Qualche post fa parlavo di cosa può accadere quando si tengono dei corsi pomeridiani ai bambini delle medie.
Per quello che succede invece quando la classe è composta da trentenni, bisogna arrivarci preparati.
Aldilà delle lezioni fatte alla Scuola Internazionale dei Comics di Roma e gli interventi nelle università, m’è capitato d’insegnare in due occasioni, entrambe per corsi gestiti dalla comunità europea.
Il primo fu un corso di Cartoon Expert che ho avuto la fortuna di gestire in coppia con Luca Raffaelli.
Il secondo, un corso di narrazione crossmediale che aveva tra i docenti, oltre al sottoscritto, quel genio di Max Giovanoli, autore dell’imprescindibile Cross-Media: le nuove narrazioni che vi consiglio di recuperare.
Se durante il primo corso avevo pochi strumenti per valutare effettivamente chi mi trovavo davanti, durante il secondo faticavo a concentrarmi sul contenuto della lezione perché ero troppo preso dal tessuto umano presente in aula.
Una ventina di ragazzi tra i 25 e i 35 anni.
Venti vite diverse davanti a me.
Venti storie, venti casini, venti vittorie, venti sconfitte, venti ricerche, venti vite come la mia.
Solo che io stavo da una parte e loro tutti dall’altra.
Questo, necessariamente, generava un conflitto iniziale.
Una distanza.
Chi è ‘sto ragazzino? Cosa pensa di poter insegnare? Chi ce l’ha messo? Ah, non è neanche laureato.
A nessuno piace sentirsi fare la lezioncina da un coetaneo, è effettivamente comprensibile.
Quindi la prima fase è cercare di sopravvivere.
Individuare i due, tre, che cercheranno di screditarti agli occhi della classe puntando sul fatto che non sei preparato quanto dovresti e metterli fuori gioco.
Solitamente non è difficile e capita spesso che lo facciano da soli (accadde durante il primo corso, con la tizia che asseriva che non era vero che inquadrare un personaggio dal basso serviva a renderlo più maestoso, inquadrarlo dall’alto più tapino, e gliel’aveva detto Kubrick in persona durante un workshop a Parigi) e comunque, l’unico modo per uscirne vivi è mostrare quello che hai fatto.
Concretamente. I tuoi lavori, la tua reel, il tuo vissuto, i tuoi contatti.
La pratica è l’unica cosa che puoi dargli che ancora non hanno.
Ma a quanto pare l’esperienza, come la depilazione pubica, è un concetto sopravvalutato.
Il secondo scoglio in cui è facile imbattersi infatti sono i teorici, i nozionistici.
Quelli che vogliono sapere come si chiama quella frazione spaziale di fotogramma tra la prima e la seconda barra laterale nel contesto dello spazio filmico.
Puntano il loro futuro sulla partecipazione a Chi vuol essere milionario, ed è inutile stargli a spiegare che se la Roma ha perso il derby, agli attrezzisti il giorno dopo rode così tanto il culo che il girato giornaliero non lo porti a casa con il nome dello spazio filmico ma col saperteli tenere buoni!
Aggiungeteci che io, di mio, ho sempre fatto a schiaffi con le nozioni (prendendocele di brutto!) e appartengo a quella tipologia artigiana cresciuta nelle botteghe di chi capiva cosa non funzionava semplicemente provandola e riprovandola.
Discepoli del metodo empirico su tutto e tutti.
Integralisti talebani dell’esperienza sul campo e nemici giurati degli alfieri teorici che spopolano in quelle ziggurat antidiluviane chiamate Università.
C’era questa mia conoscente, per l’appunto, che mi disse che era stata messa sotto contratto per scrivere un libro sui contenuti in cgi nel cinema e nella tv.
All’epoca lavoravo in Direct2Brain e avendo dalla nostra una bella manciata di videoclip e spot realizzati in 3d, la invitai in studio, convinto le potesse interessare un confronto pratico con chi queste cose le faceva tutti i giorni.
Non si presentò mai.
Il libro uscì puntuale, bello ricco di nozioni che lei aveva mutuato da altri libri letti all’università ed è attualmente utilizzato come libro di testo nelle facoltà di scienze della comunicazione.
Così è la vita diceva Vonneguth, ed io non posso che condividere.
Ma sto divagando tantissimo quindi torniamo ai trentenni che avevo davanti.
Confusi, perplessi, indecisi, anestetizzati.
Mh.
Io sapevo di voler fare questo lavoro da quando avevo 15 anni. Oggi ne ho 31 e ci campo.
Devo ringraziare solo i maestri che ho incontrato per strada e la mia testa dura che m’ha fatto rialzare tutte le volte che la sbattevo.
Mio unico talento.
Per arrivare a viverci serenamente, quindi, ho investito 15 anni.
Ok non siamo tutti uguali e non per forza bisogna avere delle turbe adolescenziali per lavorare. Giusto.
Ma com’è possibile che davanti a me ci fossero 20 trentenni che (a parte poche, significative, eccezioni) non avevano la più pallida idea di cosa stessero facendo?
La loro vita in tappe:
Liceo.
Università.
Corso della comunità europea.
Speranza di stage in una società di settore.
Speranza di stage in una società di settore.
Si perché il vero motivo d’interesse per frequentare questi corsi della comunità europea è la garanzia dell’inserimento nel mondo del lavoro tramite stage in una delle società “gemellate” con quella che gestisce il corso stesso. Per poi, a fine stage, ricominciare la trafila: nuovo corso – a volte diversissimo dal precedente, massì, tentiamo un nuovo sbocco che non si sa mai! – nuovo stage, nuovo corso, nuovo stage.
Questo, se tutto va bene, permette al corsista il miraggio di potersi mantenere sulle proprie gambe intorno ai 35 anni.
Ero perplesso.
E comincio a provocarli in una discussione sul tema, interessato alle loro reazioni.
Gli dico che sono dei privilegiati a potersi permettere di fare ancora corsi alla loro età, perché io al loro posto avrei dovuto continuare a fare il cameriere per continuare a praticare quella strana abitudine che è mangiare e pagare l’affitto.
Gli dico che se lo possono permettere.
E che su questo si adagiano.
Gli dico anche che un corso del genere non si fa a 30 anni e che, soprattutto nel nostro campo, con la concorrenza spietata di ventenni che girano già come tanti piccoli Fincher, è dura valutare il loro inserimento.
Mormorio.
In veste di rappresentante della Rainbow Cgi dico che non è nostra abitudine prendere stagisti e che quindi non abbiamo dato la nostra disponibilità per inserirli automaticamente.
Mormorio sempre più forte.
“Ecco, lo vedi che prima dici che ci vuoi aiutare e poi sei più stronzo degli altri?”
Dice proprio così il tizio giù in fondo. Quello che è venuto a due lezioni su otto.
Gli rispondo che uno stage automatico non può essere la loro speranza e che anzi, è un loro alibi.
Mi guardano straniti.
Li sfido dicendogli: il nostro è un lavoro assurdo, facciamo orari improbabili e non vogliamo zavorre. Non prendervi automaticamente come stagisti non vuol dire che non stiamo cercando persone nè che non siamo disposti ad assumerli. Ma per sapere se una persona è interessata o meno chiediamo ALMENO che faccia lo sforzo di inviarci il suo curriculum e venga a fare il colloquio.
In quel caso valutiamo NON se siamo interessati o meno a prenderci uno stagista ma a verificare se c’è davanti una persona con delle qualità per le quali merita di essere assunta.
Sapete quanti di quelli che mi stavano ascoltando hanno inviato il curriculum?
Nessuno.
Io, sinceramente, speravo in almeno due o tre, ma sono un ottimista.
Mi guardo intorno e vedo dei trentenni strani.
Trentenni che parlano del fatto che non c’è lavoro e che saltano di corso in corso per rimandare il momento di doverlo cercare (specifica: mi rivolgo alla tipologia di trentenne che è anche la mia, ossia quelli che si sono potuti permettere un certo percorso di studi e che, ovviamente, non vivono situazioni limite).
Non sento più dire “voglio lavorare per quella società” bensì “mi piacerebbe fare uno stage con loro”.
L’ambizione, come l’acqua, prende il colore dal cielo ed è diventata marrone.
Un marroncino tenue, precario di suo.
Prima di noi s’è decantata la generazione X, qualcuno c’ha chiamato generazione Y, ma io direi di lasciar perdere le lettere e passare direttamente alla punteggiatura.
Siamo una “Generazione ?” ostaggia di se stessa, con contratti di tre mesi più rimborso spese, di cui io per primo, che ci sto dentro con tutte le gambe, non so dire.