L’ultimo terrestre, film d’esordio alla regia di Gianni Gipi Pacinotti, prodotto da Fandango, è in concorso al Festival di Venezia per accaparrarsi il Leone d’oro 2011.
Gianni, alla sua prima prova cinematografica, ce l’ha già fatta a posizionarsi in serie Aissima. Come ha fatto?
Facendosi un culo grande da qui a là, ponendosi con grande umiltà, raccontando con la sincerità che lo contraddistingue e soprattutto, portando a casa un film solido e personale.
Perché questo è prima di tutto L’ultimo terrestre.
E io, che tengo una minchia tanta e ho avuto l’opportunità di vedere questo film un sabato di qualche settimana fa (che era appena nato, bellino lui, con le musiche non ancora appoggiate e le scene non del tutto rifinite) posso affermarlo a gran voce!
Prima di essere il film di Gipi, prima di essere un’opera prima, prima di essere il film in gara a Venezia, L’ultimo terrestre è un film ben raccontato, che riesce a trasporre sullo schermo le atmosfere ironiche e disperate del bel volume di Giacomo Monti da cui trae ispirazione, condendole con quella palette cromatica che identifica, ad occhio nudo, il segno del suo passaggio.
E’ un film che parte dall’immensamente grande per raccontare l’immensamente piccolo e facendolo dimostra quanto l’immensamente grande sia nulla al confronto di ciò che vive e sente ognuno di noi.
E’ un film in cui immergersi, tra momenti di commovente disincanto e misericordioso cinismo, e in cui specchiarsi.
Ed è un film che ha, oltretutto, il pregio di sbattere davanti a tutti la bravura e la meravigliosa faccia di Gabriele Spinelli qui al suo esordio cinematografico.
La mia partecipazione è legata ad alcuni dei visual effects che vedrete sullo schermo (ve ne accorgerete, cominciano dalla primissima scena del film!) ma ci sarà tempo per parlarne più approfonditamente.
Per il momento vi lascio con una serie di foto che scattai a Gipi qualche tempo fa, il primo giorno che passai un po’ di tempo con lui grazie ad una cosetta che doveva fare con Rrobe.
Le minorenni fanno vedere le sise ai telefonini.
Le minorenni fanno vedere le sise in webcam.
Le minorenni lo fanno gratis perché non hanno valori e non sanno a cosa vanno incontro.
Le minorenni lo fanno a pagamento perché non hanno valori e 25 euro di ricarica vodafone sono un piccolo passo per l’uomo ma un grande passo per l’amenità.
Questo il nuovo sensazionale scoop emerso dall'”inchiesta” di Antonio Crispino per il Corriere della Sera.
Cosa emerge in realtà da questa inchiesta? A parte che è arrivata l’estate, intendo.
Che il Corrierone ormai ha rubato l’esclusiva al Messaggero per quanto riguarda le farloccate pruriginose che tanto interessano all’italiota medio.
E come lo fa? Con un articolo e un video che più fasulli non si può.
Allora, iniziamo rivelando una scomoda verità: le femmine mostrano le sise.
Lo facevano quando io stavo alle medie
(grazie Vanessa, ci hai insegnato più cose tu che tutto il corpo docente),
lo facevano quando stavo al liceo
(grazie Silvia, ci hai insegnato più cose tu che tutte le notti passate ad okkupare),
lo facevano quando io ero minorenne e guardavo le mie coetanee in chat
(grazie Spiritella83, Redviolet, Frafra, Cesarina81 e tutte le altre centinaia di anonime che mi hanno dimostrato che 4 pixel sgranati, di colore marrone, in era di 56k potevano voler dire “capezzolo”).
Ho tifato per Chiara che era di una bellezza strepitosa. Ho visto Sesya che lo era meno ma almeno ridevi per quanto sudava il suo uomo “Spyke”.
Ho assistito in tempo reale all’alba del “Se te le faccio vedere mi ricarichi il cellulare?” e ho scoperto che dare tutte le cifre tranne le ultime due con la falsa promessa di rivelarle subito dopo era una tattica che – incredibilmente – poteva funzionare.
Ho scoperto dell’esistenza di programmi che permettevano di poter registrare queste performance e ho visto le ragazze correre ai ripari e tutelarsi togliendo il volto dall’inquadratura.
Ho visto i maschi accorgersene soltanto parecchi mesi dopo, convinti che ormai la voce arrivasse direttamente dalle tette.
Ho visto finire i primi video sul mulo nei formati più disparati assistendo così, tra miliardi di fake dai titoli impronunciabili, ad un nuovo rilancio del genere amateur.
Ho visto (stupendomene, effettivamente) come si lasciavano filmare queste ragazze e questi ragazzi, nei bagni e nelle classe dei licei e ho ripensato a quanto avrebbe potuto essere diversa la mia dolescenza se i cellulari avessero già cominciato a diffondersi.
Ho visto De Sica e Pasolini nei video girati nei parchi e nei casolari delle periferie e dentro le case popolari in quello che poteva essere definito solo come Esibizionismo Neorealista, e davanti ad uno di questi ho avuto seriamente paura per quello che sarebbe potuto accadere e che fortunatamente non è stato.
Ho visto i video che Crispino spaccia come scoop nell’inchiesta – ALMENO – cinque anni fa (uno di quelli finì pure al tg4 raccontando la storia – reale? inventata? – della ragazzina che fece vedere le tette per ottenere qualche voto di più nell’elezione della rappresentante di classe) senza bisogno che un sedicente sedicenne mi raccontasse che li aveva girati lui.
Senza bisogno che un garante della privacy mi dicesse che i rischi che queste ragazze corrono sono che “questi video potrebbero vederli futuri datori di lavoro o il padre del ragazzo con cui vorrebbero fidanzarsi” perché queste sono motivazioni da entroterra italiano anni ’50.
Perché a queste ragazze, se vogliamo parlare di “rischi”, si dovrebbe puntare ad altre motivazioni e non ‘sta roba uscita da un film di Totò (con tutto il rispetto per il principe).
Partendo, prima di tutto, dal comprendere il contesto che le circonda. Il tessuto sociale e politico in cui sono cresciute. E non insegnargli che è sbagliato perché ferirebbero l’onore del padre del futuro fidanzato ma perché nessuno dovrebbe poter abusare della loro immagine e della loro persona.
Che sta a loro tutelarsi perché a nessun altro staranno a cuore quanto a loro stesse.
E che qualsiasi cosa vorranno fare nella vita debbono premunirsi di avere spalle tanto grandi da poterne sopportare le eventuali conseguenze.
Ma per tutto questo (che fa sempre e comunque bene sottolineare e che dovrebbe entrare, di diritto, nell’attuale programma di educazione del fanciullo) in relazione al fantomatico fenomeno di cui parla Crispino nella sua inchiesta, siamo ormai incredibilmente in ritardo.
Perché tutto questo si è magicamente ridimensionato.
Perché, aldilà di quello che Crispino dichiara, quello che accade realmente (e lo si verifica semplicemente facendo una ricerca online) è che è difficile trovare un video più recente di quelli (vecchi, ripeto, di almeno cinque anni) che, per l’appunto, si vedono nell’inchiesta del Corriere.
Quindi? Cosa è successo nel frattempo? Perché improvvisamente, dopo un notevole exploit iniziale, il fenomeno dei filmatini piccanti sfuggiti al controllo, s’è ridotto al punto di sparire?
Cosa è cambiato? Una presa di coscienza collettiva?
Un’improvvisa maturazione del mezzo comunicativo?
O semplicemente dobbiamo ricondurre tutto all’inversione di percezione della rete – avvenuta soprattutto grazie a Facebook – che ha dimostrato quanto rivelare la propria identità, senza nascondersi dietro l’anonimato di un nickname, potesse essere cool.
La fuga dall’anonimato ha portato ad un nuovo tipo pudore nella rete, più simile a quello che viviamo fuori dallo schermo?
A quanto pare si. E di questo sarebbe stato interessante che parlasse Crispino.
Questo avrebbe potuto essere uno spunto interessante per un’inchiesta.
Come far convivere, oggi, pruriti e pudore quando tra pubblico e privato non c’è più differenza?
Dal compiacimento di mostrarsi a chi non si conosce si è passati al farlo – con una metodologia del tutto differente – davanti a quelli che sanno chi siamo.
E questo, in un certo modo, ha creato un nuovo tipo di esibizionismo, legittimando e mettendo sullo stesso piano chi vuole mostrare la sua moto nuova, chi posta le foto della sua vacanza alle maldive e la minorenne, in bikini e in posa da calendario davanti all’armadio della propria cameretta, che grida “Un momentooooo!” ai genitori che la chiamano per cena.
“Quando ho cominciato a scattare fotografie, tutti mi consideravano la puttana di Jan. Niente di più, niente di meno. Ed è buffo se pensi che ho iniziato proprio per dimostrare a lui che le donne non sono soltanto qualcosa da desiderare, conquistare e penetrare.”
che, col suo immaginario onirico, erotico, ironico, malinconico, partendo dal misero scantinato di Praga in cui lavorava di nascosto e negli orari più improbabili, è arrivato con forza e merito ad ottenere un posto di tutto rilievo nella cultura popolare occidentale.
Il contesto, va detto, non era dei più favorevoli, ebreo nato a Praga, Jan vede deportati i suoi genitori e perde molti dei familiari nel campo di concentramento di Terezin.
Per quanto amasse dipingere e disegnare, gli obblighi di leva prima, e di lavoro in fabbrica dopo, gli impediscono di dare concretezza alle sue passioni.
Sarà la prima moglie Marie a regalargli, nel 1959, la sua prima macchina fotografica e, proprio con quella, nel buio dello scantinato in cui è costretto a confinarsi per evitare i ferrei controlli della polizia, Jan inizia ad esercitarsi.
I muri scrostati, dall’intonaco interrotto, che fanno da sfondo alle modelle senza volto e ai corpi segnati dalle vene e dal tempo, sono quelli del bunker artistico in cui Jan si autoconfina per fuggire all’imperante censura della dittatura socialista e sarà solo negli anni ’70, spinto da alcuni suoi clienti, che inizierà a prendere in mano quelle fotografie in bianco e nero e a colorarle dipingendoci sopra.
Questo gesto, per Jan, ha il peso di un’epifania.
Fotografare la realtà che lo circonda e dipingerla con ciò che sente dentro, con colori sempre troppo saturi e lontani dal vero, sempre violenti, romantici e sognanti, lo porta a liberarsi dei freni di cui si sente schiavo e ad usare la fotografia come strumento di catarsi personale.
E’ nelle immagini che Jan mette in scena un’ironia che nella vita di tutti i giorni tiene sopita. E’ nelle immagini che libera i suoi aspetti più animali, i suoi istinti passionali.
E’ nelle immagini che colora i suoi sogni d’amante senza tempo.
E grazie alle immagini incontra Sara, conduttrice e scrittrice di programmi Tv.
Siamo negli anni ’90. Anni in cui la vita di Jan è cambiata parecchio da quella dell’uomo che scattava di nascosto.
Separato ormai da troppi anni da Marie, Jan, grazie a un permesso speciale del governo comunista, smette dal 1984 di lavorare in fabbrica e porta avanti a tempo piano la sua attività di fotografo (del 1983 la sua prima monografia – “Il mondo di Jan Saudek” – che ne riconosce i meriti). Nel suo studio passano artisti, modelli, la creme de la creme della Praga bohemienne.
Tra questi, Sara.
Jan la vuole come modella.
Lei accetta. Ma a patto di poter usare quel ruolo per comprendere un aspetto in più del mondo di cui vuole entrare a far parte.
E’ colta, intelligente e determinata, Jan non tarda a rendersene conto e la prende come sua assistente.
“Braccio destro” si legge sul loro sito.
Quello che a Jan piace di Sara è il suo punto di vista, così opposto al suo.
Quello che a Sara piace di Jan è che vuole conoscerla. Le permette di studiarlo e di studiare, la ascolta e vuole vedere cosa può darle.
E Sara gli da quello che lui non ha:
la serenità.
Laddove ogni scatto è una lacerazione, una sofferenza, Sara porta la vita, l’ironia senza il cinismo, l’accoglienza.
Porta la coscienza di una femminilità che abbraccia a 360 gradi tutti quegli aspetti della donna che Jan non era riuscito ad esplorare o a riconoscere.
“Mi faceva sorridere quando mi parlava delle donne che fotografava, erano sempre soggetti complessi, intricati, tormentati. Uno strano incrocio di viscere e cervello. Volevo dimostrargli che una donna poteva essere anche protezione, ironia e leggerezza.”
Mi parla dell’emozione di fargli da modella. Di quel punto di vista privilegiato per carpire i suoi segreti. Mi parla dei suoi primi scatti e di quanto si sentisse impacciata ma mai in diretta competizione col suo maestro.
Mi parla dei soggetti che fotografa rivelandomi che sono, nella maggior parte dei casi, suoi amici che accettano – spesso malvolentieri – di lasciarsi ritrarre.
“Inizialmente non vogliono. Non si sentono all’altezza, non si piacciono. E quello che mi rende più felice è vederli cambiare opinione una volta che si trovano davanti al lavoro finito. Si guardano come se non si riconoscessero, come se si vedessero per la prima volta, e quello stupore è lo stesso che provo io ogni volta che li guardo con attenzione.”
“Cosa sono per te queste persone?”
Le chiedo.
“Un libro da leggere” mi risponde. “Mi piace leggere le loro storie sulle pieghe della loro pelle, sulle loro pose e i loro sguardi”.
Ed è un pensiero molto simile a quello che si trova sul sito internet dedicato alla coppia di fotografi, in cui Sara scrive:
“Una fotografia è un miracolo, perché ci permette di fermare il tempo e mostrare l’inafferrabile: movimenti, emozioni, dolore e bellezza. Risveglia i nostri ricordi di tutto ciò che amiamo.
Sono una mamma di quattro ragazzi che ha scelto di prendere in mano una fotocamera invece di cucchiai da cucina e ferri da stiro e non faccio altro che assorbire, partendo dalle lenti fino ai miei negativi, tutto ciò che è importante per me e che è fuggevole, di passaggio: l’amore, il piacere, la tristezza come desiderio, l’odore dei bambini, la solitudine e le aspettative.
Tutte queste storie, che mi girano ancora in mente sono scritte da persone che io posso leggere come un libro.”
E’ una cosa che condivido e le rivelo che sono ossessionato dalle cicatrici, unici segni fisici, permanenti, di una esperienza reale.
Lei annuisce poco convinta e con un mezzo sorriso mi dice: “Sei come Jan e forse è una caratteristica comune degli uomini. Associate all’esperienza soltanto il dolore, ma è riduttivo. Molte delle cose più importanti che hai vissuto e che fanno di te quello che sei oggi non presentano segni sulla tua pelle. E se ci pensi bene, è poi così vero che tutte le tue cicatrici hanno un reale valore? Quante te ne sei fatte semplicemente inciampando?”
Da qui spostiamo il discorso sul concetto metaforico di ferita, di taglio e di passaggio, per poi tornare ai corpi e a quello che rappresentano.
“Il ricordo di un determinato momento della mia vita. Guardo queste foto e aldilà di quello che possano comunicare a voi, io so esattamente chi ero nel preciso momento in cui le ho scattate. Per cui, quando mi chiedono: “Cosa vuoi esprimere con questa foto?” o quando leggo le interpretazioni più ardite, l’unica cosa che posso dire, riguardo ogni mio scatto è che quella sono io in quel preciso momento storico.”
Poi, spostandosi in direzione di questo quadro,
aggiunge: “Ecco, perché questa è la foto a cui sono più legata”.
Le rispondo che è anche una delle mie preferite e che mi ricorda un racconto di Carver letto tanto tempo fa, probabilmente contenuto all’interno di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
Mi risponde che non conosce Carver ma che a questo punto vuole rimediare.
Mi permetto di farle una domanda relativa all’opera di Jan.
Le chiedo se è a conoscenza del significato dei numeri presenti in basso e scritti direttamente a penna in alcuni scatti di suo marito.
Mi risponde: “Quelli in basso a sinistra sono semplice catalogazione. Quelli in basso a destra invece riportano una data, solitamente cento anni prima della realizzazione effettiva della foto, a cui Jan si ispirava artisticamente per evocare quel determinato periodo. Come a suggerire che fosse di un’altra epoca.”
A questo punto decido di rubarle semplicemente il tempo per una foto insieme e Sara accetta.
“Posso toccarti?” Mi chiede con un po’ di imbarazzo, indicandomi. “Eh?” rispondo io senza essere sicuro di aver capito bene e aggiungendo subito un: “…si, certo.”
Si appoggia a me, semplicemente mettendomi una mano sul petto. Sorride. Click.
Lei in questo preciso momento.
Mi congedo salutandola e promettendole di inviarle le foto.
Vado via salutando e ringraziando Barbara Collevecchio, curatrice della mostra e Dario & Cristiano proprietari della splendida (e sempre sorprendente) Galleria Mondo Bizzarro.
Se siete a Roma, o contate di passarci entro il 4 Settembre, andate a visitare questa mostra.
Sul sito della galleria trovate tutto il necessario per non perdervi.
Se metto il termometro sotto l’ascella destra ottengo un tranquillizzante 36,4.
Se invece lo infilo sotto l’ascella sinistra, ecco un preoccupante 38,2.
Assodato che non utilizzerò una terza via per misurarmi la febbre, la diagnosi chiara ed inequivocabile è che metà del mio corpo sta male e l’altra metà sta alla grande.
“Non avevo alcuna intenzione di passare al live action.”
Mi disse Stanton quando ho avuto l’onore di partecipare al workshop di due giorni tenuto da tutti i registi Pixar in occasione del Festival del Cinema di Venezia del 2009.
“Sapevo che prima o poi ci avrei provato, ma volevo continuare, almeno per un altro po’ e probabilmente per insicurezze mie personali, a fare esperienza nel mondo dell’animazione. Poi… quando ti trovi davanti la proposta di scrivere e dirigere il film tratto dal tuo libro preferito di quando eri bambino, ogni tua convinzione crolla e dici di si come un pazzo che si lancia senza assicurarsi di avere un bel paracadute allacciato sulla schiena! Anche se devo ammettere che il vero motivo per cui ho accettato è stato per divertirmi a scoprire quanto il reparto marketing e gli uffici stampa sarebbero andati in crisi per pubblicizzare un film come questo, in cui comunque, di sangue, ne scorre un bel po’! Immagina che bello: “Dall’autore di Finding Nemo e Wall-e… una nuova avventura, che non c’entra nulla con quelle due!”
E a vedere il trailer e le prime immagini promozionali
Il problema della “pesante eredità” del regista sembra essere stato risolto alla radice visto che del suo nome non v’è traccia.
Così come del sangue di cui mi parlava.
Ma al 9 marzo del 2012 manca ancora parecchio tempo, per cui, per quanto il rischio Prince of Persia sia elevatissimo, non disperiamo: sarà un film clamoroso.
Io (che leggevo Tex che si trovava nel bel mezzo di una sparatoria e non sapevo se ne sarebbe uscito vivo): “E’ tutto a posto. Non ci pensare.”
Martina: Leggi che messaggio mi è arrivato oggi pomeriggio su Fb:”
Mauro (sempre più preoccupato per Tex): “Mbè? avrete scambiato due chiacchiere, lui s’è ricordato il tuo nome e t’ha aggiunta. Che problema c’è? Dai, è tutto a posto. Non ci pensare.”
Martina: “No, no! Io con lui non c’ho parlato! Questo è solo un tipo che stava in fila davanti a me alla cassa e mi ha fatto passare perché lui aveva un sacco di cose e io solo un barattolo di vernice!”
Mauro (tornando con nonchalance a sfogliare Tex spacciando la sua preoccupazione verso il ranger per reale interesse): “Avrà visto il tuo nome sul bancomat e, con sguardo rapace, se l’è segnato in mente. Ma è tutto… come dire… è tutto a posto, dai. Non ci pensare.”
Martina: “Ho pagato in contanti.”
Mauro: “…”
Martina: “Gli scrivo.”
Cinque minuti dopo…
Martina: “Leggi qua.”
Mauro: “AAAAAARGGGGHHHH!”
Martina: “Lo conosci?”
Mauro: “Le k. Porca puttana. Avvisami, no?”
Martina: “Hai ragione, scusa. Come sta Tex?”
Mauro: “Eh, s’è salvato per un pelo.”
Martina: “Fiuuu. Gli riscrivo.”
Due minuti dopo…
Martina: “Ma ti sembra normale?”
Mauro: “Bhè, sono anni che ha a che fare con la peggior feccia della frontiera, mi pare il minimo che riesca a cavarsela in queste situazioni evitando tutti i proiettili. E poi erano solo in sette contro di lui.”
Martina: “Parlo del tipo.”
Mauro: “Ci sono k?”
Martina: “No, solo abbreviazioni.”
Mauro: “Fsss. Leggimelo tu. Dai scherzo. Bhè… mi sembra un discreto coglionazzo. Diglielo!”
E appena dieci minuti dopo… LA RISPOSTA!
Proseguite solo se non volete scoprirlo leggendolo su Cronaca Vera:
S
P
O
I
L
E
R
Mauro: “E’ una cosa che può dar fastidio?” Non credo ai miei occhi. Ok che hai il potere di attirare calamità neanche fossi me, ma porca zozza questo è proprio un imbecille.”
Martina: “Sei un poliziotto e ammetti anche di aver abusato di quanto in tuo potere e me lo dici anche?!”
Mauro: “Ah, io mi riferivo al fatto che è un poliziotto che scrive “xche'” ma effettivamente anche il tuo appunto desta un certo interesse. Andiamo a cena?”
Martina: “Ah, aspetta. Ha scritto ancora:”
Martina: “Non ho parole.”
Mauro: “Io qualcuna si. E sono tutte bellicose. Chiamiamo, nell’ordine, Rrobe, un avvocato e i carabinieri?”
Martina: “No. Sono donna e odio proseguire per vie civili. Voglio fargli capire che ha sbagliato utilizzando un po’ di utero e un po’ di logica. Vedrai che capirà. Ma prima andiamo a cena.”
E così… passata la mezzanotte…
Martina: “Va bene, no?”
Mauro: “Mah… se la vuoi mettere sul dialogo…”
Martina: “Ma non sei tu quello che dice che il dialogo e il confronto sono necess…”
Mauro: “Si ma questo è un cazzo di poliziotto! Dovrebbe usare i suoi strumenti per servire e proteggere, non per pedinare le ragazze che incontra da Leroy Merlin e poi provare a rimorchiarsele su facebook!”
Martina: “Ma questo sarà un ragazzino… non lo vedi come scrive?”
Mauro: “Hai troppa fiducia nelle forze dell’ordine.”
Martina: “Ha risposto:”
Martina: “Mi sa che non m’ha capito.”
Mauro: “Maddai? E io ke pnsv fosse 1 sveglio!”
Martina: “Glielo rispiego.”
Mauro: “Ussignur.”
Martina: “Ora gli sarà chiaro che ha fatto qualcosa di grave.”
Mauro: “Ha capito?”
Martina: “No. Ma dice che sparisce.”
E il problema, con questi mezzi analfabeti è che quando dicono “Spariamo” non sai mai se intendono che si levano dalle palle o che usano la pistola.
Servire e proteggere, dicono dall’altra parte dell’oceano.
Prepara per chi ti viene a salutare.
Scrivi per chi ti vuole trovare.
Fallo perché è quello che ti piace fare.
Elimina ciò che devi eliminare.
Pensa solo a come vuoi stare.
Le band si sciolgono. I cantanti si ritirano.
I malati e i governanti si dimettono.
Vasco, per l’appunto, si dimette.
Il che mi sembra abbastanza esplicativo di cosa rappresenti Vasco per la musica italiana (non scrivo “per la musica internazionale” perché da quella, in generale, non è mai stato tenuto in considerazione).
Vasco è un vecchio e stanco barone che obbliga i suoi fedeli al pagamento di un dazio annuale, che lui ricambia a suon di “eeeehhhhhh”, che sembrano fare felici tutti.
C’è da dire, in sua difesa, che a farli andar via c’ha provato. C’ha messo del suo.
Ha iniziato a rilasciare interviste bofonchiando risposte prive di senso e tutti a battere le mani.
Ha perso i capelli, è ingrassato a dismisura ed è salito sui palchi di tutt’italia mimando vagine con le dita delle mani e gridando verso le minorenni delle prime file “Bwavavavavavavà! Fammi venire!”
Ha trasformato la sua voce in una cacofonia gutturale a metà tra un citofono e miocugggino che parla coi rutti e i suoi fan si sono lesionati le corde vocali pur di cantare come lui nei karaoke di Latina.
Ha ridotto al minimo sindacale gli sforzi sperando che accadesse qualcosa, che lo lasciassero un po’ solo, e invece niente, tutti a chiamarlo poeta, anche davanti a singoli del calibro di “Tu vuoi da me qualcosa” che, non so se voi vi siete mai soffermati sul testo, ma dice davvero ‘sta roba qua:
Tu vuoi da me qualcosa
Tu vuoi da me qualcosa
Tu vuoi da me qualcosa
Sempre
Tu vuoi da me ‘che cosa’
Tu vuoi da me ‘che cosa’
Tu vuoi da me
Cosa ti Serve
Tu vuoi da me qualcosa
Tu vuoi da me qualcosa
Tu vuoi da me qualcosa
Sempre
Tu vuoi da me ‘che cosa’
Tu vuoi da me ‘che cosa’
Tu vuoi da me
Cosa ti Serve
Ti serve
ti serve…
ti serve…
ti serve…
ti serve…
ti serve…
Per esser felici per te
Ci vuole ‘un perché’
Non ti fidi mai
Non ci credi e lo sai
Vuoi qualcosa di più
E dici che tu
Pretendi da me
Qualcosa che io
Non so!
Che cosa è?…
Che cosa vuoi?…
Che cosa…hai?…
Che cosa c’è?…
Tu vuoi da me qualcosa
Tu vuoi da me qualcosa
Tu vuoi da me qualcosa
Sempre
Tu vuoi da me ‘che cosa’
Tu vuoi da me ‘che cosa’
Tu vuoi da me
Cosa ti Serve
Ti serve
ti serve…
ti serve…
ti serve…
ti serve…
ti serve…
Per esser felici per te
Ci vuole ‘un caffè’
Non ti fidi mai
Non ci credi e lo sai
Vuoi qualcosa di più
E dici che tu
Pretendi da me
Qualcosa che io
Non so!
Che cosa è?…
Che cosa vuoi?…
Che cosa…hai?…
Che cosa c’è?… Che cosa c’è?…
Ha lavorato sui testi delle canzoni che ha coverizzato scimmiottando improbabili assonanze con la lingua italiana (quando, quando QUANDO riuscirò a scordarmi che per replicare il “Celebrate, this party is over, i’m comin home!” degli An Emotional Fish
l’ha trasformato nel bizzarro ma somigliante: “Sorridete, gli spari sopra, sono per voi”
– oltretutto, il tizio che ha uploadato Celebrate su Youtube c’ha tenuto a sottolineare: “Great song a dumb Italian rockstar called Vasco Rossi made a lot money with” )
e anche quando basta leggere i titoli delle canzoni di un suo album per capire che l’ispirazione forse non bazzica più da quelle parti e che l’arte del ripetersi sta mostrando un po’ troppo la corda:
– E adesso che tocca A ME
– Dimmelo TE
– Cosa importa A ME
– Non vivo senza TE
– Ho bisogno di TE.
il pubblico ha risposto col solito, acritico, entusiasmo, trincerato dietro il dogma, l’ohm: “Vasco è vasco”.
E alla fine hanno ragione loro.
A loro Vasco piace, stanno bene così, ridono di chi la pensa diversamente, ai concerti lanciano buste di piscio agli artisti che si esibiscono prima di lui e sono stati convinti che sia l’unico “rocker” esistente.
Buon per loro.
Per quanto riguarda me, devo dire la verità, del Vascone nazionale, è piaciuta un sacco di roba.
Non ci credete? Eccovela qui, in rigoroso ordine cronologico:
e tutta la testimonianza live di Fronte del Palco, da cui, la mia preferita:
che già preannuncia le derive minimal/ammiccanti degli anni successivi ma ancora resta in bilico sopra la follia.
Quel live ha segnato uno spartiacque tra un prima dignitoso, un dopo “altro”, e un recente indecoroso del quale oggi ci viene paventata l’ottimistica ipotesi di un ritiro.
Tutta Italia ne parla alle soglie dei megaconcerti sold out dello Stadio Olimpico di Roma (e la sua pagina wiki è stata immediatamente hackerata e poi ristabilita, ma caso ha voluto che io passassi da quelle parti proprio in quel momento e quindi…)
ma quello che non esce chiaramente fuori dalle frettolose notizie della rete, e che metto in risalto nel video che mi sono divertito a sottotitolare e che ho messo a inizio post, è che stiamo assistendo, tra una sghignazzata e l’altra di Mollica, alle “dimissioni” più scamuffe della storia.
Maddai, quali intenzioni di ritirarsi dovrebbe avere qualcuno che comunque continuerà a scrivere canzoni o a fare “concerti all’improvviso”?
Ora, a parte che riesco a immaginare ben poche cose più inquietanti di starmene lì a camminare sicuro, con la mia grattachecca all’orzata, e poi ritrovarmi “all’improvviso” ad un concerto di Vasco, ma sarebbe questo un addio alle scene?
Vasco, VASCO, ma per cortesia!
Sii Rocker, cazzo! Dai l’addio, dì che ti sei stancato di tutto questo perbenismo, dei meccanismi in cui vogliono incastrarti. Dì che non ci stai! Aderisci in pieno agli archetipi del ruolo che ti sei attribuito e mandaci affanculo tutti.
Vai via, in figura intera, di spalle, e solo il dito medio alzato verso di noi che ti guardiamo andare.
Fatti una chiacchierata con gli Oasis, con i Cure, coi Pink Floyd, con Billy Corgan, insomma, affidati a dei VERI professionisti del “non suoniamo più” e che si rimpianga, l’era di Vasco, almeno fino al giorno del tuo clamoroso & inaspettato ritorno sulle scene, magari – chi può dirlo? – in concomitanza con la presentazione del prossimo album!
Ma affidare tutto ad una chiacchierata tra vecchietti, in un corridoio dell’ospizio “Voglia di Giovinezza” di Sezze Scalo dà poche soddisfazioni (soprattutto quando a leggere le parole dell’altro vecchietto e a sentire le sue risatine, sembra che ti stia perculando dall’inizio alla fine).
Dammi retta Vasco, leggi con attenzione queste righe e punta tutto, focalizza il TUO momento, sull’ultima data del tour.
Quella sarà la celebrazione finale.
Lì, poggiato sull’asta del microfono, tra un “Vabè” e un “Ehhhhh”, biascica qualcosa di veramente importante scritto per te da Gaetano Curreri, e rivela a tutti la verità che non vogliono ascoltare.
Che Vasco non tornerà.
E che ora sono i Teletubbies a farti godere.
E insomma i Battles di qua, i Battles di là e tutti i tizi che ne sanno di roba cool ne parlano e tutti i tizi che ne sanno di roba cool ne dicono, ne ascoltano, ne consigliano.
Io so che prima o poi mi piaceranno ma cerco ancora di divincolarmi nel loro frullato di post/math/pop/filastrocc/rock e di non frantumarmi le palle dopo la quinta traccia.
Mi dico “Dal vivo. Sarebbero da valutare dal vivo.”
I Battles vengono in concerto a Villa Ada.
Eccellente. In questi giorni che iddio manda il caldo come se non ci fosse un domani e quella è l’unica zona fresca di Roma. Eccellente. Perché a me quel posto piace un sacco.
Eccellente. Perché insieme a loro suoneranno i Caribou. Eccellente. Perché il tutto costerà solo 18 iuri.
Eccellente. Perché ci vado con un sacco di gente fica. Eccellente. Perché andremo un po’ prima per cenare lì. Eccellente.
Squilla il telefono.
Non il mio personale. Quello di studio. E’ Veronica.
“Mauro, scendi, riunione di direzione. Si si, lo sappiamo che sono le 18.32 però scendi dai, ci sbrighiamo, te lo prometto. Dai. Si, c’è anche Francesco.”
Una riunione di direzione in Rainbow Cgi ha la durata media del ciclo vitale di una sequoia.
Se volete una cifra meno approssimativa tagliate a metà uno di noi e contate i cerchi.
Se a questa riunione aggiungete il fattore Francesco, il tutto si misura in Ere di Premesse Giurassiche e Ricapitoliamo Mesozoici.
Come una diciassettenne a cui il tipo ha giurato che non le verrà in bocca, mi fido di quel “Dai, ci sbrighiamo”.
Anzi, è riduttivo dire che mi fido, mi ci aggrappo con tutto me stesso per non scoppiare a frignare in sala riunioni.
Alle 19.15, Maledetto Marini già pronto e sulla porta d’uscita mi fa pervenire questo avvertimento:
Io so che andrà così. Ne ho la certezza.
Chiamo Marini che, prevedendo cosa sto per chiedergli, cinchischia. Non risponde. Elude.
Non m’arrendo.
“Oooi?”
“Prendi i biglietti anche per me.”
“No ma vedi che forse fai in tempo!”
“Prendi i biglietti anche per me.”
“Ma se poi fai tardi e…”
“Prendi i biglietti anche…
“HO CAPITO!”
“A dopo!”
In riunione dico: “Ok ma senza dilungarci potremmo varare dei cambiamenti e discuterne con i supervisori domani”.
In riunione dico: “Secondo me non abbiamo ancora abbastanza elementi, sentiamo Barbara e magari domani possiamo capire meglio come affrontare la situazione.”
In riunione dico: “A quest’ora i fornitori hanno già staccato, magari vediamoci domani mattina sul presto e facciamo nuovamente il punto.”
E così via.
Infilare la parola “domani” in ogni frase pronunciata, ottiene i suoi frutti e alle 20 riesco a fuggire.
Alle 20.15 Sono lì.
“Dai, hai visto che ce l’hai fatta!”
“Eh, si!”
“La prima riunione che finisce in meno di mezzagiornata!”
“Ma si dai, godiamoci questo concerto senza stare a preoccuparsi di come inquadrare i tizi. Divertiamoci senza pensieri!”
Fingo.
Mento senza convincermi neanche un po’.
Perché io ADORO riprendere i concerti.
ADORO vedere cantanti e musicisti nello schermo della mia videocamera.
Adoro farmi la mia regia.
Adoro tornare a casa e montare i video.
Adoro rivederli.
Adoro postarli.
“E vabbè dai, che ti frega! Tanto dovevi solo prendere la videocamera, no?”
E’ tutto finito. Serata di merda. Peggior concerto di sempre. Tutta colpa di questo cazzo di giugno che ogni anno arriva a funestare il periodo a cavallo tra il freschino piacevole e l’abominevole caldo romano. Sarà un concerto orribile.
Quanto tempo è? Tre anni che riprendo tutti i concerti che vedo? Quattro? Cinque? Quanti?
E stasera non sono pronto.
Vado al bar a prendere una cosa da bere. Mh, ci sono le pizze.
“Una margherita col prosciutto.”
“Ok ma noi boicottiamo la Coca Cola”
“Grazie per l’informazione, ma cosa c’entra con la mia pizza margherita col prosciutto?”
“Bhè, se ti prendi la pizza, bevi la birra o la coca cola e noi boicottiamo la coca cola.”
Mi adeguo alla situazione e, dentro di me, divento Giampiero Qualunque chiedendomi perché non boicottino allo stesso modo anche gli extracomunitari nelle cucine e gli iphone sui banconi vicino alle casse ma chiedo solo un chinotto neri.
“Non ce l’abbiamo, ma puoi provare questa (wait for it!) alternativa italiana.”
Mi chiedo perché la tizia parli come un account milanese, mi chiedo se la tizia realmente pensa che il chinotto Neri sia di una qualche azienda ameriKana ma non ho voglia di polemizzare. Dopo tutto sono qui e a parte la mia PORCAPUTTANATROIAVACCA di videocamera scordata a casa, tutto va bene.
Immagino poi che “l’alternativa italiana” possa essere un mix tra lei
(Ciao Ria!)
ed Emma
(credetemi, potrebbe funzionare!)
e invece la tizia dietro al bancone mi si presenta con questa roba qui:
L’orrore pubblicizzato in ogni cartellone della mia città mi viene spacciato come “l’alternativa italiana”.
“Alternativa al buon gusto e all’intelligenza nella scelta di un marchio?” le chiedo. “Eh?” mi fa ella Rainman.
Rispondo: “Dai, “vaffancola”, oltre che la cocacola non sarebbe da boicottare anche questo patetico doppiosensismo da bagaglino governativo?” “Eh?” mi fa ella MichiamoSam. “E’ una merda questa roba!” le dico parlando in stampatello e riducendo il livello del confronto a Forzalazieee!
Mi risponde “E allora beviti quelle porcate ameriKane!” (immagino sempre riferendosi al chinotto neri).
Chiudo con un “Ok i’ll drink my chinEight in another bar!” e vado via.
In tutto ciò non ho la videocamera, il che, non so se vi è passato di mente, ma è veramente grave.
Il palco sembra una figata, la batteria in primo piano, le due tastiere (“pianole” dirà la fanciulla di illuminata virtute) una di fronte l’altra e oblique, due schermi rettangolari e in verticale e io non ho la mia videocamera.
Mangio. Finisco. Buio.
Ecco i Battles.
Non ho la mia videocamera. Loro strumentano e giocano con tutto quello che hanno a disposizione ed io non ho la videocamera.
Sulle note di Sweetie & Shag
http://www.youtube.com/watch?v=q8ky2uuj70c
si accendono gli schermi per rievocare la presenza di Kazu Makino dei Blonde Redhead
su quelle della loro hit Ice Cream
(video e pezzo clamorosi. Guardare e riguardare)
Matias Aguayo fa le facce dietro di loro ed io non ho la mia videocamera.
Un dio buono ha trasformato i Liars di Mr You’re on fire mr in 3 bambini nerdoni, li ha piazzati sul palco di Villa Ada ed io non ho la mia videocamera.
Voce Misteriosa: Fermo, Mauro, aspetta. Parliamo. Mauro: Chi sei? Voce Misteriosa: Il tuo mauro interiore. Il grillo ciccione che ti vive nello stomaco. M.: Ah, ciao. Voce MisteriosaGrillo Ciccione: Ma perché non ti stai godendo sto cazzo di concerto e continui a pensare alla videocamera? M.: Bhè, perché vedi, ora stanno facendo questa roba strana, stanno suonando in questo modo e mi sono venute una decina di idee su come inquadrarli. G.C.: Si ok ma anche sticazzi, no? Non ce l’hai, fattene una ragione. M.: Si, però questi momenti poi non si ripetono e io ho perso l’opportunità di poterli fermare in video. G.C.: … M.: Che c’è? G.C.: Vogliamo andare a fondo? Perché la gente qui intorno salta, balla, ogni tanto fa foto, ogni tanto fa un pezzo di video, si bacia, canta e tu vuoi riprendere tutto il concerto? M.: Mmmmm Non lo so, forse perché riconduco tutto il mio immaginario a qualcosa che sta su uno schermo? G.C.: Una roba del tipo: “siccome alcune delle emozioni più belle della mia vita le ho provate guardandole da uno schermo, mi sforzo di replicare questo meccanismo?” M.: Ecco si! G.C.: Non m’hai convinto. Stronzate che non t’appartengono smontabili in 2 minuti. Ti hanno emozionato ANCHE cose che hai visto da uno schermo ma molte di più legate ai posti che hai visto con i tuoi occhi, le persone con cui sei stato, le cose che hai fatto. Insomma non credo tu possa nasconderti dietro la mascherina di quello che ha bisogno di uno schermo per sublimare le proprie emozioni. M.: Ok allora è la condivisione. G.C.: Cioè? M.: Li riprendo, li faccio vedere ai miei amici, agli sconosciuti. Fermo questo momento e lo condivido. G.C.: E allora tutti i concerto che hai ripreso e non hai mai messo online né hai mai fatto vedere? M.: Mh. G.C.: Quindi credo che un po’ di quello ci sia. Ma è più legato a quello che ti piacerebbe essere. Tu vorresti essere lì, accreditato dal management del concerto per riprendere ufficialmente questo concerto e farne dvd e viaggiare il mondo dietro alle band più interessanti del momento. E’ uno dei modi in cui ti piacerebbe vivere. E’ quello che ti piacerebbe fare e quando ti è capitato di farlo in passato eri esaltatissimo. M.: Quindi? G.C.: Quindi scimmiotti con la tua videocamera quello che ti piacerebbe fare accontentandoti di una misura domestica piuttosto che niente. M.: Precisamente, mi ricordi perché ho scelto te come Grillo Ciccione? G.C.: Non hai scelto, c’ero solo io. E comunque non credo ci sia nulla di male nell’appagare un proprio bisogno. Però, quella mail, mandala. M.: …
G.C.: Mandala. M.: Ok. G.C.: Ora torniamo a sentire il concerto? M.: Dai. G.C.: Ah, la vedi la francese vicino a te? M.: Si. G.C:: Balla con lei. M.: Ma se… G.C.: A lei piacerà. M.: Si ma come glielo chiedo? G.C.:Ci sta già pensando lei!
I Battles suonano per 70 minuti (quelli giusti per non metterti troppo a dura prova) e fanno ballare tutti. Anche me che stavo senza la mia fottuta videoc avevo le mani libere e mi andava solo di godermi un bel concerto.
Impossibili da inquadrare se non con diversi tentativi di catalogazione, dal vivo riescono ad infondere quella visceralità che su cd sembra completamente assente grazie ad abbondantissime dosi di ironia, intrattenendo e divertendosi. Quindi voto si.
Dopo una pausa ristorativa che dà a tutta villa ada la possibilità di rilassarsi sulle panchine e sull’erba, arrivano i Caribou.
Io che sono vecchio accuso. E’ quasi mezzanotte, ho mangiato, ho ballato, mi sono svuotato e ora dovrei ricominciare a ballare?
SI, CAZZO SI!
I Caribou, anzi, IL Caribou, accompagnato dalla solita, ottima, compagine live, tira fuori un’esibizione che fonde un dJset house e techno minimal al pop più psichedelico ed evanescente, saltellando tra le tracce del loro ultimo album “Swim”
passando per quelle del loro capolavoro “Andorra”
e trascinando tutti i partecipanti in una danza onirica e tiratissima che trova il suo acme nel bis tratto dal singolo del loro ultimo album “Sun”
che propongono in una versione protratta all’inverosimile in un continuo crescendo di cui non s’è vista la fine fino al totale sfinimento della platea saltante.
Tra cui l’ex vecchio sottoscritto.
L’ex stanco.
Che ha concluso la sua serata 3 ore dopo, immerso nei cuba libre della festa di san lorenzo, con una voce misteriosa, più simile a quella di una producer che di un grillo ciccione, che gli ricordava della riunione delle 10 della mattina dopo.
E si sta così, con tutto quello che c’è, e un grazie per tutto quello che verrà.