L’illusionista – Recensione.
Durante la premiere di Appuntamento a Belleville al Festival di Cannes del 2003, Sylvain Chomet viene avvicinato da due strambi figuri: Jerome Deschamps e Macha Makeieff.
Detengono i diritti delle opere di Jacques Tati, mimo, attore e regista di sei lungometraggi girati tra l’inizio degli anni ’50 e la fine dei ’70 e ancora oggi tra i massimi vertici del cinema francese, e gli offrono la possibilità di trasporre in animazione lo script inedito de L’illusioniste, che Tati scrisse negli anni a cavallo tra la produzione di Mon Oncle e Playtime.
Chomet gode nelle sue stesse mutande e si getta a piene mani in una missione definita “suicida” dai più, quei più che pensano che il cinema in animazione tradizionale sia materiale d’epoca, quelli che ritengono che un cartone animato possa essere realizzato solo per vendere merchandising, quelli che un film d’animazione dev’essere solo per bambini, quelli che esigono che la favola sia solo moderna e comunque piena di gag.
Si sgancia da quel Despereaux che doveva essere il suo primo film in Cgi e dedica anima e corpo al progetto di riportare in vita il genio di Tati riuscendo, nel 2010, a dar luce al suo secondo lungometraggio animato.
Con una poetica già bella e delineata dal film precedente e il segno forte e riconoscibile, in questo nuovo capitolo del suo percorso artistico, Chomet spinge oltre ogni limite gli elementi che lo caratterizzano.
Dilatato, silenzioso, rarefatto, sospeso.
Questi gli aggettivi che meglio si adattano alla piccola poesia messa in scena dal regista dell’ultimo film di Tati.
Del Tati attore. Del Tati autore.
Quello che Chomet reinterpreta e fa suo nelle movenze, nei tic, nei minimi dettagli non solo è Monsieur Houlot ma tutta la galleria di personaggi messi in scena da Tatisheffe in mezzo secolo di carriera e che adesso, per 90 minuti, torna tra di noi in quella che, più vera di un remake, è la rappresentazione della vita che continua, si cristallizza nell’immagine cinematografica dell’uomo a colori che rivede se stesso in bianco e nero, e si fa sogno.
Il finire della carriera di un vecchio illusionista, costretto a ridurre i suoi spettacoli a causa dell’arrivo di nuove forme d’intrattenimento (sia maledetto il rock!), che trova nuovi stimoli nel regalare un po’ di magia alla vita della giovane ragazza che ha deciso di seguirlo, è metafora della doppia condizione esistenziale che ha spinto Tatì prima e Chomet dopo, a raccontarla per espiare a differenti forme di mancanza.
Secondo alcune epistole dell’epoca, Tati avrebbe scritto la sceneggiatura de L’illusioniste immaginando una sua vita con Helga Marie-Jeanne Schiel, figlia illegittima abbandonata subito dopo la nascita, motivo per cui decise di abbandonare il progetto ritenendolo di una sofferenza decisamente troppo grande da sopportare.
Secondo Chomet invece, lo script sarebbe stato dedicato a Sophie, la figlia riconosciuta, come testamento spirituale per la sua crescita.
Ma è una versione che sembra avere a che fare più con la sua storia personale piuttosto che con quella di Tati . Chomet stesso ha infatti dichiarato di aver adattato il testo di partenza immedesimandosi nel personaggio principale a causa del rimpianto che prova per non aver visto crescere la figlia piccola, per via della separazione dalla moglie e degli impegni con il cinema.
Due rimpianti alle prese con una colpa da espiare e una tavolozza di colori, musiche e (pochissime) parole per rappresentarlo.
Una messa in scena barocca e allo stesso tempo minimale, stilosa ma classica.
Con un uso della cgi raffinato ed elegante, senza il timore di imbastardire la forte matrice artigianale dell’opera.
Tutta di Chomet la scelta di trasformare la Praga scelta da Tati in una Edimburgo pastellata di mille segni e dai tratti poco definiti, così come l’idea d’inserire l’esilerante coniglio carnivoro al posto della gallina beccante.
E intorno a loro una galleria di personaggi indimenticabili filtrati attraverso il punto di vista del creatore di quelle illusioni che portano una bambina a pensare che un mondo di magia e amore possa realmente esistere.
Anche se non è così.
Per trasformarlo realmente ci sarebbe bisogno di un mago.
Ma i maghi non esistono.
Stellette? 9 su 10