le guance truccate di rosso e un cappellino di paglia in testa, che dopo averci offerto da bere, si mette a cantare per strada.

Sul serio.

Ci uniamo alla ciurma, per le risposte ci sarà tempo.

Mentre ci allontaniamo, dico a Meme che è una bella coincidenza che un matto sia venuto a bussare proprio alla nostra porta per augurarci felice anno nuovo in Hawaiiano e che il nostro capodanno sia cominciato con una famiglia di pazzi che aveva deciso di festeggiare in strada. Meme mi chiede: “Chi ci è venuto a bussare alla porta?”

Sto per dirglielo ma a una decina di metri da noi partono tutti i fuochi d’artificio del sud dell’Asia, per cui, chi se ne frega del resto.

In quell’istante la nostra realtà esplode col mondo che ci circonda.

Metà dei botti che si sentono sono causati dai guidatori di tuc-tuc che si tamponano tra di loro pur di riuscire a vedere i fuochi.
Gli spiedini di pollo muoiono carbonizzati sulle griglie dei griglianti coi nasi all’insù, senza che neanche un cane se li rubi in tempo, visto che sono scappati tutti per la paura degli schioppi.
Le massaggiatrici smettono di masturbare clandestinamente i turisti e scattano coi loro iPhun delle foto che caricheranno su Fb più tardi, con la mano sinistra.

E la notte di Bangkok si illumina di un miliardo di luci.

A quel punto io e Meme abbiamo l’idea del secolo: “Prendiamo un tuc-tuc e andiamocene al centro!”

Grande!
Ma che idea pazzesca abbiamo avuto?!
Ma come ci vengono?
Siamo dei fottuti geni!
Fottutissimi geni!

Come tutti questi altri sei miliardi di fottutissimi geni.

Capiamo che in una situazione simile rischieremmo di arrivare in anticipo giusto per i festeggiamenti del 2o14 (o del 2557, fate voi) quindi decidiamo, stoicamente, di scendere.

Spinto dall’ottimismo della consorte, decido che sì, camminare un po’ non mi farà di certo male.

E quindi cammino e faccio foto.
A Bangkok basta tirare fuori la macchina fotografica e puntarla contro qualcuno per renderlo felice.
Ho visto gente menarsi per strada e rappacificarsi grazie un clic.
Coppie divorziate tornare ad amarsi.

Avete presente quella sensazione che si prova in Italia quando ci viene la malaugurata idea di fotografare un bimbo?
Quel brividino di adrenalina di chi è ben conscio che sta per arrivare il padre a gonfiarci di legnate o le guardie ad arrestarci con l’accusa di smercio di materiale pedopornografico?
Ecco, a Bangkok se fotografate un bimbo, i genitori si precipitano, sì, ma solo per farsi fotografare insieme a lui, sfoggiandolo. Fieri.

Così come le ragazze.

Scattate, quindi, e fateli felici!

Tra uno scatto e l’altro ci accorgiamo che, nel frattempo, intere strade sono state occupate:

che a vederli in foto sembra una roba rubata sul set della quarta stagione di Walking Dead, e invece a starci in mezzo era una cosa così:

In quel marasma generale si sono distinti con lode, nell’ordine:

La lolita Arale che mi chiamava Dr Slump e io non sapevo se arraparmi o menarla.

Il trans più MAPPORCAPUTTANANONPUOESSEREVERONOOOO!!! di sempre.

Il gemello thailandese di Emiliano Mammucari.

Un gruppo di rivoluzionari indiani che mi abbracciavano e poi si battevano il sudore sul petto incitandomi a fare lo stesso.

La favorita tra le candidate a Reginetta Hipster 2556.

Il bimbo che ha pisciato sul palco dello sponsor e poi c’ha imbruttito.

Adi, l’Uomo che non deve chiedere.
La maglietta più geniale della serata.

Miss Ora Esatta.

Satana e la sua prima vittima consenziente dell’anno.

La ragazza col fiocco sobrio.

Una tizia uscita da un porno che m’ha mandato Roberto e il suo – o la sua – accompagnatrice/accompagnatore.
Fate voi.

L’intessitrice cicciona di amuleti floreali e la sua compagna smilza

certamente affiliata a una qualche mafia locale.

Il tizio convinto che V fosse la maschera di un nobile francese.

Il barbone trans che vuole fare la modella.

La ragazza che ha inventato gli spiedini di uova…

… il suo consorte votato al suino…

…e la loro sorridente famiglia al completo.

Ma tutto ciò è svanito come lacrime nella pioggia nel momento in cui è apparso su un maxischermo Mr. Improbabilità.

“Chi è?” Vi chiederete voi.

L’espressione afflitta del re dovrebbe essere sufficientemente esplicativa per non farvi approfondire l’argomento.

Ma siccome so che non vi fermerete davanti a nulla ve lo rivelo io:

KALABAO

(nome scritto direttamente sul mio cell da tizio thai, e confermato da altri tizi thai)

Come, non sapete chi è?
Tranquilli, non lo sa neanche Google.
Né Youtube.

Ma a quanto pare il miliardo di thailandesi riuniti in quella piazza, sì.

E lo adorano persone di tutte le età che gli si consacrano ballando nei modi più improbabili.

Un esempio? Eccolo:

Al punto che l’unica di tutta la thailandia a cui non piaceva veniva lasciata all’angolo nel disprezzo generale.

E anche noi, sinceramente, le preferivamo l’amica coniglio.

Dopo una tappa obbligata dallo zozzone locale, che fedele al suo nome, rifilava schifezze di prim’ordine

alle quali, come forse ricorderete, io avevo già pagato dazio durante la mia ultima visita alla capitale della Thailandia, decidiamo che s’è fatta la famosa certa.

Dopotutto sono quasi le quattro, ci aspetta una lunga camminata per tornare in albergo e non vorremmo gettare alle ortiche il giorno successivo.

Passeggiamo parlando tra di noi di quanto sia bello questo popolo.
Di quanto sia solare, di quanto sia attento agli altri, partecipe, sempre sorridente e pronto a stringerti la mano… quando ecco che arriva, puntuale ed inequivocabile, il dubbio.
Da quando lo conosco ha preso varie forme, ci sono volte che si palesa apertamente, altre si rende meno riconoscibile, ma in alcuni momenti ti sbatte davanti come se ce l’avesse proprio con te.

C’è la strada. C’è il marciapiede. Ci sono le scale della sopraelevata. E c’è lui.

Porca puttana c’è lui.

E sei lì che ti fai domande (esattamente come te le facevi due anni fa) ti dai risposte e le mille carte del tuo mazzo si esibiscono nella costruzione di centinaia di castelli che crollano immancabilmente all’arrivo di lei:

La madre.

Tutta contenta che stai fotografando il figlio.

E allora vorresti dirle macomediavoloèpossibilechelotieniquipperterra!?!?! e lei si avvicina, gli sistema le coperte e poi torna a lavorare.

Insieme alla collega torna a svuotare i cestini pieni d’immondizia mentre il figlio la guarda e, nella mia testa, le dice esattamente le mie parole.

Ma Mumbai mi ha insegnato a non lasciarmi fregare dal mio mondo e a fermarmi a riflettere cercando di utilizzare i loro occhi per vedere la loro realtà.

Perché, a vederla con i nostri, sarebbero tutti da condannare senz’appello, ma i nostri occhi lì non ci vivono. Non ci vivono le nostre mani che non toccano quello che toccano le loro, i nostri nasi che non sentono i loro odori, le nostre orecchie che non capiscono quella lingua scambiandola per una cantilena.

Per cui concentro ogni mia energia nel cercare di non giudicare e di capire perché, quella madre, si senta serena e perché non ci fosse preoccupazione o disagio nel suo sguardo o nel suo modo di guardare me, la sua collega, il suo piccolo.

Ma non ci riesco, devo ancora crescere o cambiare.
E dopotutto, mi dicono,  il confronto con ciò che non capiamo è parte integrante del processo di maturazione.

La strada verso casa è lunga e per trovarci in una situazione ancora diversa, come prima, basta semplicemente una foto.

Una foto scattata col cellulare, che a Meme non piace e quindi prende la macchina fotografica per scattarmene un’altra.

I tizi sullo sfondo vedono la luce del flash e ci chiamano.
Sono poliziotti.
Con loro, quattro puttane più maschie di loro.

Ci intimano a brutto muso di cancellare le foto appena fatte.

Lo facciamo.

A quel punto si guardano tra di loro, scoppiano in una risata fragorosa e ci offrono da bere dell’orrido whisky allungato con la soda.
Decliniamo l’invito augurandogli Eppiniùia e ci proiettiamo direttamente verso il locale sgangherato alla loro destra, che attira tutta la nostra attenzione.

Perché anche da questo posto proviene musica e qualcuno sta cantando.

Il locale è una baracca che si regge a malapena ma dentro tutti ridono, ballano e ci invitano a partecipare.

La manciata di disperati presenti all’interno ci offre da bere, da mangiare e ci invita a passare con loro il resto della serata.

E questo non smetterà mai di stupirmi.

Perché a Bangkok, per le persone di Bangkok, non sembra esserci differenza alcuna tra alto e basso, tra paradiso e inferno.
Tra l’orrore della decandenza e dell’abbandono e lo sfarzo del lucido sfavillante.

La nostra ipocrisia ci ha portati a dividere le nostre città in zone contraddistinte dalla qualità della vita che può permettersi chi le abita. Mettendo più distanza possibile tra chi può e chi non può.

A Bangkok questa distinzione non esiste.
Qui non siamo nelle periferie, siamo esattamente a 500 metri dal centro, in una traversa della via principale che taglia Bangkok, dove, tra il tantissimo delle zone commerciali e lo zero assoluto delle viette laterali,  la gente vive come se tutto quello che avesse fosse a disposizione del momento in cui ne fa uso.

Nel momento in cui cucina un piatto, nel momento in cui te lo offre.
Nel momento in cui canta una canzone con te.
Nel momento in cui ti riempie il bicchiere.

Come se non esistesse un futuro a cui pensare o un passato da custodire, ma soltanto momenti da condividere.

E’ per questo che il sorriso della ragazza benestante

quello della tizia sfranta del mercato

quello della sordomuta che voleva essere fotografata mentre cenava

quello dei ragazzini fighetti che aspettano l’autobus per tornare a casa

quello di un gruppo di amici che fa uno spuntino alle 5 del mattino

e quello della madre fiera del proprio figlio

sono esattamente lo stesso sorriso.

Perché è in quel momento che stanno vivendo. E nient’altro importa.

Il momento è l’unità di misura su cui basano la loro serenità e le loro malinconie.
Il momento è la tara dell’anima. Il compromesso accettato. Il canto di un popolo.

Per noi che l’adesso è solo una fase transitoria tra ciò che siamo stati e quello per cui stiamo lavorando, tutto ciò è incomprensibile e impossibile da condividere.
L’unica cosa che possiamo fare, per non fargli e non farci torto, è accettarlo provando a giudicarli tenendo da parte il nostro bagaglio cognitivo.

Un lavoro costante in bilico tra il dito puntato e la mano aperta di un mondo in cui, per una volta, dobbiamo accettare di non essere i protagonisti ma soltanto degli spettatori.

E allora io non lo so cosa sarà di questo 2013/2556.
So che proprio come quei bambini, non sappiamo cosa ci riserverà, né cosa diventerà.
Sappiamo che proprio come quei bambini è appena nato e vivrà giorno dopo giorno. Mese dopo Mese.

Gennaio

Febbraio

Marzo

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Aprile

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Maggio

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Giugno

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Luglio, Agosto e Settembre

Ottobre

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Novembre

e Dicembre

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E il mio augurio, per loro, per voi e sì, anche per me stesso, è che sia un anno pieno di momenti, che una volta sommati, somiglino un po’ alla forma che diamo alla nostra idea di serenità.

Baci da Bangkok.

 

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Le persone che conosciamo da tanto tempo sono quelle su cui ci sbilanciamo meno. Quelle a cui facciamo i complimenti per ultimi. Quelle a cui diamo pareri ponderati. Quelle con cui rimandiamo perché tanto lo facciamo la prossima volta. E’ scontato.

Alessio Danesi è stata la prima persona a parlarmi dell’ipotesi di una trasmissione dedicata ai personaggi iconici del fumetto popolare italiano. E’ stata la prima persona a parlarmi di Fumettology. E’ stata la persona che mi ha chiamato per coinvolgermi nella puntata dedicata a John Doe. E’ stata la persona che mi ha intervistato.

Ma siccome io e Alessio ci conosciamo da quando la nostra età aveva come prima cifra un bell’uno e con lui ho condiviso viaggi, serate, concerti e santi stefani, quando ho realizzato un’intervista agli autori di Fumettology ho parlato con tutti tranne che con lui.

Bravo stronzo amico!

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E’ per questo che prendendo la palla al balzo della puntata di Fumettology che andrà in onda stasera e sarà dedicata al mio personaggio preferito di sempre, ne approfitto per scambiare quattro chiacchiere proprio con lui.

Da quando ci conosciamo siamo accomunati da una caratteristica ricorrente (o una maledizione, vedi tu!) ossia quella di trovarci a fare lavori sempre nuovi, sempre diversi. Io a cavallo tra un medium e l’altro per poter raccontare, tu donandoti anima e corpo al fumetto per attraversarne tutte le professioni della filiera produttiva. Sei stato sceneggiatore, traduttore e managing editor e direttore editoriale, seguendo un percorso che dal tuo paese d’origine ti ha portato alla ribalta in Italia, poi in Europa e adesso alla conquista del mondo. Fossi uno di quegli scienziati pazzi della E.C. Comics adesso non ti resterebbe che distruggerlo ma forse hai dei piani diversi. Raccontami un po’ di questo percorso. Di come hai iniziato e di come hai, via via, modificato i tuoi obiettivi fino al raggiungimento della tua posizione attuale.

Sono il direttore editoriale della RW-Lion, che è la casa editrice di Batman e Superman in Italia, e ne decido la programmazione editoriale. Collaboro inoltre con XL di Repubblica e con Fish-Eye. Ho sceneggiato fumetti e fotoromanzi. Ho curato collane di allegati editoriali come Maestri del Fumetto e Batman La leggenda. Ho letto più fumetti di quanto sia umanamente possibile.

A questo aggiungici una certa irrequietezza: mi piacciono tante cose e credo che sia possibile vivere (nel senso di “guadagnarsi da vivere”) delle passioni che si hanno. Oltre al fumetto, adoro il cinema, la cucina, la politica. Amo le storie e credo di avere la capacità di trovarle. Ho sempre sentito l’esigenza di comunicare agli altri ciò che mi piace. Ho un approccio futurologico. Analizzo quello che faccio e provo a capire dove mi potrebbe portare tra due, tre, cinque, dieci anni. Non vivo tranquillamente l’oggi. Diciamo che faccio l’esatto contrario di quello che consigliano i due più importanti filosofi dei nostri tempi, Yoda e John Lennon.

 

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Probabilmente è proprio perché hai esplorato il fumetto attraverso i suoi ambiti molteplici che hai deciso che fosse arrivato il momento di poterlo raccontare. Cosa c’è alla base di Fumettology?

Qualcuno ti ha mai raccontato la vera storia di G.L. e Sergio Bonelli o delle Giussani? Cosa succedeva a Crepax nella Milano degli anni 60? I legami tra l’ebraismo e Max Fridman? Oppure le battaglie sociali di Lupo Alberto e i dolori del giovane Sclavi? Hai mai visto uccidere la fantascienza dal futuro in Nathan Never? Io tutte queste storie le ho ascoltate, negli anni, da autori, redattori, persino dai lettori e le ho raccolte. Mi è sembrato naturale cercare di convincere una società di produzione a realizzare un programma tv non sulla “Storia del fumetto”, ma sulle storie e le persone che vivono tra una pagina e l’altra, cercando di far riscoprire all’Italia non il mito del fumetto, ma il mito del fare fumetto.

Com’è nata la tua collaborazione coi ragazzi della Fish-Eye?

Sono cresciuto assieme a uno dei soci di Fish-Eye e regista di fumettology, Dario Marani. Abbiamo cominciato a leggere fumetti e a vedere film praticamente insieme. Poi ognuno di noi si è scelto ciò che gli piaceva di più e lo ha trasformato in lavoro. Parliamo di questo progetto da anni, facendo scalette, selezionando personaggi e autori e, appena ci sono state le condizioni, siamo partiti avendo al nostro fianco due compagni di viaggi e alleati straordinari, Clarissa e Alessio Guerrini.

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Durante la realizzazione delle puntate sei entrato in contatto con maestri del fumetto italiano che probabilmente già conoscevi di persona e che forse hai visto attraverso una luce nuova. Quali sono le figure che ti hanno colpito maggiormente e per quale motivo?

Stare con ognuno di loro per tre ore o più (perché ogni intervista tanto è durata!!!) mi ha fatto capire una cosa. Il popolo dei fumettisti ha una grande umanità e riesce come pochi a comunicarla attraverso il proprio lavoro. E’ stata una grande soddisfazione avere la consapevolezza di fare parte di questa tribù. Ho adorato Claudio Villa, perché è la persona di talento più umile che io abbia mai incontrato. Giuseppe Palumbo, perché sa farsi volere bene (anche dalla telecamera). Uno di quelli con il cuore al posto giusto. Gallieno Ferri, perché mi ha fatto capire la differenza tra la leggenda e la storia. Tra quelli che non conoscevo: la redazione di Lupo Alberto, veri custodi della fede del Lupo blu e Antonio Serra, con il quale mi sono accorto di condividere lo stesso approccio critico al fumetto e al suo mondo. Ah… e Alfredo Castelli. Se Sergio Bonelli è (è, non era) il padre del fumetto italiano, Alfredo ne è sicuramente lo zio! Un esempio per chi vorrebbe migliorare questo mondo.

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Stasera andrà in onda la puntata legata al mio personaggio dei fumetti preferito: Zagor. A parte invidiarti a bestia per aver trascorso tutto quel tempo con lo staff realizzativo e aver avuto modo di vedere il maestro Ferri all’opera direttamente al suo tavolo di lavoro, mi racconti com’è stato approcciare Zagor e il suo mondo? Che impressione vi hanno fatto i suoi autori? Credo si percepisca, molto più rispetto ad altre icone del fumetto italiano, che chi fa parte di quello staff si sente orgoglioso di portare avanti una missione insieme ad un gruppo di amici. Hai avuto la stessa impressione anche tu?

Ti capisco, anch’io invidio me stesso! Non mi sembra possibile avere partecipato a questa Avventura!

Quello che dici è perfettamente condivisibile: non puoi lavorare a Zagor senza essere infatuato di Zagor. Devi essere un devoto per approcciarti al mito del Re di Darkwood. Zagor è forse l’unico fumetto italiano popolare prima di Dylan Dog ad avere più piani di lettura: può essere apprezzato da un bambino come da un adulto. Non pretende controllo e consapevolezza da parte del lettore: se vuoi vedere Zagor “solo” come un bravo ragazzo che vaga nella foresta di liana in liana, puoi farlo. Ma se vuoi approfondire davanti a te di dispiegherà un mondo! Faccio un esempio: Zagor ha molto successo nei paesi che hanno combattutouna guerra civile (Italia, Balcani, Turchia): pensate sia un caso? Provate a pensare al ruolo dello spirito con la scure come pacificatore delle varie etnie di Darkwood e unite i puntini.

Zagor è come i Simpsons! Anzi, i Simpons sono come Zagor! è un personaggio che solo apparentemente può apparire assemblato in maniera casuale da Nolitta sfruttando le sue suggestioni adolescenziali. In realtà è frutto di un approccio postmodernista in cui tutto DEVE essere frullato assieme. Orrore, dramma, avventura, super-eromismo, conflitti, persino politica, Nolitta riusciva a nascondere in quelle pagine tutto quello che una mente irrequieta come la sua riusciva a intercettare. Non ci vuole solo passione per scrivere e disegnare oggi Zagor, bisogna esserci nati. Nella puntata si capisce una cosa degli autori zagoriani: da Ferri a Boselli, a Burattini, a Verni e Laurenti, tutti, TUTTI, hanno un sincero rispetto per Zagor. Puoi parlare male di Dylan Dog, dicendo che è insicuro e pieno di fobie, e puoi criticare Tex, perché molti lo vedono come uno sbirro un po’ troppo autoritario. Ma non puoi parlare male di Zagor. Se lo conosci, non ce la fai. è più forte di te. Perché Zagor è un personaggio sincero. Vero.

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Nell’episodio viene ribadita l’attualità di un personaggio come Zagor che fa del suo postmodernismo originale un punto di forza assoluto che gli permette di non invecchiare e risultare sempre fresco (laddove il postmodernismo di John Doe è allo stesso tempo causa della sua vita e della sua morte). Nel Tom Strong di Alan Moore ho riconosciuto, trasposto nel ventunesimo secolo, quella spinta iniziale di Nolitta nel far coincidere, in un unico calderone, tutte le suggestioni della narrativa alta a braccetto con quella a buon mercato, senza distinzione alcuna tra cinema, fumetto e letteratura. Qual è la tua opinione in merito riguardo al personaggio e alle sue origini?

All’inizio, Zagor nasce perché Nolitta, essendo non solo un appassionato di fumetti, ma anche un appassionato di disegnatori, NON vuole assolutamente lasciarsi scappare l’occasione di lavorare con un giovane maestro dell’epoca: Fergal/Ferri Gallieno. Bonelli crea il personaggio e poi quasi lo abbandona alle mani sapienti di Ferri. Passato qualche tempo, Bonelli riprende il personaggio e ne ricomincia a scrivere le storie. Come se avesse voluto cominciare la sua avventura zagoriana, solo una volta pronto. Nonostante l’inesperienza, però, Nolitta aveva già compiuto scelte importanti nell’economia del personaggio che gli avrebbero consentito di NON avere problemi a scriverlo. Aveva infatti avuto l’intuizione di creare un mondo assolutamente libero da vincoli in senso assoluto (perdonami la ridondanza). E alla fine ha fatto di Zagor un alfiere del POP.

Zagor è Pop quanto Lansdale, Newman, Pratchett, ma prima della nascita di tutti questi straordinari scrittori.

Nolitta decide di inserire in Zagor tutto ciò che adorava in un collage narrativo che è anche un monumento alla cultura di uno degli intellettuali più importanti che la nostra nazione abbia mai avuto. E secondo me oggi Zagor deve raccontare ciò che piace ai suoi autori, che sono anche i suoi primi lettori, in un gioco di specchi continuo.

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C’è una puntata di Fumettology che ti sta particolarmente a cuore?

Diabolik e Zagor. Sicuramente. Tutte e due le puntate riescono a stabilire un legame tra il mondo reale e quello del fumetto.

Entrambe hanno poi una caratteristica comune: riescono a comunicare tutta l’umanità e la complessità del nostro mondo di carta. Io tendo ad avere un approccio militante alla cultura del fumetto e spero che questo programma televisivo riesca ad ampliarne un po’ la percezione, e credo che, con le puntate di Diabolik e Zagor, ci siamo riusciti perfettamente. Per me era importante parlare di fumetti in televisione nei termini in cui Fumettology lo sta facendo.

L’icona che è rimasta fuori e che avresti voluto con tutto te stesso?

Zanardi. Voglio molto bene al lavoro di Pazienza e sono amico di Marina Comandini. Sarebbe stato bello fare una puntata su Zanna, Colas e Petrilli. Anche se, secondo me, è tempo di realizzare proprio una serie televisiva su Zanardi, e non solo una puntata su Fumettology!

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Condivido. Anche se ambientandola oggi, nei licei italiani, io per il ruolo di Zanardi sceglierei UNA adolescente.

E su questo pensiero, vi ricordo che stasera, per voi fortunelli che siete in Italia, alle ore 22.50 andrà in onda su Rai 5 la puntata di Fumettology dedicata a Zagor.

Guardatela e innamoratevi anche voi di questo personaggio senza tempo.

Il mondo comincia dove finisce.

31 dicembre 2012 da Mauro

Il 31 dicembre di due anni fa avevo bisogno di allontanarmi dal mio mondo e di lasciarmelo alle spalle. Scappai a Bangkok e scrissi un post intitolato: L’anno comincia lontano.

Il 31 dicembre 2011 invece, atterravo in Messico (da quell’esperienza derivano le foto che vedete a corredo di questo post – cliccateci sopra per vederle grandi!) per guardare da vicino i figli di quei Maya di cui si sarebbe parlato all’inverosimile nei mesi successivi.

Persi un occhio mentre l’aereo toccava il suolo della capitale e lo ritrovai cinque giorni dopo grazie alla dottoressa Ines Mendoza, un metro e sessanta di tipa buffa, vestita sempre in tuta e uscita direttamente da un film di Rodriguez.

L’unico post scritto con un occhio solo si intitolava: L’anno comincia dove finisce.

In quelle righe mi auguravo che la fine arrivasse sul serio e che ai puntini di sospensione spettassero soltanto quei momenti di dubbio che servono a rintracciare la verità, e così è stato.

Il mio 2012 è stato un anno di finali e fortunatamente non c’è stato bisogno di aspettare dicembre.

Ho portato alle estreme conseguenze alcuni miei propositi e raso al suolo il mio modo di relazionarmi col mondo del lavoro partendo da quello che voglio e non da quello che credo gli altri vogliano da me.

E per chi, come me, ha fatto delle sue passioni, dei suoi interessi, dei suoi sogni e del suo bisogno il proprio lavoro, capirete che è un radicale cambio di prospettiva.

In questi undici anni ho imparato qualcosa da tutti quelli che ho incontrato e sono stato fortunato: i migliori di me erano in netta maggioranza rispetto ai peggiori.

I migliori mi hanno regalato gli obiettivi, i peggiori l’esperienza.

E mi è apparso finalmente chiaro che il lavoro non è ciò che mi chiedono.
Non è un’urgenza. Non è un conflitto. Non è una questione di vita e di morte.

Il mio lavoro sono io.

Io che l’unica cosa che so fare è inventare storie da raccontare.
Che siano a fumetti o stampate su pellicola, che siano interpretate da attori o da disegni animati, che siano per uno spot, una canzone, una serie o anche solo per questo blog, sono sempre storie da inventare e raccontare.

E per farlo devo muovermi, incontrare, conoscere, parlare, confrontarmi, viaggiare, leggere, guardare, scoprire e cercare.

Per questo ho deciso che il mio 2012 si concluderà come fa l’Adriatico quando si mischia allo Ionio davanti alle spiagge di Leuca.
Finirà svanendo nella bocca del 2013 che si apre con il viaggio più lungo della mia vita.

Tra due giorni lascerò Bangkok alla volta di Ayutthaya, la vecchia capitale.
Da lì, a bordo di autobus scalcagnati e improbabile motociclette percorrerò la provincia del Chiang Mai e risalendo il fiume Mekong entrerò in Laos.
Da Vientiane, proseguendo di giungla in paesini, arriverò in Vietnam, ad Hanoi prenderò un volo per una veloce sortita ad Hong Kong e una volta tornato, partendo da Halong Bay, scenderò lungo la costa vietnamita fino a raggiungere Ho Chi Minh (“Saigon… shit. I’m still only in Saigon… “) e, se tutto va secondo i piani, arrivare finalmente in Cambogia fino al tempio di Angkor Tohm.

Trentuno giorni e uno zaino.

Con me, una nikon per fermare le immagini, il portatile per mettere a fuoco i pensieri e l’unica compagna di viaggio che si possa desiderare:

Spero di tornare pieno di storie da raccontare, sono sufficientemente grasso da poterle contenere tutte.

Buon nuovo mondo a tutti.

 

Scritto in me, messico, mondo | 2 commenti »

Questa sera andrà in onda la prima di dieci puntate che comporranno un’intera trasmissione completamente dedicata al fumetto italiano.

Trenta minuti in cui verranno puntati i riflettori su autori ed editori che riveleranno cosa si nasconde dietro alla nascita di fumetti come Tex, Valentina, Dylan Dog, Max Friedman, Nathan Never, Lupo Alberto, Martin Mistére, Diabolik, Zagor e John Doe e come si passi dalle idee, alla realizzazione delle pagine, fino alla vendita in edicola.

Solo a scriverne mi si bagnano gli occhi, e le lacrime di commozione che piovono copiose creano rigagnoli d’amore per il pianeta sporco della tastiera.

E allora chiamo Clarissa Montilla, Alessio Guerrini e Dario Marani, le tre anime e il cuore dietro a tutto il progetto (realizzato grazie al contributo, la consulenza e la competenza di Alessio Danesi della RW-Lion Comics) e ne esce una bella chiacchierata in cui il trio che compone la Fish-Eye Digital Video Creation fa luce su alcuni aspetti che già hanno cominciato a interessare tanto i fan quanto gli addetti ai lavori.

Leggetevela.
Potrete farlo anche guardandoli negli occhi.

 

La prima puntata di Fumettology sarà trasmessa in televisione questa sera ma la sua avventura è iniziata diverso tempo fa. Mi parlate di come è iniziato tutto? Come mai avete scelto di parlare di fumetto e di parlarne in questo modo?

Alessio: Fumettology debutta oggi su Rai 5, ma, come dici tu, Mauro, l’avventura è davvero iniziata diverso tempo fa! Un programma sul fumetto italiano era nei nostri desideri e nelle nostre intenzioni già da anni, ma per qualche strana ragione la tv non è molto propensa a parlare di fumetto. Abbiamo incontrato delle resistenze e a volte anche del palese disinteresse, finchè non abbiamo trovato un canale illuminato come Rai 5 che ha capito le potenzialità dell’argomento. Perchè abbiamo scelto di parlare di fumetto? La risposta è: perchè no? Il fumetto, nel nostro come in altri Paesi, ha una grande storia e anche un grande avvenire. E’ qualcosa che accomuna diverse generazioni e diversi strati sociali, tra tradizione e rinnovamento continuo. Ha la stessa dignità del cinema e della letteratura. Quindi perchè non parlarne e non svelarne il così detto “dietro le quinte” per farlo conoscere meglio?

Clarissa: Io personalmente credo che alcuni fumetti potrebbero essere studiati nelle scuole e sarebbero un ottimo strumento di apprendimento, come i Promessi Sposi o altri grandi romanzi, perchè sono portatori di valori, di storia e di storie e perchè, come direbbe Manzoni, hanno saputo unire “l’utile al dilettevole”. Abbiamo scelto di raccontare alcuni dei più importanti personaggi a fumetti italiani cercando di non tralasciare nessuno degli aspetti possibili. Fumettology è, però, innanzi tutto, un programma immaginato per tutti, non solo per gli appassionati di fumetto, quindi alla nostra prima idea – più di nicchia e più difficile da far passare in tv – di parlare dei mestieri del fumetto, trattandone uno in ogni puntata, siamo passati al racconto dei personaggi. Di fatto la sostanza non cambia: in ogni puntata ci sono due capitoli – Nero su Bianco e L’Avventura – che parlano effettivamente di due mestieri imprescindibili nel fumetto: il disegnare e lo scrivere; ma ogni capitolo è impregnato dei mestieri del fumetto visto che a parlare sono i professionisti stessi. E’ solo una questione di prospettiva!

La scelta della decina di personaggi raccontati. Attingendo a un patrimonio sterminato come quello del fumetto italiano, immagino non sia stato facile sceglierne soltanto dieci. Com’è andato il toto-personaggio? Potete raccontarmi qualche aneddoto, qualche preferenza, qualche clamorosa esclusione?

Dario: Non è stato facile raggiungere una “rosa di prescelti” per queste dieci puntate. Quando abbiamo avuto la nostra lista completa sapevamo che, tra i lettori e gli appassionati, ne avremmo scontentato qualcuno, ma questo sarebbe stato inevitabile in ogni caso: da qualche parte bisognava cominciare e le puntate erano dieci, non di meno non di più! Come abbiamo ripetuto altre volte, ci sono stati tanti personaggi a cui abbiamo dovuto rinunciare, per questione di opportunità o per questione di logica narrativa. Quando si mette su una produzione per un programma tv bisogna anche fare i conti con la realtà, non solo con la propria passione o con la voglia di parlare di un argomento. Noi siamo molto soddisfatti dei “nostri” dieci personaggi: sono tutti personaggi di grande statura e di ognuno di loro era giusto parlarne e dedicargli una puntata del nostro programma. Quello che non volevamo era parlare solo del fumetto d’autore o solo del fumetto popolare: volevamo trattarli entrambi e dare ad entrambi pari dignità come è giusto che sia, senza falsi intellettualismi. Molti ci hanno scritto chiedendoci perchè non abbiamo parlato di Corto Maltese o di Pazienza o di Alan Ford o della Disney o di altro ancora… se avessimo invece escluso Tex o Valentina, qualcuno, ora, sarebbe qui a chiederci perchè non sono loro nella rosa delle dieci puntate! Quello che ci piace pensare è che questa edizione di Fumettology sia solo una prima serie, speriamo che ce ne siano magari una seconda e anche una terza per poter recuperare gli “appuntamenti rimandati” con altri grandi personaggi!

E’ stata una produzione del tutto autonoma o la Rai c’ha messo lo zampino in termini contenutistici e formali?

Clarissa: Come accennavano prima sia Dario sia Alessio, la Rai non ci ha “messo lo zampino”, anzi, ci ha dato una grande opportunità che sino ad oggi ci era stata negata: portare in tv un intero programma sul fumetto italiano. E’ ovvio che la tv, come il cinema e l’editoria in generale, risponde a delle regole e a delle necessità che noi non abbiamo mai subito più del necessario, tanto da uscirne frustrati. Fumettology è il perfetto equilibrio tra ciò che abbiamo potuto fare e ciò che abbiamo voluto fare in piena libertà editoriale, come è giusto che sia.

Il fumetto è un’arte che, a differenza del cinema e della tv, non è in movimento. Come avete affrontato questo divario tra i due mezzi?

Dario: Quello che in assoluto non volevamo era snaturare il fumetto privandolo delle sue peculiarità. Far, ad esempio, interpretare brani di dialoghi da attori da apporre sulle tavole disegnate è una cosa che abbiamo scartato sin dal primissimo momento. Ci siamo invece concentrati sulle tavole stesse e sulla loro animazione: un’animazione che, dal mio punto di vista, è giusta sia per la tv sia per il fumetto perchè offre allo spettatore la possibilità di “viaggiare” all’interno delle tavole e penetrare e sprofondare nel disegno, che è esattamente quello che accade durante la lettura di una storia o di un albo a fumetti. Abbiamo cercato di restituire una suggestione che potesse essere valida per tutti, senza arrogarci il diritto di aggiungere elementi a ciò che già si presenta perfetto di per sé. E’ stato un lavoro lungo e impegnativo ma credo che abbia dato i suoi frutti: non è invadente ed è, in qualche modo, “universale” perchè non pretende di interpretare ma anzi è volto all’esaltazione delle tavole e dei disegni stessi. Non le abbiamo contate, ma a memoria, posso certamente calcolare che sono state animate oltre 1000 tavole!

Fish-Eye: Clarissa, Alessio, Dario. Come vi siete incontrati, quali sono stati i vostri percorsi personali, cosa avete costruito insieme e quali sono i vostri prossimi obiettivi.

Clarissa, Alessio, Dario: Ci fa piacere che tu ci faccia questa domanda ma non è affatto facile rispondere in poche parole! Quello che possiamo brevemente dire è che ci siamo conosciuti lavorando su altri progetti assieme, prima di fondare la Fish-Eye Digital Video Creation. Dopo un certo periodo di lavoro assieme e di reciproca stima, abbiamo capito che eravamo fatti l’uno per l’altra e quando le cose stanno così, nella vita in generale, non puoi che cogliere l’attimo: ringrazi per la fortuna che ti è capitata di incontrare proprio le persone giuste e abbracci immediatamente il futuro! Ecco perchè assieme abbiamo dato vita alla nostra casa di produzione, la Fish-Eye, con la quale speriamo di conquistare almeno il mondo!

 

E io glielo auguro di cuore.

 

I quotidiani di tutt’Italia riportano che oggi, 3 dicembre 2012, il Papa sbarca su Twitter. Dicono anche che per il primo tweet dovremo aspettare il 12 c/m, che ovviamente non sarà scritto da Benedetto XVI, ma che sicuramente lui gli darà un’occhiata (anche perché non seguirà nessun altro che sé stesso).

Mentre mi crogiolavo nell’attesa dei 140 caratteri santi, mi ritrovo a leggere su facebook un intervento di Don Leonardo Maria Pompei, sacerdote della chiesa di S. Michele in quel di Latina.

Io a Latina c’ho vissuto parecchio tempo, e tra un videoclip e uno spot, ho lasciato lì un bel po’ di persone care.
Alcune di queste conoscono personalmente il sacerdote in questione e quindi, tramite loro, riesco a leggere alcuni dei suoi proclami domenicali.

L’ultimo era tutto indirizzato agli omosessuali e al rischio di una legge anti omofobia, argomento sul quale, Don Leonardo, decide di mandare avanti S. Pietro:

e di aggiungere, in calce, l’opinione sua:

A quel punto, io faccio due o tre riflessioni tra me e me, e la cosa muore lì.

Poi però decido di mettermi a leggere i commenti sottostanti.
Così, per capire cosa pensa chi la pensa diversamente da me.

Mi accorgo che nessuno osa esprimere un pensiero che possa contraddire in qualche modo la visione sui “figli della maledizione” e mi imbatto nelle parole della signora Irma:

Rimango un po’ così per sette minuti.
Il tempo sufficiente per far arrivare qualche risposta, tra cui quella del Don:

è la reazione compatta ed estasiata dei fedeli:

A quel punto, visto che il mio livello di sorpresa, alla risposta di Irma era 4, a quella di Don Leonardo 1000 e a quella dei fedeli 1100, vuoi perché l’argomento mi sta a cuore, vuoi perché credo che il dialogo sia l’unico strumento di confronto che abbiamo, decido di intervenire e dire la mia:

Mi aspetto una risposta da Irma e invece è proprio Don Leonardo a lanciarsi.
Un bel po’ piccato.

Ritrovandomi controvoglia in un remake di Don Camillo & Peppone, cerco di riportare la discussione su quei binari che ritengo possano essere più consoni a quelli ecclesiastici.

E invece no.

Trovando citati, in ordine, Sodoma, Gomorra e Satana, decido che sto.
Non ce la posso fare a non ribattere con Zion, Acheron e Robby il Robot per cui decido di ritirarmi.

Nel frattempo il dibattito continua è c’è chi arriva a una conclusione

che però viene subito fatta sparire dal topic e a quel punto, sollecitato da Matteo, dico la mia un’ultima volta.

Non l’avessi mai fatto.
Permettendomi di nominare il figlio del Boss, Don Leonardo inizia a scagliarmi contro una serie di anatemi e vengo ribattezzato “Falso Maestro”, come un nemico di Lupo Solitario.

La furia di Don Leonardo non trova pace e mi colpisce con una sequenza di citazioni che Tarantino neanche in mille Pulp Fiction.

Arrivando a concludere che non è lui che mi sta insultando, ma bensì San Pietro duemila anni fa.

Penso a mille modi per ribattere ma, voglio dire, chi mai si permetterebbe di rovinare una simile – perfetta – conclusione?

Gli altri commentatori:

Sul “Sempre e cmq… FORZA E ONORE… AVE MARIA.” credo di aver riconquistato un po’ dello splendore perso e invece eccolo che torna, accompagnato da Irma che ha risposto alla sua chiamata, e forte della luce divina dalla sua, mi attacca e affonda definitivamente paragonandomi a Barbara D’Urso (che conosco solo in virtù del fatto che Nuccio se la farebbe da anni)

A quel punto la curiosità mi viene.
Lo ammetto.
Voglio carpire qualcosa di più da Irma. Quanti anni ha, che fa, cosa le piace.

Ma la curiosità, si sa, tra un’affiliazione e una citazione, uccise il gatto:

La messa è finita, andiamo in pace.

 

Almeno noi.

 

 

P.S.
Nessuna privacy è stata violata nella realizzazione di questo post in quanto,  sia l’intera conversazione, che le foto della signora Irma, sono pubblicamente visitabili semplicemente cliccando QUI e QUI.

 

 

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