For today i’m a (lady)boy.

21 gennaio 2011 da Mauro

Con la cartina in mano mi perdo.
Contrariamente al dogma del maschio alfa, io preferisco chiedere.
In continuazione, a destra e sinistra, ogni trenta passi. Mi piace chiedere e scoprire in maniera del tutto casuale se c’è qualcosa di più interessante di quello che sto cercando.

Per questo, per arrivare da via Rama IV al Lumpini Park, proprio lì dove la cartina diceva di andare dritto, mi volto per chiedere ad un tipo e il fato mi mette davanti ad una botte gigante.

Fottendomene dell’eventualità di un vino cattivissimo, sono andato a curiosare. A scattare qualche foto.
E proprio lì, in quella stradina a sinistra, mi ritrovo qui dentro:

“Blue man bar”.
“Ocean boy”.
“Hot male Bar”.

“Boy Boy Boy”.
“Dick’s Cafe Bangkok”.
“Boy 69”.
“A go go Boys”.

Nomi difficilmente equivocabili.

E poi i parrucchieri.

Dediti alla cura dei capelli e del viso di quegli uomini che da tempo hanno scelto di votarsi, liberamente, al loro lato femminile.
Non vengono quasi mai le donne a fare la piega qui,  perché la richiesta dei ragazzi della zona è talmente alta che per trovare un posto libero devi prenotare.

L’atmosfera è rilassata. Si conoscono tutti, alcuni sono qui solo per rito quotidiano,

altri per mangiare in compagnia,

altri per raccontare del tipo conosciuto qualche mese prima e che ha chiamato proprio ieri sera.

Sono i gay e i transessuali (o aspiranti tali) di Bangkok. C’è chi li chiama Ladyboy, e questo è il loro quartiere.

Curatissimi in ogni dettaglio, ma allo stesso tempo privi di quella vanità che genera distacco, si prestano per le fotografie in un attimo di pausa dal loro lavoro di massaggiatori.

La maggior parte dei clienti arriva intorno alle 22 e stanno lì per tutta la notte, quindi in queste ore del pomeriggio preparano i locali e stanno tra di loro.
Sono amici, si conoscono da una vita.

Tutti gay dall’aspetto mascolino ed effeminato, a metà strada tra un manga e un femminiello napoletano.

Quelli vestiti da donna.
Quelli che prendono gli ormoni per far crescere il seno.
Quelli hanno scelto l’operazione affinché anche il corpo arrivasse ad assomigliare alla loro anima.

La situazione omo e transessuale di Bangkok non è paragonabile a quanto siamo abituati a vedere in occidente, neanche nelle democrazie più illuminate.
I transessuali sono inseriti così bene nel tessuto sociale della città, che è possibile trovarli al lavoro tanto nei negozi d’abbigliamento

quanto nelle vie cittadine, a bordo di una volante della polizia e con la divisa indosso, nei locali per soli uomini o dietro il bancone di un ristorante, come testimonia questa:

che è una delle foto a cui sono più legato di tutta la mia esperienza asiatica.

La sensazione forte e reale è che non subiscano alcun discrimine sessuale, né vengono messi in condizione di dover nascondere la loro natura.
E’ un’appartenenza che viene immediatamente rivelata a partire dal primo momento.

Sawadeekap” (con la “p” appena accennata) dicono gli uomini per salutare.
Sawadeekaaa” (cantilenando la “a” finale) dicono le donne per salutare.
Sawadeeka” (senza “p” ma con la “a” appena accennata) dicono i ladyboy, a sottolineare fin dal primo momento, che non sono completamente donne e non sono completamente uomini ma che, proprio per questo, sono sia l’uno che l’altro.
Allo stesso modo “Sawadeeklab” è la forma di saluto che identifica l’omosessualità femminile.

Un modo semplice e diretto per dire “ciao, io sono così e non mi vergogno di essere come voglio.”

Qualcosa di impensabile in una realtà come la nostra in cui le voci in difesa del presidente del consiglio si (s)fregiano di slogan quali: “Meglio con le ragazzine che frocio.”

Qualcosa di irrealizzabile in una realtà come la nostra in cui ai transessuali viene permesso di esprimere un’opinione solo quando a qualcuno di loro capita, per distrazione o per troppa attenzione, di prendere fuoco.

E ora, Musica!, maestro.

For Today I’m A Boy
Antony and the Johnsons

One day I’ll grow up, I’ll be a beautiful woman.
One day I’ll grow up, I’ll be a beautiful girl.
One day I’ll grow up, I’ll be a beautiful woman.
One day I’ll grow up, I’ll be a beautiful girl.

But for today I am a child, for today I am a boy.
For today I am a child, for today I am a boy.
For today I am a child, for today I am a boy.

One day I’ll grow up, I’ll feel the power in me.
One day I’ll grow up, of this I’m sure.
One day I’ll grow up, I know whom within me.
One day I’ll grow up, feel it full and pure.

But for today I am a child, for today I am a boy.
For today I am a child, for today I am a boy.
For today I am a child, for today I am a boy.

For today I am a child, for today I am a boy.
For today I am a child, for today I am a boy.
For today I am a child, for today I am a boy.
For today I am a child, for today I am a boy.

Con le radici troppo grandi.

20 gennaio 2011 da Mauro

Il dragon fruit è una prova concreta del fatto che dio esiste e che lavora da qualche parte come designer.

Visto da fuori:

Visto da dentro:

Oltre ad appagare la vista, si preoccupa parecchio anche dell’olfatto e del gusto: quella polpa ti entra dentro e non te la scordi più.

Ma la bontà del dragon fruit tocca solo lateralmente l’argomento principe di questo post, così come introdurre lo splendore dello Star fruit

non è altro che un modo per continuare a dedicarsi ai comprimari rimandando il momento
dell’arrivo
del vero
protagonista.

LUI.

Chain.

Guardatelo bene.

Avete mai visto una faccia così bella in un posto che non sia il cinema?
Werther? Visto che roba? Rrò? Leo? Emi? Giò? Fede? Ivan?

Un ronin con talmente tanti segni sul viso che soltanto unendoli con una linea si può arrivare a capirne bene la figura.

Chain sta tutto il giorno qui:

dietro un chiosco in cui vende succhi di dragon fruit, succhi d’arancia e star fruit.

Li prepara,

li imbottiglia

e per 20/25 baht sono tuoi.

Se per caso sei italiano, se per caso sei di Roma, potresti imbatterti in questa conversazione:

Chain: “Roma… la conosco bene ma purtroppo non l’ho mai vista.”

Me: “Come mai allora dici di conoscerla?”

C: “Perchè l’ho studiata a lungo. Ero affascinato da come un impero possa diventare enorme e poi improvvisamente perdere tutto.”

M: “Già. Tornare ad essere semplicemente una normale città.”

C: “Dev’essere strano nascere a Roma, oggi.”

M: “Non più strano che nascere in qualsiasi parte del mondo.”

C: “Non è proprio così. E’ più come nascere su un albero con delle radici enormi, impressionanti, maestose… ed essere quella minuscola fogliolina in alto, spuntata dal più piccolo dei rametti, alla mercé della pioggia e del vento che tira forte. Una grossa responsabilità. O vieni strappato via, o sei un sopravvissuto.”

Ora.
Io non so se dietro tutta questa epica si nasconda della ciccia o della fuffa, fatto sta che l’ultima volta che a Roma sono entrato in un alimentari a comprare un succo di frutta, la tizia dietro al bancone c’ha tenuto ad informarmi del fatto che la fidanzata del figlio fosse identica a Belen.
Ma sicuramente non così zoccola.

E allora io Chain me lo segno qui per non dimenticarmelo.
Perché il succo di dragon fruit era strepitoso.
Perché non m’aspettavo che mi dicesse quella roba.
Perché questa faccia vale tutti i passi che avrà fatto.

[ se andate a Bangkok e volete incontrarlo, il suo chiosco si trova davanti al molo in cui si prende il battello per andare dal King’s Palace al Wat Arun.]

Voi non ci siete.

19 gennaio 2011 da Mauro

Oggi sono arrivato in Cina.

Continuerò a postare i piccoli diari da Bangkok (e in seguito da Koh Samui) che ho abbozzato in quei giorni in cui non avevo una connessione internet stabile che mi permettesse di pubblicarli in tempo reale, ma ho bisogno di un veloce ritorno al presente.

E’ la mia terza volta qui.
La prima volta nel 2007.
Fotografavo qualsiasi cosa vedevo.
Non trovavo i blog.
Non trovavo i flickr
Non trovavo i tumblr.
Andavo su youtube.
Leggevo sempre La Repubblica online e cercavo modi di scavalcare la censura governativa.

Ci sono tornato a cavallo con le olimpiadi, nel 2008.
Fotografavo qualsiasi cosa vedevo.
Online trovavo TUTTI i blog.
Trovavo TUTTI i tumblr.
Trovavo TUTTI i flickr.
Andavo tranquillamente su youtube.
Leggevo sempre La Repubblica online.

Sentendosi addosso gli occhi del mondo, la Cina aveva sfoggiato il suo vestito più bello, l’unico che desse l’idea che fossero state le persone stesse a decidere di indossarlo.

E’ iniziato da poco il 2011.
Le olimpiadi sono un ricordo così confuso che devo cercare online se si sono giocate nel 2008 o nel 2009.

Fotografo poco.
Online NON trovo i blog.
NON trovo facebook (che però risulta stranamente accessibile dall’app sull’iphone)
NON trovo i tumblr.
NON trovo i flickr.
NON trovo youtube.

Rrobe, Giò, Marco, qui non ci siete (motivo per cui non posso linkarvi).
E come voi non c’è nessuno che usi la piattaforma blogspot.
Nessuno di quelli che utilizza Splinder.
Di Tito e tutta nova100, nessuna traccia.
Le foto di Francesco? Come se non fossero mai esistite.
Skiri, devo fare a meno di te e di tutti gli altri tumbleri.
Wordpress funziona a zone.

Facebook è blindato.
Youtube è blindato.

Qualsiasi rischio di libera espressione personale bandito di nuovo. E’ bandito di più.
L’illusione è durata il tempo di un gioco. L’illusione è stato il gioco.

Wikipedia (stranamente accessibile) mi parla di questo:

“Il Golden Shield Project, chiamato anche Great Firewall è un sistema di censura e sorveglianza della rete applicato in Cina.
Il progetto è stato avviato dal Ministero di pubblica sicurezza della Repubblica popolare cinese nel 1998 e entrato in funzione sperimentalmente nel 2003 e definitivamente nel 2006.
Questo sistema permette sia di bloccare l’accesso ai siti che trattano temi scomodi per il Governo cinese, sia di monitorare il traffico dati in entrata e in uscita dalla Cina.

Eludere il divieto di accesso è molto semplice: basta usare un proxy e connettersi ad un server non bloccato fuori dalla Cina. Ciò consente di muoversi liberamente nel Web e di visitare anche i siti bannati. Ma se è semplice aggirare il “Great Firewall”, altrettanto semplice è essere rintracciati dal Governo se si effettua questa operazione.
Si deve considerare che la Cina si connette al resto d’Internet con pochi cavi in fibra ottica, per questo tutti facilmente controllabili.

Il Governo cinese ha installato una grande quantità di router in grado di monitorare i dati che transitano attraverso i nodi che formano l’infrastruttura cinese, risalendo così all’utente che ha visitato un sito bannato. La Cisco Systems è stata convocata davanti al congresso statunitense per alcuni documenti che dimostrerebbero che l’azienda abbia aiutato alcuni tecnici cinesi a installare i blocchi e i monitoraggi.”

La Cina è un posto che amo, ma la amo perché so di potermi permettere di scrivere queste righe.
Perché so di poter andare via.

Questo posto non funziona.
Non può permettersi di brillare, come sta facendo, di uno sviluppo che non tiene conto delle persone che questo sviluppo lo stanno permettendo.

E’ un posto che deve risolvere i troppi conflitti che si trascina.
Dare un freno alle quotidiane esecuzioni per una pena di morte che viene regalata con estrema nonchalance.
Interrompere il sistematico massacro in suolo tibetano.
Assicurare i pieni diritti di espressione ai propri cittadini.
E, considerato che in Italia ottiene meno risalto mediatico rispetto a quanto finora scritto, stop alla legge sulla Pianificazione Famigliare Obbligatoria introdotta da Mao Zedong nel 1979 e tutt’ora in uso.

Sempre da Wikipedia:

“Grazie all’introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevede ufficialmente un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potranno portare a termine un’eventuale gravidanza dietro pagamento di un’ingente multa, oppure saranno obbligati a rinunciare al figlio. Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti:

  • la lesione della libertà dei genitori;
  • l’uso massiccio e obbligatorio dell’aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi (soprattutto in passato);
  • le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto;
  • la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli;
  • discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all’anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria);
  • discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano “pagarsi” il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000yuan, circa 6.200 dollari, 3.980 euro).

Far finta che tutto ciò non accada quotidianamente fa male alla Cina stessa ed è su questo che serve un segnale forte. Perché un segnale forte è quello che il mondo si aspetta dal paese più popolato del mondo.

E allora, solo a quel punto, potremmo anche valutare l’ipotesi di perdonarvi per quello che avete fatto a Jack Bauer.

(la meravigliosa foto in apertura è di Roberto Brunetti)

La prima volta che ti ritrovi davanti ai chioschi che vendono queste delizie quasi non ci credi.
Ti ripeti “ah, ma allora è vero… qui mangiano anche ‘sta roba qua!”

Ti preoccupi solo di fotografarle e testimoniare ad uso e consumo di parenti ed amici.
Sai bene che non le mangerai MAI.

La seconda volta ci pensi un po’ e ti rassicuri: “cosa mai potrà accadere”?

La terza parli con gli autoctoni che se ne nutrono abitualmente e senti che il verme della convinzione inizia a farsi strada dentro di te.

La quarta volta, quel verme, te lo mangi.

E scopri che non è terribile.
Scopri anche che non sa di un cazzo e che gli stessi thailandesi se li sgranocchiano come a perdere tempo.
Come gli ultimi pop corn dentro al secchio.
Come davanti ad un film che ti prende.
Il verme come la fusaja e i semetti.

Scopri che è così friabile che appena entra in contatto con la tua bocca si trasforma in una polverina leggera che evapora nel giro di 4 secondi.

E’ a quel punto che prendi consapevolezza del fatto che il verme è soltanto il tutorial per gli stupidi principianti.
Che il vero avversario sono LORO:

Che friggono allegre nella wok di questa ostica signora (vorrei vedere voi, a passare tutta la giornata cuocendo orrori) che le getta dentro a manciate di 50 per volta, condendole con lemongrass e una polverina bianca che ipotizzo essere sale.

Salta in padella le cavallette più e più volte (4000 salti in padella, penso, prima ridendo e poi pentendomi della stronzata pensata) e mi convince.
Mi fido di lei.

Ne prendo una bustina da 20 baht e lei me le porge, calde calde, appena fatte, aggiungendo semplicemente del chili.

Le prendo e mi ritiro in disparte, tra le risate degli astanti, abituati a mangiarle senza problemi.

Tentenno.

Individuo la mia vittima. Non devo darle un nome altrimenti mi affeziono e ho una scusa per tirarmi indietro.

La guardo per un secondo ancora. Piccola. Indifesa. Zoppa.

Monky.

Smettila di guardami Monky, ormai ho deciso.

Vado?

Vado.

Addio Monky, piccola, orribile, meraviglia della natura.
Salta libera, con quante zampe vuoi, per gli ampi pascoli del mio intestino.

P.s.
Monky ha poco più sapore del verme. Lei di per sé, è un insapore leggermente croccantino e allo stesso tempo friabile.
Stop.
A quanto pare, come per le ventenni di via del corso, è tutta questione di condimento.

Tra le Nuvolette.

17 gennaio 2011 da Mauro

Nel numero di Lanciostory attualmente in edicola

oltre al solito fottio di bei fumetti (ebbravo Pontrelli!) c’è la prima parte di una lunga chiacchierata tra Luca Raffaelli e il sottoscritto.

Uno scambio aperto e sincero che vi permetterà di sbirciare tra quello che c’è stato prima del mio esordio su John Doe.

Un infinito grazie a Luca, soprattutto per avermi regalato un momento indimenticabile al telefono con mia nonna.

“Maurè.”

“Ciao nonna, dimmi tutto!”

“Ciao… ho letto l’intervista, ma chi è quella cinese tra te e Roberto?”

“La creatrice di Lady Oscar, uno storico cartone animato giapponese.”

“Ah, e lavora con te?”

“No nonna, magari.”

“Che magari!? Sò brutti quei cosi giapponesi!”

“Allora le dico che non ci lavoro con lei?”

“Dille di no.”

“Ok.”

Mi dispiace Riyoko Ikeda, tornatene al paese tuo.

Poco. E sempre.

da Mauro

Nella maggior parte del nostro pianeta, della concezione occidentale del rito del pasto quotidiano, non se ne fanno nulla.
L’idea di affrontare, in sequenza, un antipasto, un primo, un secondo, un contorno, un dolce ed un frutto… suscita più un misto di stupore e stanchezza che una serena tranquillità conviviale.

Bangkok non fa eccezione e per i suoi abitanti, la norma, è quella di mangiare – poco – ma per tutto l’arco della giornata.

Non soffrono la fame nell’attesa del momento di sedersi a tavola per poi ingozzarsi fino a non riuscire ad alzarsi dalla sedia.
Preferiscono iniziare con qualcosa di caldo a colazione (riso con pezzetti di pollo cotto nel latte di cocco) e poi spizzicare, via via, quello che trovano davanti al loro percorso.

Questa abitudine fa si che, ovunque, ed in qualsiasi ora del giorno e della notte, ci si possa facilmente procurare del cibo.

Aldilà dei locali e dei posti tipici in cui fare la spesa, a Bangkok ci si nutre per le vie cittadine principalmente in due modi: mangiando in mini ristorantini improvvisati, oppure affidandosi ai chioschetti.

Dei primi parlerò in un prossimo post,  i secondi, li trovate fotografati qui di seguito:

La caratteristica principale dei chioschetti è la loro mobilità.
Il chiosco è nomade e rincorre gli spostamenti dell’uomo.
Nell’ora di punta dell’ingresso al Palazzo Reale sarà lì a chetare la fame e la sete dei visitatori, alla chiusura dei centri commerciali sarà disponibile per i dipendenti che staccano dal loro turno di lavoro.

Ho visto chioschi spuntare come funghi intorno alle impalcature di un palazzo in costruzione facendo la gioia dei muratori sudati.
Chioschi al coperto, sotto la pioggia, ricchi di piatti caldi.
Chioschi sfoggianti gelati freschissimi sotto un sole che spaccava le pietre.

I più comuni sono quelli con gli spiedini di pollo, manzo e pesce.

Vanno forte anche quelli in cui è possibile acquistare minestrone e brodo di carne come sta facendo questa signora qui sotto.
Nel pentolone c’è il brodo, lì intorno i condimenti, e vicino alla cuoca ci sono delle buste di nylon al cui interno viene messo il minestrone appena fatto.

Alcuni si specializzano a seconda del posto, per cui questa signora, che in quella piastra è solita cucinare polpettine di gamberi, si adatta a preparare ovetti di – immagino – papera.

Altri puntano sulla frutta (quelli sono cocchi freschi – al costo di 15 baht te ne spaccano uno dal quale puoi inizialmente berne il latte e poi ripulire con un cucchiaino lo strato di cocco fresco della consistenza di un budino)…

…tra cui, la più ambita, è sicuramente la letale durien.

Altri ancora si dedicano a dolcetti dall’aspetto di piccole opere d’arte.

Questa ragazza, incuriosita dal mio fotografare a destra e sinistra, mi ha fermato  suggerendomi di assaggiare le frittelle di cocco e uvetta che preparava la signora al prezzo di 20 baht l’una (sulle stesse identiche piastre della signora degli ovetti).

Ovviamente ho accettato il consiglio e ho apprezzato parecchio.

Mangiare un po’ per volta ma con regolarità è l’antitesi del mio approccio alla vita.
Non solo per il cibo ma anche per quanto riguarda le passioni e il lavoro.

Tito lo fa da anni, ogni giorno si siede e scrive.
Con calma e disciplina zen porta quotidianamente a casa il suo risultato e questo, a fine mese, si quantifica in una tonnellata di tavole e in uno sforzo costante, ordinato.
Senza strappi, come quello di un maratoneta.

E’ un metodo, la cui esistenza dà l’idea della capacità di controllo.

Io non scrivo per giorni, poi mi siedo e non mi alzo finché non ho macinato 20 tavole.
Io non mangio dalla mattina, poi mi siedo e non mi alzo finché non sto veramente male.
Io dormo 3 ore a notte per 6 giorni, poi il settimo cado in coma per 24 ore.
Guardo le serie tv solo una volta finite per fare le chiuse. Su itunes parto solo con le discografie integrali.

E’ un approccio da insoddisfatto allo sbando. Da travolto dall’onda.
Da vincitore casuale, da disorganizzato seriale.

Da privo di metodo, da occasionale.

Voglio capire come si fa a stare bene senza riempirsi. Come si fa a non finire subito dopo aver iniziato.
Come si fa a lasciarsi accompagnare dalle cose senza volerle dominare e senza farsi sopraffare.

Per concludere il discorso legato ai chioschetti, ce n’è anche qualcuno meno, come dire, friendly…
Il proprietario di questo mi ha detto che m’avrebbe cotto al volo quelle tartarughe o le anguille semplicemente immergendole nell’acqua bollente.
Non ho fatto domande sulle caviette che vedete in basso a destra.

Ma soprattutto, passeggiando tra i chioschi cittadini, non tarderete ad imbattervi in questi:

Potevo perdere l’occasione di assaggiare simili leccornie?
Tsè! Seguirà documentazione fotografica.

E’ lui che ne parla nel suo blog.

11 gennaio 2011 da Mauro

Michele Ginevra ha pubblicato sul suo blog un’interessante analisi dei primi tre numeri della nuova serie di John Doe, dalla quale è scaturita una mia lunga risposta a cui ha dedicato lo spazio di due post.

Trovate la sua analisi cliccando qui.

I post con la mia risposta cliccando qui.

E qui.

E un  grazie grande così a Michele per lo spazio concessomi.

Passato in un istante.

10 gennaio 2011 da Mauro

Anche se era già trascorso un anno, continuava a non cercarti.

(204 articoli… uff, giuro che non pensavo. Bhè, soffiate anche voi sulle candeline che ne ho prese 365 pri-ci-se)

Scritto in me | 6 commenti »

Giusto in tempo.

da Mauro

Arrivo sempre tardi.

Di fronte alle donne che mi scelgono senza che io sappia il perché.
Di fronte agli amici nonostante mi conoscano.
Di fronte ai miei che si mettono a tavola.
Di fronte ai colleghi seduti in riunione.

Arrivare tardi vuol dire impegnarsi in qualcosa che è lontano dal fulcro. Apologia del poco importante. Ode all’ininfluente.
Una mancanza di rispetto con cui affliggere in egual misura nomi, cose, città, animali e divinità.

E’ per questo che io al Wat Arun ci arrivo sempre che è già chiuso.

Me ne accorgo fin dalle acque del Chao Phraya perché non c’è il brulichio di persone che, compostamente, sale gli scalini in cantilenante preghiera.
Me ne accorgo perché dei chioschi improvvisati con le robe da mangiare non c’è neanche l’ombra.
Me ne accorgo, con un notevole colpo d’occhio, perché è buio.

L’ultima volta ero riuscito ad entrare da una porticina laterale lasciata aperta, ero stato beccato da un monaco ed ero andato via subito, portandomi dietro, senza che lui se ne accorgesse, un po’ di quella pace silenziosa e blu.

Questa volta, dopo aver fatto un saluto ai due Yak  che proteggono la statua del Budda e le ceneri di Rama II davanti alla Sala dell’Ordinazione,

(ve li presento, quello con il viso bianco è  Sahassateja

mentre quest’altro con la faccia verde si chiama Tasakanth, ed entrambi guardano incazzati verso i nemici dall’altra parte del fiume)

mi sono infilato direttamente nelle porticciole di legno che portano alla zona adibita alla preghiera per i monaci.
C’è un cane davanti a me ma i cani thailandesi sono pistole da cinema che fanno rumore e niente più. Pace all’anima di Brandon Lee.

Superata una serie infinita di piante, guardo il complesso dei Prang all’interno del Wat Arun da dietro le cancellate chiuse

e arrivo davanti alla stessa porticina dell’altra volta.
Aperta.
La sacra porta lasciata aperta per chi fa tardi. La madre dolce di ogni distratto. Il perdono per gli stronzi. O semplicemente una porta pensata per non essere accessibile al pubblico.

Passa un monaco. Mi costituisco.

Salve, anzi, “Sawadeekap” (pronuncia “saAdiikap” – con la p quasi non pronunciata) sono Mauro, faccio sempre tardi lo so. Non c’arrivo prima alle cose. Ci metto i miei tempi e ora avrei un sacco voglia di fare un giro qua dentro e scattare alcune foto.
Il monaco sorride e mi fa cenno di entrare.
Lo ringrazio: “Kapkumkap”.

Questa cosa della “p” alla fine si aggiunge solo se ti rivolgi ad un uomo. Con le donne la togli e allunghi la “a” finale utilizzando un tono un po’ più cantilenante: “KapkumkaAa”, “SawadikaAa”.

Sono dentro. Fotografo. Cammino.
Senza la gente.

Un premio immeritato, un calcio in culo a chi fa le cose come vanno fatte. Una pernacchia a chi lo meriterebbe.
Ma qui siamo lontani dalla morale cattolica del comportati bene per ottenere il privilegio e il monaco sa con certezza che espierò reincarnandomi in un bianconiglio che urla per i ritardi della sua vita precedente.

Fatto sta che sono dentro.

E mi godo questo regalo dal nome lunghissimo e impronunciabile: “Wat Arunratchawararam Ratchaworamahavihara”, per gli amici Wat Arun, per gli amicissimi: Tempio dell’Alba, per via dei riflessi delle ceramiche e delle conchiglie alle prime luci del giorno.

Salgo le scale dei Prang che portano a vedere la vita del Budda e le statue dei Kinnara metà uomo e metà uccello, il tutto sormontato dal tridente di Shiwa.


Si dice che il Prang centrale, quello più grande, rappresenti il monte Meru, che per gli Indù è il centro dell’universo, mentre quelli più piccoli, laterali, siano i contintenti, protetti dal dio dei venti Phra Pai.

Qui, di vento, nessuna traccia, solo una leggera aria. Carezzevole, direbbero i poeti.
Le preghiere che arrivano da lontano e nessun odore di incensi.

La pace.

Resto qui un po’ e poi seguo i monaci e gli studenti che vanno a pregare. Mi aggrego per qualche minuto.
Ascolto ma soprattutto li guardo.


Qui la preghiera non è un rito collettivo come da noi. Non si recitano cose insieme. Non si elevano cori di “prega per noi” e gli “amen” non salgono verso il cielo.
Il monaco esercita e ognuno di loro è per sé, tra gli altri.

Esattamente come mi sento io. Esattamente come voglio sentirmi.

Mi allontano e prima di uscire dal complesso incontro un altro monaco. Mi saluta. E sorride.

La questione del bianconiglio li deve ben disporre verso di me.
Si presenta e mi presento tendendogli spontaneamente la mano e scordandomi che i monaci non possono essere toccati.
Mi scuso, me lo sono ricordato tardi.
Gli chiedo se posso fargli una foto e mi dice di si.

Sulla riva del Chao Phraya il battello se n’è appena andato via.
Fatto tardi.
O forse sono arrivato giusto in tempo per potermene stare un po’ su questo pontile a godermi l’aria fresca e scrivere queste righe.

Tuk-tuk. Assolutamente.

7 gennaio 2011 da Mauro

A Bangkok i taxi sono rosa o verdi e gialli.


Ma non è un motivo sufficiente per usarli come mezzi di spostamento.

Perché Bangkok è una città trafficata (in agosto, devo dire che in questo periodo le strade sono vuote) e piena di cose da vedere quindi, a meno che non vi stiate spostando a piedi, la parola d’ordine è muoversi velocemente.

Tanto velocemente. Velocemente al punto di temere di ribaltarvi da un momento all’altro.
E’ questo quello che si prova a bordo di un Tuk-tuk.

Una sorta di apetto ultramodificato

che prende il suo nome dal rumore assordante che emette sfrecciando tra le vie cittadine.

Il tuk-tuk è una filosofia di vita e il tuktukkaro colui a cui affidarsi ciecamente.
O quasi.

Il contatto è facile e avviene in questo modo.
Il Tuktukkaro vi avvista. Siete le sue prede. Vi chiama.
Vi chiede dove andate.
Voi a questo punto glielo dite in un inglese impeccabile.
Il tuktukkaro solitamente parla un inglese composto da 13 vocaboli tra cui, sicuramente, non c’è quello che avete utilizzato voi.
Quindi aprite la cartina e, anche grazie all’aiuto di altri mastri tuktukkari, individuate il posto che dovete raggiungere.

A questo punto arriva la parte divertente: la contrattazione.

Il tuktukkaro partirà subito all’attacco chiedendovi una cifra che, per gli standard occidentali, vi sembrerà onesta.
Diciamo che per andare dall’altra parte della città vi chiederà 500 baht (poco più di 10 euro).
In paragone con i taxi italiani sembra una pacchia, ma in realtà la cifra che vi ha chiesto è delirantemente alta.
A questo punto fate appello alle vostre migliori qualità recitative e scoppiate a ridere, dite di no e fate finta di andarvene.
Lui vi dirà di fermarvi e vi chiederà quanto volete pagare.
Voi a questo punto dovrete fare il suo stesso gioco (se lo aspetta e vi rispetterà maggiormente) proponendogli una cifra delirantemente bassa.

“Posso darti al massimo 30 baht (poco meno di 1 euro)!”

Lui farà appello alle sue migliori qualità recitative, scoppierà a piangere, dirà di no e farà finta di andarsene.
Voi gli chiederete di fare il suo prezzo e questo gioco finirà con lui che accetterà ben volentieri di portarvi dove volete per 100 baht.

Ma il tuktukkaro a questo punto si ferma. Vi guarda dritto negli occhi e proprio mentre state per pagarlo vi dirà: “Wait!”

E vi farà un’offerta che non potrete rifiutare.
Vi proporrà di portarvi dove volete per soli 50 baht se accetterete di fermarvi cinque minuti nel negozio di un suo amico che tanto è di strada.
Il negozio solitamente è di stoffe, vestiti o gioielli tipici e il suo amico è in realtà uno con cui ha fatto accordi per farsi dare un’ampia mancia (e non una percentuale sul venduto, per questo al tuktukkaro non interessa che voi compriate o meno, anzi, sarà lui stesso a dirvi di stare lì dentro solo qualche minuto per non perdere tempo).

Vi consiglio di accettare, in questo modo il costo della vostra corsa è coperto dal negoziante, voi vi sposterete praticamente gratis per tutta la città e vi ritroverete davanti ad uno spaccato di umanità particolarmente interessante.

Ai tuktukkari appartengono diverse categorie sociali, per la maggior parte molto basse o provenienti dalle campagne circostanti (molti, tra di loro, presero parte alla “guerra civile” che infiammò Bangkok ad aprile dello scorso anno e oggi non ne parlano volentieri), ex carcerati alla ricerca di una nuova vita spirituale

e giovani universitari.

Gli unici che tempestano di domande gli occidentali, curiosi del loro punto di vista sulla città, sulla Thailandia in genere e su come si vive dall’altra parte del mondo.

Eddie l’ho conosciuto due anni fa, in occasione del mio primo viaggio a Bangkok.

Vietnamita, prima di finire a Bangkok a guidare Tuk-tuk se ne stava in Corea, dove aveva conosciuto un cuoco italiano che lo aveva preso a lavorare nel suo ristorante, insegnandogli tutti i trucchi del mestiere.
Mi disse che se avessi voluto assaggiare la migliore carbonara della mia vita avrei dovuto provare la sua.

Poi al primo semaforo si voltò verso di me e aggiunse: “Se vuoi veramente conoscere la cucina italiana, devi assaggiare i miei spaghetti alla pescatora.”

L’ho cercato quest’anno, ma finora non l’ho mai incontrato, neanche chiedendo di lui.
Sono convinto abbia aperto il miglior ristorante italiano di tutta Bangkok.

« Previous Entries Next Entries »