Come Uatu campo osservando nomi, cose, città e animali.
Analizzo ogni possibile variabile di qualsiasi situazione, ossessionato dal linguaggio di ognuno, dalla chiave per aprire e aprirsi, dai come che veicolano i cosa.
Se è meglio dire.
Se è meglio dare.
Se è meglio aspettare.
Se meglio andare.
Valuto e vivo ogni risposta come un insieme di bivi che portano all’unica strada percorribile per evitare il baratro del fraintendimento che nel 98% dei casi offusca i sensi e gli obiettivi.
E Dente sbaglia quando dice che ogni scelta è una rinuncia perché in realtà per ogni scelta le rinunce sono infinite.
Io non sono quello che faccio ma tutto quello che evito.
Come lo sceneggiatore di fumetti che non narra scegliendo la vignetta più bella ma eliminando tutte quelle ritenute superflue ai fini del racconto, applico alla vita lo stesso metodo.
Per cui dietro ogni mia frase nascondo le decine omesse. Dietro ogni gesto, tutti quelli scartati.
Sforzarsi di comprendere il linguaggio altrui per farlo proprio, per capirsi, per non banalizzare la parola.
In questo, ovviamente, muoiono la purezza del gesto istintivo e la personalità.
Aderire all’altro, non ci sono cazzi, allontana dal sé, ma è l’unico modo che ho trovato.
Rinunciando al caso, comprendo le cose.
Questo fa si che ogni mia frase porti con sé un bagaglio di inattaccabilità difficilmente confutabile.
Questo fa si che dietro ogni mia frase ostenti la sicurezza di chi ha passato in rassegna ogni possibile alternativa non trovandone di altrettanto valide.
Questo, in soldoni, fa si che io abbia sempre ragione.
Che io sappia come si fa.
Come si dice.
Come sarebbe meglio che.
E tutto ciò, ne converrete, è un notevole dito nel culo (con tutto il rispetto per il dito) per voi che lo subite, per me che mi subisco.
Perché è difficile gestire la convinzione di essere qualche passo avanti all’altro e assisterlo mentre sta gioiosamente andando a sbattere la faccia contro la serranda.
E’ difficile avvisarlo senza farlo sentire idiota.
Senza fargli decidere di accelerare volontariamente contro la serranda giusto per dispetto verso chi l’aveva avvisato.
E poi dovergli stare vicino mentre sta a terra con la capoccia aperta, sentendoti anche, in qualche modo, colpevole.
La salvezza (mia e vostra) credo possa risiedere solo nello stupore che mi dà la scoperta di essermi sbagliato.
Nel comprendere quanto la frase che non avevo ipotizzato fosse in realtà la migliore.
Nel verificare che l’istinto e la persona fottono bellamente l’analisi e la ragione.
Nel felice conseguimento di un imprevisto.
Perché non voglio vivere nella convinzione di sapere, di anticipare quello che accadrà riportandolo tutto alla mia esperienza.
Perché non voglio pensare che ciò che rifugge dalla mia logica sia per forza cialtrone, sbadato, sbagliato.
Perché io i motivi per cui la merla ha fatto il nido sulle scale che portano al parcheggio del nostro studio (percorse ogni giorno da centinaia di persone) proprio non riesco a capirli.
E di base sarei portato, quindi, a considerarti imbecille, merla mia.
Ti direi ma come ti viene in mente di metterti qui, a favore delle dita di quelli che toccano le tue uova quando non ci sei.
Di quelli che ti mettono le ciotoline con il latte vicino.
Per questo ti prego, ti prego merla bastarda, dimostrami che tu e il tuo cazzo di nido fatto di sterpi e cellophane avete ragione.
Prendi le mie analisi saputelle, le mie convinzioni, usale per pulirtici il culo piumato e dimostrami che non hai fatto una cazzata!
Rivelami la verità che nasconde il tuo gesto e fammi capire quanto io sia piccolo di fronte all’immensità delle tue scelte.
E se ci riuscirai, merla, ti sarò per sempre devoto.
Così’ come verso tutti quelli che riusciranno a sbattermi in faccia ogni mio sbaglio.
(p.s. le foto a corredo di questo post sono state scattate, fortunatamente a colori, da Marco Marini)