The Tree Of Life – Recensione.
Dura 138 minuti la Smisurata Preghiera di Terrence Malick.
Una preghiera laica sussurrata, e a volte urlata, sullo sfondo dello scontro quotidiano tra la Natura e la Grazia.
Gli estremi che danzano, giganti, sulle stelle e sui pianeti, che trovano la vita nascosta nell’incontro tra due cellule e nelle fiamme dell’apocalisse solare conducono l’esistenza a quell’entropia verso cui tutto tende.
L’infinitamente grande che non si può contrastare, che non si può dire, che non si può afferrare, che si può solo, al massimo, provare a mostrare, insieme all’infinitamente piccolo che, giocando sullo stesso piano, prova a dare risposta ai cosa, ai come, ai perché.
Lo smarrimento di un uomo di fronte a un lutto. I moti terrestri, solari, universali.
Cosa ci distingue, cosa identifica il nostro ruolo? Cosa siamo noi?
Se la Natura è incontrollabile ma soprattutto sorda, non sarà un dio inventato, ma la Grazia che tutto può abbracciare (anche l’istinto di una creatura primordiale) l’unico elemento che ci permette di non venirne travolti ma di viverla trovando il nostro posto nell’ordine delle cose.
Nella risultante del conflitto tra il macro e il micro sta la risposta, la chiave, il motivo per continuare a camminare in mezzo agli altri.
“Madre, padre, siete entrambi in conflitto dentro di me“.
E’ il pensiero che ossessiona il piccolo Jack (il giovane Hunter McCracken al suo esordio cinematografico).
Primo dei tre figli che compongono la famiglia degli O’Brian in quell’america di passaggio tra la campagna rurale e l’industrializzazione dei piccoli centri che era il Texas degli anni ’50.
Jack che è cresciuto inadeguato tra l’educazione urlata di un padre padrone (splendidamente interpretato da Brad Pitt che arricchisce di un nuovo, indimenticabile, personaggio – dopo il James Cole di Twelve Monkeys, il Tyler Durden di Fight Club e l’Aldo Raine capo dei tarantiniani Bastardi senza gloria, la sua galleria di caratteri in cui il lavoro sul corpo, sulla fisicità dell’attore va di pari passo con l’interpretazione emotiva)
aggressivo nei modi quanto fragile nelle emozioni e incapace di reagire a qualsiasi contesto possa rivelarglisi avverso (la perdita del suo ruolo dentro casa, la perdita della certezza data dal lavoro).
Jack che è cresciuto coccolato e protetto dalle attenzioni e dalla cura di una madre solare, candida, dolce e presente
interpretata da Jessica Chastain alla sua prima vera grande prova sul grande schermo.
Jack che è cresciuto con un fratello sempre migliore di lui. Sempre più piccolo di lui. A cui tendere e da sconfiggere. Da abbracciare ed eliminare nella corsa alla sopravvivenza.
Jack che è cresciuto con un secondo fratello di cui poco è dato sapere perché poco ha inciso sulla sua crescita.
Un padre che è Natura mutevole, che travolge col suo impeto ciò che gli si para davanti ma allo stesso tempo crolla davanti all’incedere degli eventi.
Una madre che è Grazia e per questo sempre simile a sé stessa nella forma di un sorriso, di una corsa, di una danza.
Un fratello che è migliore di quello a cui vorrebbe tendere.
Un fratello che è troppo distante da queste problematiche per preoccuparlo.
Strade. Vie. Porte.
Di quante radici diramate nel sottosuolo della sua casa, di quanti rami allungati verso l’alto, è composto l’albero della vita di Jack O’Brien adesso che è un adulto perso nel labirinto delle costrizioni sociali ed emozionali?
Chi è il Jack di oggi, con il volto e le paure di uno Sean Penn spaesato e privo di punti di riferimento?
Qual è il suo ruolo e cosa fare per comprenderlo? A Chi affidarsi nel giorno della perdita di sua madre, unico elemento ancora in vita di quella che è stata la sua famiglia?
Al Dio a cui gli è stato insegnato di rivolgere le sue preghiere?
Al lavoro cui si deve ogni sacrificio della vita quotidiana?
Alla ricerca o alla conferma di un amore stabile e solido con cui costruire una nuova famiglia?
Al ricordo. Al perdono. Alla Natura. Alla Grazia.
Malick filma e firma il suo testamento (po)etico affidandosi ad una lunga e continua serie di immagini meravigliose, intime, epiche e minimali
cui la fotografia del decano Emmanuel Lubezki regala la luce eterna delle immagini statiche di un Gregory Crewdson lontano da Lynch e più vicino all’America che sa di cosa parlare quando parla d’amore raccontata nei frammenti di Raymond Carver.
L’occhio del regista statunitense segue le origini del mondo con distacco fermo ed estatico ma è pronto a far volare la il suo punto di vista con un trasporto leggero e soave (“Sembra quasi il punto di vista del vento” dirà il mio amico regista/scrittore Ivan Silvestrini) quando si tratta di seguire la crescita dei personaggi di cui viene raccontata una storia volontariamente piccola.
Un momento di universo. L’infinitesimale del tutto.
Un frattale che ci appartiene ed è della stessa materia di cui è fatto ognuno di noi.
Stellette? 9 su 10.
P.S.
Per apprezzare appieno il film è assolutamente sconsigliato:
– Andarlo a vedere dopo le 20.30.
– Permettere ai cazzoni in sala di parlare, bofonchiare, ridere.
– Accettare chi ne dirà peste e corna proprio per gli stessi motivi per cui voi lo avete amato.
– Ammettere che la migliore recensione possibile l’ha fatta quel tizio che l’ha definito “un meraviglioso screensaver di due ore e venti”