All’ombra dell’ultima luna.

4 gennaio 2011 da Mauro

Era intorno alla mezzanotte ma in una delle zone poco frequentate di Bangkok.
Una con poche persone, di quelle, per intenderci, dove è faticoso trovare un taxi e persino un tuc tuc.
Pensavo al fatto che chiunque scriva, per lavoro e per diletto, prima o poi si sente rivolgere le fatidiche domande: “Da dove prendi le tue idee? Dove nascono le tue storie?”
Come se esistesse un luogo segreto e prezioso di cui tu sei a conoscenza e gli altri no.
E’ triste e rassicurante allo stesso tempo, rivelare che non c’è nessuna pentola magica, che le storie esistono già pronte, non sono di nessuno e sono di tutti ed avvengono spesso davanti ai nostri stessi occhi, solo affinché si possa poi raccontarle.

Ero appena sceso da questo piccolo battello e avevo superato quattro uomini che giocavano a dama su un tavolaccio di legno usando come pedine dei tappi di plastica.
Mi ero lasciato alle spalle le due tipe che controllano il passaggio del molo e, insieme ad uno sparuto gruppo di persone, mi allontano dal fiume percorrendo questo pontile qui:

L’acqua odora di fogna, di un paio di imprecisate carcasse e delle centinaia di bottiglie che vedo a mollo mentre si spengono le luci di un locale dove avevo visto due musiciste suonare il salterio.
Un sorcio mi passa davanti talmente velocemente che se potesse percorrere tutto il globo manderebbe indietro il tempo fino al periodo in cui ero magro.

Poi, davanti a me, ecco i pescatori più improbabili di tutti i tempi:

Lo Smilzo perplesso e agitato, il Ciccione tutto preso dal cantare a gran voce gli mp3 nel suo cellulare e il Disilluso.

Tre poveracci puzzolenti che, imitando alcuni anziani dall’altra parte del pontile, tentano di rimediare una cenetta a basso budget.

Già li amo e decido di restare lì a vedere cosa riusciranno a fare.

Intorno a me intanto gli alberghi iniziano ad illuminare le finestre di quelli che rientrano:

Le due tizie dell’attracco si accorgono che le guardo e mi riguardano senza cedere per prime. Perdo io.

C’è lui che domattina avrà un invidiabile mal di schiena ma al momento gli interessa meno che a me che sto lì a chiedermi cosa abbia pensato prima di addormentarsi.

Un ragazzo e una ragazza che piegano insieme la tovaglia dell’ultimo tavolo della giornata.

E sempre loro che continuano a non prendere niente mentre Ciccio prova a far cadere il cellulare dalla balaustra quattro o cinque volte.

Sempre continuando a cantare.

Io gioco coi fuoco e fuori fuoco della macchina fotografica e mi accorgo di qualcosa che finora la mia capoccia non aveva registrato.

Cambio fuoco e li vedo chiaramente.

Questa ragazza finisce di cambiare il neonato e accenna sorrisi a me e a quello che ipotizzo essere il suo compagno (lo Smilzo perplesso e agitato – ebbene si)

Cerco di non pensare allo sporco orrendo, alla puzza e alla porta che potrebbe aprirsi da un momento all’altro colpendo in pieno il bimbo e mi fermo sul sorriso della mamma e sulla serenità che, comunque, mi dà.

Il fagotto, se non schiatta di setticemia, avrà degli anticorpi talmente cazzuti da mangiarseli al volo, i sorci velocipedi come quello di prima.

Poi sento delle urla di gioia dall’altra parte del pontile.

La zona dei vecchi.

Mi precipito e scopro, con gioia, che il vecchio senza canna e senza denti, munito solo di un barattolo al quale era legato intorno un filo con un verme all’amo, ha acchiappato una bella bestia:

Tutti si precipitano a complimentarsi e a sorridere al vecchio.
Si scherza e si parla della mangiata, dei modi di cuocerlo.
Il ciccione ha smesso di cantare e si atteggia ad espertone dimostrando di sapere perchè il vecchio sia riuscito a fregare tutti.
Il disilluso non fa una piega.
La mamma applaude.

Poi mi viene un pensiero. Solo a me a quanto pare, e mi precipito.

Eccolo lì il campione. Sempre al suo posto, ma stavolta senza lo stuolo di protettori intorno.

Alla mercé dei sorci corridori e dei terribili apritori di porte ad altezza cranio.

Ma è solo per poco. L’entusiasmo verso il pesce appena strappato al fiume svanisce presto.

Tutti, tranne la mamma, tornano al loro posto.

E quelli che per un attimo si sono fermati a guardarmi

Avevano un solco lungo il viso, come una specie di sorriso.

——

Le storie avvengono davanti agli occhi di tutti, l’unico privilegio che è concesso a chi le racconta, è legato alla natura del finale.
Perché i finali non appartengono alla vita e sono un invenzione dell’uomo, che si illude di potergli sopravvivere.

L’anno comincia lontano.

1 gennaio 2011 da Mauro

Le decisioni vanno prese velocemente e il click è la nuova frontiera del si lo voglio o dei vade retro.

E’ iniziato con una serie di click intorno a mezzogiorno e mi sono ritrovato su un aereo che faceva scalo a Monaco intorno alle diciannove.
Per poi ripartire alla volta di Bangkok, città in cui mi piacerebbe perdermi ma, ancor di più, trovarmici.

Guardavo un film quando mi accorgo che l’orologio del portatile segnava le 0.47. Il 2011 era arrivato senza disturbare me e tutti i passeggeri dell’aereo e questo già me lo rende più simpatico del 2010 che ho lasciato lì, a morire di inedia.

Alle 8 del mattino romano (e alle 14 del primo pomeriggio Bangkokese) tocco terra. Prenoto un aereo per la prossima destinazione e salgo su un taxi. Se qualcuno vi chiede più di 400 baht (10 iuri) per arrivare dall’aeroporto al centro della città vi sta rubando dei soldi, ma qui è la norma. Si tratta per qualsiasi cosa.

Ho preso una stanza intorno al sessantesimo piano, questa città di notte, dall’alto, ti toglie il respiro.
Guardo il ChaoPraia e conto almeno 6 diversi tipi di imbarcazioni, dalle chiatte mercantili alle piccole dueposti per gli innamorati.

Crollo addormentato e mi sveglio che sono le 19. Scendo, sbaglio piano e mi ritrovo in una piscina circondata da tizi che fanno fitness. Non ci siamo. Rientro nell’ascensore, scendo al piano terra e inizio a camminare per Silom Road. E’ quasi tutto chiuso e mi viene fame davanti ad ogni vetrina.

Voglio un massaggio. Voglio spegnermi per un’ora mentre thai-esperte-mani fanno di me ciò che vogliono e in più decido di spendere poco. Non perché sia un tipo misurato e parsimonioso ma perché più il centro relax è pieno di luci e più è ad uso e consumo dell’occidentale alla ricerca di un massaggio. Si, esattamente come me, ma a me invece piacciono quelli ameni, nelle viette laterali, con i televisori fissi sugli sceneggiati e l’odore forte d’infuso e oli.
Ne trovo uno che fa al caso mio, indecente il giusto, e mi ci getto dentro volentieri.
Trattativa anche lì e ci accordiamo per un full body massage with oil a 300 bath. M’accomodo e la thai-ciccia inizia a parlarmi girando intorno alle poche parole inglesi che conosce.
E’ simpatica. E’ simpatica e ride un sacco. Si scusa per il suo inglese, le dico di non preoccuparsi e le chiedo come l’ha imparato. Mi dice qualcosa che io interpreto come: “Ascoltavo il mio boss innamorato di una sua cliente.”
Chiedo lumi. Parte con la storia della sua vita.
Figlia di due contadini chini tutto il giorno sulle risaie, il padre non può permettersi di farla studiare e le dice che deve fare qualsiasi lavoro tranne quello dei suoi genitori. Perché quello è un lavoro chiuso, di campagna, gli altri invece possono portare opportunità. Lei allora finisce a cucire per una piccola azienda di Bangkok. Cuce in catena di montaggio ripetendo i gesti imparati a memoria. E’ lì che sente per la prima volta questa lingua strana, perché il suo capo ha una cliente inglese di cui è innamorato, per cui è l’unica con cui si intrattiene in telefonate che superano i dieci minuti. La cliente non sembra contenta perché a quanto pare, le ragazze ci mettono troppo a cucire i vestiti, ma il capo ci sa fare e i ritmi non diventano mai esagerati.

Affamata di gossip e incuriosita dalla parlata, Leh impara le più classiche forme di saluto e alcuni concetti base.
Un giorno, l’impaziente inglese si presenta in azienda ed accade il fattaccio, ma non quello che tutti s’aspettavano. Uno dei suoi accompagnatori nota Leh, e scoperto che mastica quel po’ di inglese che serve per finire orizzontali nello stesso letto, si dichiara.

Passano delle giornate interessanti e da quanto improvvisamente Leh preme sull’acceleratore, capisco che l’argomento non la mette di buon umore. In poche parole il tipo la lascia quando scopre che è rimasta incinta, si cresce la figlia da sola e quando resta incinta una seconda volta è lei stessa a cacciare il novello padre perché lei non vuole maschi vicini a sé.
Non dipende da nessuno e tutto ciò che ha di più importante sono le sue figlie e il suo lavoro.

Le chiedo se ora è innamorata, lei mi dice di no e mi gira di spalle che ora tocca alla schiena.

Io con la faccia nel buco del lettino mando fuori fuoco i fiori e penso che è bello imparare l’inglese facendoti i cazzi del tuo capo. Io con Mastrofini avrei potuto imparare al massimo qualche inflessione di borgata.

Dopo mezz’ora sono seduto al ristorante del 52esimo piano dell’albergo da cui faccio questa foto, unico posto di Bangkok in cui tira vento.

A sua discolpa posso dire che, chiamandosi “Breeze”, aveva messo le mani avanti. Scemo io.

Mangio ciò:


Tempura di gamberoni alla crema di wasabi e salsa thai dal nome incomprensibile ma è quella roba rossa lì sopra.


Spring roll di aragosta e zenzero.


Dim sum misti, quelli bianchi, i miei preferiti, sono di granghio e contengono noodles di soia e un pistacchio, quelli neri sono in realtà ravioli di fungo contenenti pesce gatto, quelli verdi sono di aragosta.

Anzi, metto quest’altra foto qui che mi fa più “Mangiare bere uomo donna

Finiti gli antipasti, ho continuato con


Riso con pesce affumicato ed erba cipollina


Noodles con quel pesce bianco lì di cui ignoro il nome, germogli di soia e verdurine


porco in agrodolce con leeches, peperoncini e sesamo.

Mi sarei potuto risparmiare gli involtini primavera d’aragosta. E il riso. Ma come al solito mangio il doppio di quello che mi serve.
Proposito per il nuovo anno: non usare la noia come metro di misura per decidere quando smettere di mangiare a tavola. Iniziamo col finire ALMENO quando finiscono gli altri.

E vediamo cosa succede.

Mi sono fatto scattare una foto e ne sono uscito con un occhio nero

quindi ora entro nel letto, mi leggo la storia doppia di Zagor scritta da Jacopo Rauch e disegnata da Laurenti e m’addormento senza che io lo sappia.

Buonanotte primo giorno.

JDn.s.#3 – Making of – La proposta.

30 dicembre 2010 da Mauro

Mail inviata a Lorenzo Bartoli e Roberto Recchioni l’8 luglio 2010.

– Proposta di Mauro Uzzeo per l’episodio n.3 della nuova stagione di John Doe –

“Ho letto una frase che m’ha divertito: per l’ateo “dio” non è. Non esiste. Sono tre lettere unite di seguito che non gli descrivono niente che esista realmente se non nella mente di chi le sta pronunciando. L’ateo “dio” non lo vede.

Ok quindi John Doe come viene visto da un ateo? 
E come rappresentare visivamente questo concetto?

Lo scopriamo nella nostra storia:

Robin convince John che per alzare le sue quotazioni serve un film, in cui lui stesso dovrà recitare. Serve che un regista supercool realizzi un mega spottone con una trama intrigante, effetti speciali sconvolgenti e che soprattutto, riesca abilmente a spacciare il verbo senza che sia reso manifesto.

John è scettico, le ricorda cos’è successo con “Battaglia per la terra” ma lei ribatte proponendogli di farlo dirigere al suo regista preferito di sempre (lo inventerei).

John ribatte che quel regista lì è ateo.

Lei ribatte che se c’è uno che può convincerlo a farlo recitare nel suo nuovo film quello può essere soltanto dio.

John accetta.

A questo punto il sentiero è tracciato e si avviano tutte le dinamiche che portano John sul set in attesa di farsi notare dal regista. 
Inizialmente la sua è una piccola parte ma sente di poter crescere nel suo ruolo.

Il problema è che il regista non lo nota minimamente.

Primo tentativo a vuoto, il secondo anche. John  preso dallo sconforto è al cellulare con Robin e si lamenta del fatto che, per il regista, lui neanche esiste.

“E ti lamenti tu?” Gli dice un tipo.

John si volta e, come se lo notasse per la prima volta, gli chiede: “E tu chi saresti?”

“Ecco vedi…” risponde il tipo “…lavoriamo insieme da una settimana e persino tu non m’hai notato”.

John conosce quindi il co-protagonista della nostra storia. 
Un tizio che ha recitato in TUTTI i film del regista preferito di John  ma John stesso non l’ha mai notato perché Tizio è da sempre arruolato come COMPARSA.

Tra John e Tizio scatta un rapporto che alterna momenti di cameratesca amicizia ad altri di sfida nel farsi notare dal regista (una sorta di versione nostrana di Extras in chiave John Doe) all’insegna della commedia più cinica.

Perchè il punto è: cosa succede quando dio è solo la comparsa di un film diretto da altri?

Scopriamo la dura vita della comparsa che vive solo per farsi notare, che ucciderebbe per dire una frase in scena, che si scanna con i suoi simili pur di farsi notare, pur di stare davanti ai riflettori qualche secondo di più.

Ma alla fine sarà John a vincere: non solo il regista lo noterà, ma verrà colpito dalla folgorazione divina che spesso lega per sempre un regista ad un suo attore feticcio (qualcuno ha detto Johnny Depp e Tim Burton?) e il film diventa quello spottone che Robin voleva sin dall’inzio.

Ma… John non ce la fa.

Il film sta venendo in un modo che lui non aveva previsto, il messaggio stesso che ne viene fuori è totalmente diverso da quello dei precedenti film del regista (a cui lui è legatissimo e che conosce a memoria), e il regista stesso sembra fuori forma, accecato da quel fuoco sacro che ora è sacro per il motivo sbagliato.
E in tutto ciò, ha chiaramente perso l’amico/rivale comparsa con cui non parla più dal momento in cui ha iniziato ad avere un suo camerino e ad essere trattato come una star da tutto il set.

John non vuole essere colui che macchierà per sempre la filmografia del suo regista preferito con questo brutto pasticcio, quindi, pur sapendo che Robin lo odierà a morte, s’impegnerà nel verso sbagliato portando il film a non realizzarsi.

Mesi dopo, in sala, probabilmente proprio con Robin, John vedrà il film realizzato senza di lui: un – fottuto – ennesimo – capolavoro.

Nel film c’è anche il suo amico. Non in un ruolo da protagonista, come la storia ci porterebbe a pensare ma la solita comparsa di sempre, in un ruolo in cui non lo vede nessuno. 
Tranne John, che lo nota subito. Tranne dio, che tutto vede.

——

Come potete notare, in questa primissima versione della storia mancano molti degli elementi che ne caratterizzeranno la resa finale.

La proposta è scritta in modo molto colloquiale perché la inviavo a due persone che conosco bene e sento regolarmente, ma la forma standard per la proposta di un soggetto è decisamente diversa.

Quelli che ho inviato alla Bonelli, ad esempio, sono più brevi e più mirati al punto. Scritti con una prosa non colloquiale e in cui, soprattutto, si analizzano più nel dettaglio gli sviluppi importanti della trama, dal prologo, all’epilogo.

Tornando a quello che avete appena letto, dei due aspetti più importanti della storia, Clint Eastwood e il padre di John, non se ne fa proprio cenno.
Per quanto riguarda il regista, l’intenzione era quella di inventarlo del tutto. Magari ispirandomi a registi esistenti ma comunque, senza aggrapparmi ad uno specifico. Il che, iniziando ad approfondire la stesura del soggetto mi iniziava a creare problemi.

Per rendere credibile il rapporto tra lui e John bisognava creare un passato, un percorso, una serie di film che li legavano indissolubilmente.
Film che, realizzati da un regista inesistente, avrei dovuto inventare io e poi essere così bravo da utilizzarli a dovere per creare empatia anche col lettore.

Inserire un regista specifico avrebbe creato però un altro problema più legato alla narrazione: il suo rapporto con John Doe.
Spostare gli eroi dei fumetti popolari in contesti reali crea sempre qualche squilibrio anche se le loro storie sono ambientate ai giorni nostri. Da una parte perché li inquadra in un preciso momento storico temporale, dall’altra perché si rischiano sempre i paragoni agiografici.

E’ stato in quel momento che è spuntato fuori Eastowood.

Eastwood che da vivo è già immortale, eterno. Eastwood che visivamente è fatto della stessa corteccia delle querce millenarie. Eastwood che è, si regista, ma altrettanto concretamente,  icona.

Eastwood e John potevano esistere sulle stesse pagine senza che sembrassero appartenere a due mondi diversi. E in più suona credibile che un personaggio come John provi una passione smodata per i suoi film (mentre, ad esempio, non sarebbe stato credibile col cinema di Herzog o della Comencini) ma soprattutto, era in linea con la mia storia il fatto che Eastwood, nei suoi film, abbia sempre messo l’uomo al centro di tutto.

Ok, ero decisamente arrapato.

Chiamai Roberto per proporglielo, lui accettò la mia proposta e un attimo dopo iniziò ad umiliarmi sulla sua preparazione su Eastwood rispetto alla mia.
Abbozzo. E mi lancio nel recupero.

In tutto questo però, della figura del padre di John, nel soggetto non ce n’è traccia e… non ce ne sarà mai fino alla fine!
E’ qualcosa di non previsto, arrivata, come mille volte succede, dopo aver iniziato a sceneggiare, così come il vero ruolo di Andy all’interno del cinema di Eastwood.

In questi casi le strade sono due: attenersi al soggetto proposto come fosse un dogma incontrovertibile, oppure lasciarsi trasportare dalla storia.
Nel primo caso sei sicuro di non sbagliare, ma il soggetto potrebbe diventare una gabbia in grado di bloccare sia te che stai scrivendo, che i tuoi personaggi.
Nel secondo devi stare attento a non lasciarti travolgere dall’onda ricordandoti sempre qual è la direzione verso cui hai deciso di portare il racconto.
L’emozione è la stessa di un rodeo in cui ti giochi il tutto per tutto per riuscire a restare in sella tra la promessa di un applauso e il rischio di finire col culo per terra sotto gli occhi di tutti.

Fine seconda parte.

[l’immagine a corredo di questo post è stata realizzata da Luca Maresca, disegnatore dell’albo]

Approfitto dell’uscita del mio primo albo di John Doe per mostrare una parte di quella serie di processi (mentali o produttivi che siano…) che solitamente restano soltanto nella testa degli autori o nelle porte chiuse delle redazioni.
Sperando di non annoiare chi, queste cose, le vive ogni giorno, e di interessare chi le sente per la prima volta.

Queste righe non pretendono di spiegare come si fanno i fumetti, raccontano semplicemente quello che ho vissuto io e quante strade sbagliate ho preso prima di imbroccarne un paio giuste.

Alla base della nuova stagione di John Doe ci sono state un sacco di telefonate con Roberto, tante chiacchierate ed una unica, grande, riunione a casa di Lorenzo in cui i due papà di John parlavano animatamente del loro personaggio, sotto gli occhi della piccola Greta, di Tiziana e i miei.

Avevo un sacco di cose da dire riguardo la nuova stagione ma me ne stavo in rigoroso silenzio… non volevo fare la figura dell’ultimo arrivato che improvvisamente si mette a spostare i mobili a suo gusto.

Li vedevo parlare del mondo che hanno creato e mi faceva piacere notare le differenze tra i due. Le stesse differenze che stanno alla base del successo di John.
Lorenzo e Roberto sono due autori così estremamente diversi che un personaggio che mixa le caratteristiche di entrambi doveva per forza uscirne fuori ricco di sfaccettature.

E’ Roberto a buttarmi nella mischia del brainstorming. Ci tiene che dica la mia e che non mi tenga niente (dopotutto è stato lui a spingere forte per farmi salire a bordo).
Lo faccio e li spiazzo un po’ perchè gli porto un elemento che forse non si aspettavano, ossia quello che voglio io da lettore di John Doe più che da autore.

Eccheccavolo, sono appena entrato a bordo nel team autoriale ma seguo la testata dal numero uno, quindi ne sono moooooolto più lettore che autore.

In pratica gli faccio da avvocato del diavolo, li stuzzico su quello che mi manca e che mi aspetto. Su quello che ho perso e che vorrei ritrovare e su quello che, di John, vorrei che non cambiasse mai.
Molte delle cose che dico li fanno sorridere perchè le scrissero proprio con l’intento di far affezionare il lettore, altre se le segnano e le infilano nella trama generale che stanno imbastendo.

Fatto sta che, interrotti dalle splendide pennette di Tiziana, ci alziamo dalle poltrone con la storyline della nuova stagione di John Doe chiara in mente.
Non conosciamo per filo e per segno cosa accadrà in ogni singolo episodio ma sappiamo perfettamente da quale punto partirà John, per quali strade passerà e dove si concluderà il suo percorso.

Adesso arriva il difficile.

“Pensa al tuo primo soggetto.” Mi dice Roberto.

“Buon appetito.” Rispondo io con la bocca piena.

Pensa-al-tuo-primo-soggetto. Queste parole mi rimbalzano per la testa nelle ore successive e nei giorni seguenti.
Mica facile.

Sono abituato che prima di partire con un progetto si fanno 2764 riunioni, si pianifica tutto fino all’ultima virgola con impeccabili piani di produzione e questi due pazzi vogliono che io inizi a scrivere il loro personaggio dopo una sola riunione. Ok. Panico. Panico. Che scrivo? Cosa scrivo che non mi faccia cacare come lettore? Cosa scrivo che non mi faccia odiare da tutti i fan del personaggio? Cosa per riuscire a divertirmi?

Mentre Rrobe sfornava una genialata dietro l’altra del numero 1 (ancora in mente la telefonata ricevuta quando gli è venuta in mente la sequenza che cita in maniera dissacrante uno dei momenti più lirici di tutto Watchmen!) io ero lì a chiedermi: cosa voglio raccontare? So cosa DEVO raccontare, nel senso che abbiamo stabilito nelle linee guida cosa dovrà accadere nei primi numeri, cosa DOVRA’ fare John… ma cosa VOGLIO raccontare per far arrivare questo concetto al lettore?

Ok qui iniziamo ad entrare in area spoiler, quindi, se avete già letto il terzo numero della nuova stagione di JD continuate pure.

Potete continuare anche se non lo leggerete mai o se, come me, dimenticate le trame un minuto dopo averle lette.

John, dopo il set up del primo numero scritto da Roberto, dovrà iniziare a fare i conti col fatto di essere un dio che perde, ogni giorno di più, il consenso dei suoi fedeli. Se nell’episodio di Lorenzo lo vediamo alle prese con una persona che ha perso la fede, nel mio, Robin dovrà escogitare un modo per fargli fare proselitismo.

Quale modo?

In testa mi rimbalzavano da tutte le parti i ricordi degli esami di Storia delle Religioni dati durante il mio periodo universitario.
Torno nella casa dei miei, recupero un paio di quei libroni sulle religioni monoteistiche e trovo un mio appunto scritto a penna e virgolettato: “Per l’ateo “Dio” non è. Non esiste. Sono tre lettere unite di seguito che non gli descrivono niente che esista realmente se non nella mente di chi che le sta pronunciando. L’ateo “dio” non lo vede.”

E inizio a buttare giù una storia in cui John dovrà vedersela con un nemico che non lo vede.
Un nemico per cui lui non solo è invisibile: non esiste proprio.

Grazie ad un delirante flusso di coscienza mi viene in mente il potentissimo arco di storie di Chuck Dixon e Romita JR sul Punisher War Zone degli anni ’90 e quindi decido che i nemici dovranno essere sette.
Ognuno avrà delle sue specifiche caratteristiche, ma tutti hanno in comune il non percepire l’esistenza di John.
Decido di cercare online per trovare i sette atei più famosi della storia.
Decido di inserire sicuramente Galileo Galilei.
Decido di chiamarli “Gli Eretici”.

Decido che non me ne frega un cazzo.

Eh.

Arrivato fin qua… mi accorgo che tutto il fuoco che avevo per raccontare questa storia, muore irrimediabilmente. Non me ne importa più nulla. Non m’affascina.
Perchè sto raccontando ‘sta roba? Che voglio dire con questi personaggi?

Niente.
Butto tutto.
Tranquillamente.
Me lo insegnò proprio Lorenzo anni fa: vietato affezionarsi alle proprie parole.

Parole sante. Se ti leghi troppo alle parole queste diventano pesanti come un masso che ti trascina giù per l’Hudson a far compagnia ad un sacco di scrittori impantanati.

Quella storia mi divertiva ma non mi dava molto di più. E soprattutto non mi serviva. E io invece voglio “usare” (per quanto orribile sia questo verbo) John Doe. Lo voglio usare per raccontare quello che ho dentro. Lo voglio usare per parlare di me. Lo voglio usare per mettermi alla prova, affrontarmi e vedere chi è che resta a terra. Voglio metterci quello che conosco.

Me lo dice anche Roberto di non perdermi su troppe pippe e di metterci quello che so.

Ok allora vada per il cinema. John dovrà fare cinema. Anzi, tornando al progetto iniziale: Robin convincerà John a fare un film che dovrà fare proseliti.

Ok ma quale sarà il conflitto di questa storia?

Ok ci sono!  Dell’idea di prima non butto proprio tutto tutto: il regista è ateo!
Il regista NON VEDE John!
Quali figure non vede il regista?
LE COMPARSE!

Grande! Ho adorato da morire la serie inglese Extras, ambientata nel mondo delle comparse, e ora posso utilizzare anche la mia esperienza in merito per usarla su questo episodio.
Mi siedo e butto giù il soggetto che mi verrà in seguito accettato da Lorenzo & Roberto.

Un soggetto che, come vedrete, sarà parecchio diverso da quello della storia che potete leggere questo mese in edicola.

Fine prima parte.

Sms inviato da Mauro Uzzeo alle ore 2.43 a.m. del 28 agosto 2010
“Sei sveglio? Io me la sto facendo sotto”

Risposta di Roberto Recchioni. Ore 2.45
“Adoro essere svegliato dal tuo bollettino fisico.”

Mauro Uzzeo. Ore 2.49
“Non è roba fisica. Sto scrivendo John e mi prende malissimo. I lettori vogliono te e Lorenzo, mi faranno a pezzi.”

Roberto Recchioni. Ore 2.52
“Certo, ed è giusto che sia così. Tu come reagisci quando arriva un nuovo cantante nella tua band preferita?”

Mauro Uzzeo. Ore 2.53
“Lo schifo e ne scrivo peste e corna su blog e forum.”

Roberto Recchioni. Ore 2.54
“Esatto. Faranno lo stesso con te. Buonanotte.”

Mauro Uzzeo. Ore 2.55
“Buonanotte e grazie, ti sento vicino.

Questo scambio di sms dovrebbe riassumere abbastanza bene la leggerezza e la spensierata tranquillità emotiva con cui ho sceneggiato il mio primo episodio di John Doe.

Comunque sia, è fatta!

Ho imparato un sacco di cose portando a termine queste 94 tavole, al punto che la mia seconda prova vira verso una direzione diversissima, ma allo stesso tempo complementare, a quella di questo numero 3.

Ho inserito argomenti che mi stanno molto a cuore, e non nascondo che, in alcuni casi, l’emozione provata scrivendo determinate linee di dialogo m’ha fatto riflettere su quanto effettivamente volessi scoprirmi o meno.

Sono in molte di quelle pagine.
In quelle azzeccate quanto in quelle sbagliate. Nei paroloni e nel cazzeggio.

Il resto l’hanno fatto Luca e Davide.

Il primo ha compiuto un’impresa miracolosa, permettendo di farsi aiutare solo un pochino dati i tempi strettissimi, riuscendo a mantenere per tutto l’albo una qualità costante elevatissima.
Prima di realizzare questa storia, ci eravamo incontrati una sola volta, ma la gigantesca quantità di deliranti stronzate con cui farcivamo le discussioni sulle tavole tramite Skype è bastata a creare un legame forte e una grande fiducia reciproca.

Per quanto riguarda Davide invece… chevvelodicaffare?
Mi nasconderei dietro una sua copertina anche prima di infilarmi nello stesso letto con Eva Amurri.
Anche prima di partecipare ad una manifestazione.
Anche prima di dirgli quanto gli voglio bene.

E per quanto riguarda Lorenzo e Roberto, non credo riuscirò mai a ringraziarli abbastanza per questa splendida opportunità, quindi mi limito a imprimerli tra queste righe insieme ad Enzo e Sergio che hanno creduto in me, a Paolo che ha fatto uno splendido lavoro d’impaginazione e lettering e a Maria Rosaria che ha curato l’ufficio stampa.

Quindi, bando alle ciance, domani inizierò a buttare giù un po’ di backstage di questo albo, per il momento vi segnalo quelli che, primi fra tutti, hanno aperto le danze attorno a questo episodio: i ragazzi de Lo Spazio Bianco!

Il supermegacalifragilistichespiralidoso Ettore Gabrielli ha realizzato un gran bel pezzo intervistando tutto lo staff realizzativo e condendo il tutto con delle succose ed inedite anteprime.

Lo trovate qui.

Andate, leggetene tutti, e fatemi sapere cosa ne pensate!

Non solo febbre.

26 dicembre 2010 da Mauro

Vomitare piegati sulla tazza.
Con la porta del bagno chiusa.
Non abbastanza da trattenere i gridolini dal piano di sotto.

“Auguri!” “Questo è per te!” “Che bello!”

Pensare che la febbre non mi viene da una vita e invece eccola qui, proprio ora che non posso permettermela.
Scendere e fingere che non sia accaduto, sfoggiando lo stesso sorriso che indossano le modelle anoressiche dopo essersi liberate della cena con l’aiuto di un paio di dita della mano destra.

Che a natale si ride e si sta insieme, tutti quanti.

Quindi aprite i miei regali.
Questo è per te, quest’altro è per te.
Grazie per i tuoi, io devo ancora fartelo, ma ho già in mente cosa.

E non dovrei dire “già”, che il natale si sa dall’anno prima.

Ah, auguri.

25 dicembre 2010 da Mauro

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Indovina chi?

22 dicembre 2010 da Mauro

Fare fumetti non è facile.
Farli tra fumettari ancora meno.

E quindi capita che ti vedi per lavorare e invece scatta un gioco cazzone sul fotografarsi di 3/4 di spalle.
E capita che uno dica: “io la faccio col remote!”, un altro “io mentre piscio!” un altro: “io sotto la doccia” che già fa ridere solo a pensarci.

E allora capita che uno dei tre (solitamente il più stronzo) faccia un video di tutta la sessione.

I cinque minuti più compromettenti della vita di due uomini.

Cinque minuti per i quali è appena avvenuta questa conversazione su FB

Fumettaro in incognito 17:06

voglio il video di emiliano e la doccia!
quanto vuoi?!

Mauro Uzzeo 17:07

possiamo parlarne.

Fumettaro in incognito 17.08

se mi vuoi un po’ di bene me lo passi gratis
e ti regalo un sorriso e un abbraccio.

Ora, se voi aveste davanti agli occhi la faccia dell’autore che mi ha fatto questa commovente richiesta (non vi farò il suo nome ma dirò “si” se lo indovinerete), capirete quanto possa essere scottante il materiale che ho in mano.

A questo punto la domanda è soltanto una:

Youtube?

Spalle di fumettari di spalle.

21 dicembre 2010 da Mauro

La nuova follia di Roberto.

Nata da questa sua riflessione sull’attuale trend delle locandine americane…


E presto trasformata in un delirio al quale hanno partecipato parecchi fumettari di un certo livello, tra cui:


Francesco Artibani


Emiliano Mammucari


Leomacs


Leo Ortolani


Werther Dell’Edera.

E il sottoscritto, che non poteva tirarsi indietro di fronte ad una così ghiotta occasione per mostrare la sua eleganza.

Qui trovate il resto della galleria.
Buona visione.

Aguzzate la vista.

19 dicembre 2010 da Mauro

Questi due videoclip si differenziano per un gigantesco particolare.
Quale?
(Soluzione a pag. 46)

Tame Impala – Solitude is a bliss – Aprile 2010

Jovanotti – Tutto l’amore che ho – Dicembre 2010.

Pagina 46.
Il secondo è stato realizzato qui:

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