Demotivational.

13 settembre 2011 da Mauro

Ad opera del Glifo, altrimenti noto con lo pseudonimo di Andrea Mazzotta.
Prometto che quando presenteremo un certo volume al suo stand sarò ANCORA più elegante.

(Peccato solo che da questa foto non si comprenda appieno quanto tutti a quella festa fossero veramente bellissimi!)

Dieci di quindici.

12 settembre 2011 da Mauro

http://www.youtube.com/watch?v=9lREoyi3Wxc

Perché quando si dice “quindici minuti d’applausi” tutti pensano che sia un’esagerazione.
Peccato non aver ripreso l’inizio e la fine, ma ero emozionato anch’io.

Bravo Gianni, fiero fiero fiero fiero fiero fiero di te!

p.s.
Ma al minuto 5.52, Muller ti aveva chiesto di indicargli chi fosse quello vestito peggio in tutta la sala?
Così fosse, ti ringrazio.

E’ importante riuscire a mantenere lo status.

Revolver.

10 settembre 2011 da Mauro

“Oh?”
“Eh?”
“Hai lasciato la sacca col bagnoschiuma, lo shampoo e l’infasil nella doccia in cui ti sei lavato ieri mattina?”

Su questa domanda retorica di Martina, apro gli occhi dopo averli chiusi neanche tre ore prima e blatero qualcosa che mi dichiara colpevole su tutta la linea.
Mi copro col solito straccio thai chiedendomi dove sono finite le mutande (basandomi sul mio alito è probabile che le abbia ingoiate nel sonno) e nasco fuori dalla tenda in tutto il mio splendore di occhi introflessi e pallido savoir faire.

Convinco le gambe a muoversi dandomi delle piccole scariche elettriche con l’alimentatore del computer e incrocio Martina che non mi insulta soltanto perché lo spazzolino in bocca le impedisce di essere sufficientemente chiara. Mi dà il cadavere di bagnoschiuma Dove, unico sopravvissuto a quello che deve essere sembrato il dono di un generoso campeggiatore e torna a fare le facce allo specchio.

In doccia mi ricordo perfettamente come mi chiamo e per quale motivo sono lì.
Ho la sensazione di recuperare le forze in 4 minuti esatti e l’uomo che sono una volta emersone non ha nulla a vedere con quello che ero appena entrato!
Raggiante, mi godo l’aria buona e saluto Rashid, il tizio del Bangladesh con cui ho fatto amicizia il primo giorno di campeggio.

Bello, Rashid, con il suo spezzatino cotto in una wok in funzione h24.
Con la sua voce lenta, pacata, rassicurante.
Con le sue spalle minuscole e la pancia come un grosso pallone sul punto di scoppiare.
Con la sua maglietta grigia su cui è stampata la copertina di Revolver dei Beatles.

Che grande album, Revolver, il mio preferito dei favolosi quattro e infatti anch’io posso sfoggiare una maglietta identica a quella di Rashid perché anch’io l’ho portata in campeggio.
Anzi, me la metto ora!

“Marti, quando prima sei andata a riprendere le magliette stese… c’era quella di Revolver?”
“Non c’ho fatto caso, ‘spetta che vedo… Uh! No, non c’è! Dove te la sei persa?”

“Sono abbastanza certo di averla persa addosso a Rashid.”

Mi metto buono buono e aspetto che Rashid esca dal bagno sperando che non ci stia una vita, che per il film delle 9 bisogna essere lì alle 8.30.
E sto lì, buono buono.
Buono buono.

Cacca lunga Rashid.

Sciacquone! La porta si apre!

“”Giorno Rashid!”
“Ciao!”
“Gran disco Revolver, eh!”
“Uh. Che dice?”
“Intendo quello sulla maglietta.”
“Maglietta? Chi maglietta?”
“Err… Credo che questa che indossi sia la mia maglietta, Rashid!”
“Questa? No, penso che mia!”
“E pensi che male. È identica alla mia che è – guarda a volte il caso che bizzarro creatore di situazioni – scomparsa!


“Quindi questa è tua?”
“Già.”
“A me ne hanno fregate quattro finora!”

Gli dico che mi dispiace, lo aiuto a ridarmela e lo lascio lì un po’ contrariato. Probabilmente Revolver gli piace davvero.

Mentre racconto a Martina di come sono riuscito a riconquistare la maglia lei si limita ad indicare col mento alle mie spalle.
Mi volto.
Davanti ai fili dei panni stesi, Rashid prende una maglia a caso tra le cinquanta ad asciugare ma la guarda con sufficienza, non lo soddisfa.
La posa e passa a valutare quella affianco.

Decisamente meglio.
Il nero lo sfina. E gli ingrossa le spalle.

Che poi uno pensa che viene al festival e troverà la meraviglia in un qualche assurdo film austromediorientale, negli incontri con gli autori e le star hollywoodiane, negli indipendenti, nelle diverse culture che utilizzano il mezzo cinema per raccontarsi, e invece no!, l’inaspettato viene sempre a sedersi al tavolino vicino al vostro.

Nel ristorante di un amico del tizio che avete fermato per chiedergli dove fosse un altro ristorante.

E ci vuole un po’ per mettere a fuoco gli elementi, non è immediato.
Vi accorgete che c’è qualcuno al tavolo accanto al vostro soltanto quando gli viene portato un maestoso rombo al sugo di olive su letto di polenta bianca ed è chiaro che non potrete più vivere senza.
E mettete a fuoco un sorridente signore di mezz’età, col maglione salmone e la voce che sicuramente fu sicula, un tempo.

Quando gli portano l’acqua ecco che inquadrate anche il suo commensale.
Di età ragazzina, fattezze brasiliane e non una parola una, che sia italiano.
Timido, mangia e si ubriaca delle parole dell’altro. E dei suoi sorrisi, di cui si diceva.

Quando ordinano proprio il vino che volete voi che vi accorgete delle mani unite.
Anzi, mano brasiliana seppellita da mano sicula, per la precisione.
L’occhio clinico fa il resto, escludendo eventuali parentele e deducendone l’unica, meretricia, verità.

E’ giunta quindi l’ora d’attaccar bottone e non esiste momento storicogeografico più facile.

“Anche voi qui a Venezia per il delirio del festival oppure siete fuori dal girone infernale?”

Andata. Liscia come l’olio. Qualcuno ha lasciato i cancelli del parco giochi incontrollati e allora vado tranquillo.

Il tizio è siciliano, ci dice. Trapiantato a Roma da anni. Avvocato.

Il suo identikit cresce battuta dietro battuta e ogni nuovo dettaglio aggiunge elementi entusiasmanti.

E’ per metà ebreo e adora il Brasile, adora Bahia. Il posto più bello del mondo. Ha una casa a Bahia, ci va spesso.
Ed è lì che ha conosciuto Thomas.
Il suo “collega” Thomas.

Ci rivela che Thomas, che si esprime per cenni del capo e sorrisi imbarazzati, è in realtà un promettentissimo avvocato ed è per questo motivo che sono entrati in contatto, hanno fatto amicizia, la loro relazione è diventata più intima e questa è la loro prima vacanza insieme.

E’ bello, Thomas.
“Ventiquattro anni” dice l’ex siculo. L’occhio mi dice qualcosa meno di 20.
“Avvocato”, dice l’ex siculo ma io credo che la cosa più simile ad un aula di tribunale, Thomas l’abbia vista in una pubblicità della nuova stagione di Law & Order.
Preferendogli di gran lunga Lost.
Però ti guarda sempre negli occhi, ed è un buon punto a suo favore.
Si muove lentamente e ogni tanto twitta a mezza bocca, quasi vergognandosi, una frasetta alla cameriera che è pur ella brasileira, e torna ad ascoltare i nostri discorsi.

In realtà sono anche un po’ belli, il giovine e il maturo.
Scherzano con una tale intimità da farmi credere che possa realmente esserci qualcosa che vada oltre i soldi.
E quando l’avvocato parla di Bahia si emozionano entrambi.

Ed è qui che estrae la nuova carta imprevisti:

“Poi, non vedo l’ora di tornare a Bahia,  voglio farlo parlare con la IyalOrixa!”

Ai nostri sguardi perplessi, si asciuga il brodetto dalle labbra e ci spiega.
Ci dice che oltre alle case a Roma e a Palermo, ne ha anche una a Bahia, e abita lì per buona parte dell’anno. “C’hanno provato, i miei, ma tra cattolicesimo e ebraismo ho capito che le religioni monoteistiche non facevano per me. Da anni sono praticante del culto della Candomblè. La IyalOrixa è la sacerdotessa che ti inizia all’apprendistato.”

Da questo momento in poi sparisce tutto ciò che mi circonda e ogni micron della mia attenzione è a disposizione dell’AvvocatoPuttaniereCultistaGay.

Ci parla di una religione che si cuce a misura sulla persona perché ha a che fare con tutta una serie di spiriti ancestrali che rappresentano archetipi appartenenti all’uomo da sempre.
Compito della sacerdotessa quello di aiutarti a riconoscere i tuoi, quelli che maggiormente influiscono sulla tua vita e quelli che arriveranno a servirsi del tuo corpo e del tuo spirito per veicolare le loro specifiche caratteristiche al mondo.

Dice che è una religione che non ti porta alla felicità post mortem quanto ad una più prosaica forse, ma anche più concreta, serenità terrena in armonia con quello che ti circonda.
E dice che vuole condividerla anche col ragazzetto che lo fa impazzire perché non vuole imparare l’italiano.

Se lo bacia e se lo coccola.
Contento del suo ragazzino e di questa settimana di luna di miele.

Paga il conto, sorridendo, ed esce con noi dal locale.
Noi dobbiamo scappare che Niero ci aspetta già da 20 minuti a Rialto.
E non che  Daniele Niero, appena tornato dall’Australia dove ha passato gli ultimi anni a lavorare per film e varia altra roba in cgi, sia un personaggio di minor conto.

Ci accompagnano, e passeggiano con noi. Il maturo con le mani dietro la schiena, lo sguardo in alto, e la faccia serena di chi si gode il fresco.
Prima di salutarmi mi dice:

“Certo che m’ha detto proprio bene a nascere in questo preciso periodo storico. Guardami, sono ebreo, frocio e siciliano.
In qualsiasi altro momento avrei passato la vita a nascondermi, e invece eccomi qui, a raccontarvi di me passeggiando per le vie di venezia.”

E ora, Daniè, sai qual è il motivo del mio ritardo, che l’altra sera poi mica ne abbiamo parlato!

Café de Flore – Incontro col cast.

5 settembre 2011 da Mauro

Com’è consuetudine per i titoli appartenenti alla categoria “Giornata degli autori”, buona parte del cast è presente in sala durante la visione

ed accetta ben volentieri di salire sul palco per discutere del film insieme al pubblico.

Alla richiesta di raccontare cosa c’è all’origine di un film come questo, è il regista Jean Marc Valée a prendere la parola:

“Grazie a tutti per gli applausi. Ero molto emozionato per questa premiere.
La reazione, qui a Venezia, per il mio film precedente era stata forte e non volevo deludere nessuno.
Per quanto riguarda la nascita del film è tutto partito dal brano che gli dà il titolo. Continuavo ad avere in testa quest’uomo che lo ascoltava e da lì ho cominciato ad aggiungere elementi fino ad avere un primo quadro della storia da raccontare.”

Gli chiedono: “Da dove sei partito per la scelta degli attori?” e “Lei è uno di quei pochi registi che cura sia regia che montaggio. Può raccontarci di questo doppio approccio al lavoro?”

Risponde: “La cosa più importante era individuare le due attrici protagoniste.  Una ricerca impegnativa perché le cercavo di talento e con una bellezza particolare, più tenera che eccitante, che si facesse soprattutto amare. Trovate loro è stato anche più semplice capire chi potesse essere l’attore protagonista. E’ stata una scelta impegnativa ma ne sono felice. Per quanto riguarda invece il lavoro sul montaggio non è stato complesso perché sapendo esattamente cosa ho in testa quando giro, ho tutti i materiali di cui ho bisogno e quando monto le scene finisce che si scelgono da sole.
Allo stesso modo in cui si eliminano quelle fatte soltanto per fini puramente estetici e che non aggiungerebbero niente alla narrazione.
E in un certo senso è stata una scelta obbligata perché in un film destrutturato come questo, con un montaggio non lineare, mi serviva gestirlo da solo perché è tramite il montaggio che dovevo generare nella gente fiducia e trasporto totale, visto che per un’ora abbondante punto a creare una tensione per la quale mi serve assolutamente la collaborazione dello spettatore.”

All’immancabile richiesta su cosa pensino gli attori del film, risponde per prima Helen Florent, interprete di Carol:

“E’ la prima volta che vedo questo film con tutti i rulli uniti, la musica e il pubblico in sala. Mi suscita emozioni così forti che devo vederlo ancora un po’ di volte prima di poterne parlare col giusto distacco e in maniera oggettiva.”
A lei si aggiunge Evelyne Brochu, Rose, nel film:

“Credo che tutto sia riconducibile alla parola amore. Non solo quello che si vede nel film ma anche quello che c’è stato sul set mentre lavoravamo e quello della vostra reazione, verso di noi”.
E infine Kevin Parent:

“Io sono sorpreso di come Mark sia riuscito a creare una storia tanto bella e coinvolgente attraverso un montaggio che unisce così diverse linee parallele, senza rendere il tutto complicato. Questo sforzo tecnico, unito ad una musica che amo, mi rende veramente onorato di averne fatto parte.”

Dal pubblico chiedono il perché della scelta di usare per la colonna sonora diversi brani dei Sigur Ros di cui uno, di 8 minuti, mandato praticamente per intero.

Prende la parola Vallée: “Non e stata una scelta arbitraria quanto viscerale. E una musica, quella dei Sigur Ros, che amo da tantissimi anni e che mi coinvolge in maniera personale esattamente come per il protagonista del film. E una musica che mi fa sognare e nascere dentro la voglia di raccontare. E una musica molto cinematografica e ho scelto i loro brani più mistici.

A questo punto, una signorotta che aveva faticato per attirare l’attenzione della microfonista, si rivolge direttamente al regista: “Premesso che non ho ancora del tutto chiaro e voglio rivedere il film per far decantare le emozioni. Con questo film mi ha trasmesso un senso di angoscia relativo a qualcosa che sta per avvenire ma non sappiamo cosa. Se amore, se una disgrazia. Ed  è quasi da stare male per questa tensione, di cui comunque la ringrazio. Come mai questa scelta?

Lui sorride e risponde, pacato: “Grazie per questa domanda. In effetti è vero. A volte ho anche io l’impressione che ci sia spesso nel film un sentimento di tristezza, in alcuni casi un po’ pesante. Ma credo che esprima fortemente l’ambivalenza che attribuisco al sentimento. Ci sono sentimenti che fanno bene e sentimenti che fanno male. Ma alla fine si va verso una risoluzione che è incarnata nella pace. Credo che possa essere riassumibile in una malinconica gioia di vivere.”

Quello che dice in seguito ve lo evito perché spoilera la fine del film ma vi lascio la sua battuta finale: Metaforicamente? Chi lo sa. E poi volevo ci si potesse anche concedere un po’ di senso dell’umorismo e dello spettacolo. Vorrei concludere dicendole che non deve preoccuparsi se ha la sensazione di non aver compreso proprio tutto. Io ci impiegato quattro anni per mettere a fuoco questa storia, quindi una seconda visione può aiutare!

Il pubblico se la ride, poi una mano alzata chiede: “La struttura non lineare era già presente nello script o è stata una scelta nata in fase di realizzazione?”

Il regista risponde: “No, la sceneggiatura era esattamente così. E l’ho montato io anche per la paura della reazione di un ipotetico altro montatore alla sua lettura! Ho pensato che nessun montatore avrebbe lavorato bene con quell’adorabile tiranno alla Mussolini che sono io quando voglio ottenere un risultato!

Una signora tutta compita si chiede: “Come mai dare un ruolo così drammatico ad un’attrice come Vanessa Paradis, più famosa per la moda che per interpretazioni memorabili?”.

Lui a questo punto si fa serio. Non arrabbiato ma vuole confutare qualsiasi dubbio sulla scelta di casting:

“In effetti sembrerebbe una scelta tipica di anticasting, prendere una donna conosciuta per la sua sensualità e bellezza che fa svenire gli uomini (o almeno è l’effetto che fa su di me – aggiunge scherzando) e poi metterla in un ruolo completamente diverso da quello che ci si aspetta. In realtà non è andata così, Vanessa ha molto amato la sceneggiatura ed ha voluto confrontarcisi proprio per mettersi alla prova col ruolo di mamma che in effetti sta vivendo realmente. Ve lo dico sinceramente, anche io all’inizio ero dubbioso, ma dopo averla vista al lavoro, credo che nessuna, meglio di lei, avrebbe rappresentato meglio questa madreche prova a rendere la vita del figlio la più bella del mondo.”

L’ultima domanda arriva da uno “psichiatra che ha lavorato sempre nelle separazioni e da 30 anni nel mondo dell’handicap. Quello che mi ha lasciato perplesso riguardo il film – io uso spesso i film a scopo non solo didattico ma anche terapeutico – e vorrei riallacciarmi a quanto detto prima dal regista, quando parlava della malinconia nella gioia di vivere, non pensa che invece dal film trapeli un po’ l’opposto, ossia un malinconico MALE di vivere?

Vallée ironizza sul fatto che domande così complesse meriterebbero risposte altrettanto approfondite e poi aggiunge: Non volevo dire esattamente che c’è sempre della malinconia nella gioia di vivere, ma che in determinate condizioni, tipo appunto una separazione non del tutto voluta, possono venire a nascere sentimenti che puoi accettare o contrastare. Arrenderglisi genera malinconie. Ma si continua a vivere e non si smette di cercare l’anima gemella anche se, in qualche modo, devi distruggere quanto c’è stato prima. E questo causa dolore per te e per chi ti circonda, che dovrà accettare questo nuovo status. Continui a vivere e ad andare avanti, a trovare nuovi valori, anche del tutto diversi da quelli in cui credevi prima.”

L’incontro si conclude su queste parole e tutti ci avviciniamo a scambiare quattro chiacchiere con il cast.
Prima che possa chiedergli qualsiasi cosa, mi si avvicina il regista che mi fa:

“Pavblè, mi hanno vaccontatò che anche tù hai potuto assapovave quel pvelibato bocconcinò!”
Io resto perplesso per una frazione di secondo e lui specifica: “Uh, no, no! Non sto pavlando della mia attvice! Quella c’ha, come dite voi mangiaspaghetti, il sedevino come un poggia sigavette!”

E a quel punto ci capiamo.
Un altra vittima, sull’altare non corrisposto, dell’implacabile Seduta Dietro che ormai, qui a Venezia, è diventata leggenda!

Café de Flore – Recensione.

3 settembre 2011 da Mauro

Jean Marc Vallée gioca con lo spettatore per tutta la durata del suo film.
Non si limita a seminare aspettative o a intessere microtrame tra le trame, ma instilla, sin dal principio, un senso di attesa, tra l’angoscia e la meraviglia, dell’attimo in cui tutto deflaglerà.
Conduce la narrazione esattamente come Antoine (l’esordiente Kevin Parent) alterna il passaggio tra un brano musicale e l’altro nelle sue serate da DJ.

Interrompendolo.
Attirando l’attenzione del pubblico.
Lanciando il nuovo dal punto in cui più fomenterà la sala.
Rischiando i fischi e raccogliendo applausi.

Quelli che, a sei anni da C.R.A.Z.Y. Vallée torna a raccogliere al Lido, che premia con una emozionata standing ovation i 129′ di Café de Flore.

Poco più di due ore per raccontare le vite parallele di Antoine e Jaqueline.

Il primo è l’uomo che ha tutto: lanciatissimo nella sua carriera in campo musicale, felicemente innamorato – e ricambiato – dalla sua anima gemella, due figlie che lo adorano, genitori ancora in vita.

La seconda (una straordinaria Vanessa Paradis), dopo aver dato alla luce un figlio affetto da sindrome di Down decide di dedicare ogni suo sforzo nell’impresa di fargli vivere una vita normale.

Il primo vive a Montreal ma viaggia da un continente all’altro per far ballare il mondo.

La seconda vive nella parigi del 1969.

Tra di loro, l’amore di due adolescenti della seconda metà degli anni ’80.
Due ragazzi consacrati alla musica – in particolare alla new wave inglese – e a quello che provano l’uno verso l’altra.

E la musica, quella suonata da Antoine, cantata da Jaqueline e ascoltata dai due ragazzi, accompagna la scansione narrativa dei loro rispettivi percorsi.

La musica che è nel titolo e nei titoli.

Nei dialoghi, nella diegesi anche quando accompagna solo gli spettatori, la musica che detta i tempi al racconto.

Rallentandolo. Facendolo strofa, strofa, ritornello e di nuovo strofa col fondamentale apporto di un montaggio perfetto (ad opera, sempre, di Vallée) al servizio di una regia che alterna i diversi piani fondendoli in maniera dinamica ed elegante.

Café del Flore ha l’immenso pregio, soprattutto, di smarcarsi da tutti quei vicoli ciechi che si potrebbero ipotizzare alla visione del trailer

(il pietismo verso la malattia, l’epica dell’amore adolescente, l’ameliesmo del personaggio di Jaqueline, l’autorialismo francese) trasformandoli nell’unica strada percorribile per raggiungere quella serenità a cui tutti ambiamo, di cui tutti abbiamo bisogno.

Quella serenità che può sembrare necessità di assoluzione ma è solo richiesta di pace.

Stellette? 8 su 10. Forse anche 9, ma io sono un esaltato.

P.s.
Al momento ignoro se ne esiste già una distribuzione italiana, io il mio l’ho fatto caldeggiandolo fortemente a due tra i più importanti distributori nostrani.
In caso non dovesse uscire dalle nostre parti, recuperatelo comunque e guardatelo col volume alto.
E la porta e la finestra aperta per creare una leggera corrente.

Di là dal vetro – Recensione.

2 settembre 2011 da Mauro

Mani nei capelli e sguardo basso.
“Come faccio a parlare male di uno scrittore che m’ha dato così tanto?”

Questo il mio pensiero al termine della visione dei 19′ diretti da Andrea Di Bari e prodotti dai Pastai Garofalo (si, proprio loro).

Ma andiamo con ordine. Cos’è Di là dal vetro?

In termini di scrittura è puro Erri De Luca.
C’è il ricordo. Ci sono le bombe. C’è la chiacchierata con la madre. C’è la poetica piccola. C’è il focolare. C’è la distanza. C’è la catarsi finale.

Ma quello che sulla carta avrebbe funzionato come al solito, trasposto sullo schermo si espone a tutta una serie di problemi che la regia approssimativa di Andrea di Bari non fa altro che accentuare.

Il tono. Enfatico, epico ed evocativo. Troppo “alto” per essere messo in scena, avrebbe beneficiato di un’interpretazione di sottrazione.
Dove la scrittura sale, l’attore avrebbe dovuto scendere.
E così il regista, che invece punta a soffermarsi sulle espressioni, indugia eccessivamente su de Luca e la Danieli e invece di aiutarli, esalta i loro difetti , mandandoli a 300 km orari contro un muro di cento vetrine da pomeriggio cinque.

Il montaggio, inizialmente interessante, spezzato e allo stesso tempo lineare, cambia presto registro, assestandosi su un’invisibilità non so quanto voluta. La fotografia rimane anonima e alterna cose molto buone (la stanza da letto) ad altre non del tutto a fuoco (la sala) come i piani tra i due personaggi, spesso sfocati senza che se ne comprenda la funzione narrativa.

E’ possibile quindi trovare qualche pregio in quest’opera proiettata nella giornata degli autori?

Si.
Queste pieghe e questi occhi fotografati fuori dalla sala:

che sanno raccontare come pochissimi altri.
Ma non ora, e non qui.

I titoli di coda hanno appena iniziato a scorrere sullo schermo quando l’applauso del pubblico richiede che il regista si alzi in piedi a raccoglierlo.

Io mi accodo agli altri per andare a stringergli la mano ma poi mi rendo conto che proprio davanti ai miei occhi si para uno spettacolo indimenticabile.

Lei.

No buoni, avete capito male.
Non lei:

LEI!

Guardatela bene.
Funziona tutto. Everything in it’s right place. La mano, il naso, l’ombretto, la collana.
Sublime.

Mi avvicino a Lou, che s’era accorto che guardavo con faccia estasiata e mi fa:

“Hai visto che bocconcino?”

Io lo guardo con quell’espressione lì e gli rispondo: “Se stai parlando di Corinne Yam, la tua attrice, sappi che è niente rispetto a quella dietro!”

Lou mi risponde in quel cinoinglese che ho imparato ad amare in Global: “Ma scherzi? Corinne è ‘na scrocchiazzeppi senza arte ne parte, strigni, strigni… c’ha ‘n culetto che è ‘n posacenere! Quella dietro invece…”

E in coro: “…Sublime”.

Nell’euforia cameratesca non ci accorgiamo di alzare troppo la voce e Tahar Rahim si aggrega ben volentieri:

“Dai, stacce! ‘o sanno tutti che è ‘n posacenere!”

A quel punto Corinne vorrebbe alzarsi per dimostrarci il contrario, ma vengono tutti richiamati all’ordine per rispondere alle domande del pubblico:

“Qual è la genesi di un film come questo? Perché raccontare la storia di due persone così diverse che trovano una strada comune? Da cosa sei partito?”

Lou risponde: “Sono molto felice di essere qui per questo incontro. Ho iniziato a scrivere questa sceneggiatura partendo da un romanzo che mi ha colpito molto di una scrittrice che è qui presente in sala. Il merito è suo”.

La scrittrice si alza, noi battiamo le mani, lei sorride mesta e si risiede.

“Un film come questo chiede molto agli attori. Soprattutto a livello di intesa e forza. Immaginiamo ci sia stata molta fatica ed esercizio. Raccontateci di questa esperienza” Chiedono.

Prende la parola Corinne Yam e con quel savoir faire tipico degli asiatici che non sanno raccontare una calla neanche sotto tortura risponde uno spietato:

“In realtà non c’è stato nessun esercizio perché io, personalmente, ho avuto pochissimo tempo visto che sono stata coinvolta nel progetto quando mancava solo un mese all’inizio delle riprese e ho incontrato il regista e  Rahim soltanto una volta”. Poi sorride idol e inizia a cercarmi nella folla

mi trova.

Dal suo labiale intuisco distintamente:

“Posacere un cazzo!”

Fortunatamente prende la parola Rahim, liberandomi da quello sguardo: “Si, è vero! Ci siamo incontrati solo una volta prima delle riprese ed e stata un aggiunta positiva, una specie di bonus perché in fondo è la stessa cosa che succede anche ai nostri personaggi nel film. E quindi tutto sarebbe stato più naturale. Col regista invece ci siamo incontrati parecchie volte e abbiamo parlato a lungo dei personaggi. Non ci sono state vere e proprie prove ma abbiamo discusso a lungo su chi erano Hua e Mathias. E parlando di me ammetto di aver fatto fatica ad immergermi a pieno nel mondo degli operai, che non conoscevo così a fondo. Nei loro modi di relazionarsi, di muoversi, di parlare. Sono felice di aver fatto questa, che considero, una vera e propria esperienza di vita.”

Anche lei riconosce che non conoscersi l’ha aiutata parecchio nella parte e poi arriva una nuova domanda al regista: “Da dove nascono la scelta geografica di spostare il personaggio di Hua tra due ambienti così distanti come Pechino e Parigi e la scelta sociale di dividerla tra l’ambiente proletario e quello intellettuale?”

E qui, se la Yam era stata sorridente antidiva, Lou Ye si incupisce addirittura

e risponde: “Ma io in fondo non ho inventato nulla. Ho solo seguito quello che già c’era nel romanzo e mi sono limitato a portarlo sullo schermo.” Che tenerezza. Poi aggiunge una frase che ho amato molto: “E in merito agli attori, è vero, si sono incontrati improvvisamente, ed è quello che di solito capita agli attori. Ed io ne sono molto felice.”

Al presentatore l’onore e l’onere dell’ultima domanda: “Ammiro molto sia il lavoro degli attori che del regista. Trovo che Lou Ye abbia la caratteristica di unire un occhio molto profondo rispetto quello che vede, ad un cinema più istintivo di quanto l’immagine, molto curata, non farebbe immaginare. Mi piacerebbe che spiegasse quanto, nel suo modo di lavorare è ragione e quanto è istinto.”

E se la domanda è interessante, la risposta lo è anche di più: “Non credo ci sia una differenza tra le due cose. Sono convinto che tutti i film non siano altro che documentari, perché tutti i film parlano solo e sempre della vita delle persone. E nella vita delle persone non c’è distinzione tra istinto e ragione.”

Batto le mani insieme a tutti, soddisfatto sia della visione del film che del veloce dibattito.

Prima di andar via, Corinne si avvicina, innamorata

e mi sussurra il numero della sua stanza.
Alzando il bavero del mio impermeabile, le rispondo: “Mi dispiace, non fumo.”, e mi allontano a passetti sempre più veloci.

Alla ricerca di quella che le era seduta dietro.

Il tema centrale del nuovo film di Lou Ye (già palma d’oro a cannes nel 2009 per la sceneggiatura di Spring Fever) ha a che fare con l’opposto.
E con quella sensazione di malinconica accettazione con cui lo accogliamo senza più riuscire a respingerlo.

Hua (Corinne Yam) è appena stata lasciata dal compagno e riversa la sua disperazione per le strade della Parigi in cui ha da poco iniziato ad insegnare.
Niente sembra sollevarla fino all’arrivo dell’operaio Mathieu (Tahar Rahim) che la colpirà casualmente con una mazzetta di tubi innocenti in pieno volto.

Il ragazzo la aiuterà a riprendersi. Si scuserà. Le offrirà da bere. Si scuserà. La inviterà a passare la serata insieme, e al di lei “No, grazie”, la violenterà in un angolo.
E non si scuserà.

Quali basi migliori per dimenticare la precedente storia d’amore ed iniziarne una nuova?

Questo l’incipit di Love & Bruises in cui la tormentata storia tra i due è il veicolo per raccontare il bisogno di stare insieme che ci contraddistingue.
Non è importante, ci dice Ye, il contesto sociale, Hua si muove tra le classi più basse e quelle più alte, tra gli intellettuali e chi ha appena la licenza media. I parigini e i suoi conterranei di Pechino. Chi la venera e chi la umilia. Tra le carezze e i lividi. La paura e la tenerezza.
E tra questi estremi, il suo corpo usato come volontà e rappresentazione per siglare il passaggio obbligato per arrivare a provare qualcosa.

C’è la ricerca della felicità nelle scelte di Hua? No.
C’è il rimpianto? La volontà di affermazione? Di riappropriazione?
No, mai.

Solo una costante nota di tristezza che caratterizzerà il suo viso anche nei (pochi) momenti solari della pellicola.

Se i toni dello script sono altalenanti, discontinui e alternano momenti veramente buoni (tutto il primo atto) ad altri in cui sembra girare a vuoto (la mole di trame aperte, a totale servizio di un sottotesto già ampiamente esplicitato, la tematica, non propriamente inedita) la regia, tutta incentrata sui due attori in stato di grazia, è invece salda, accurata e ben concentrata su quello che maggiormente interessa a Ye: mostrarci la purezza di quell’anima, che i due personaggi, tra di loro, sembrano non riuscire a raggiungere mai.

Stellette? 7. No, 6. Mmmm. 7. ok, 7. Meno.

Meno.

Caro Sito,
Ti uso quotidianamente e non mi fermo a ringraziarti mai.
Lo faccio oggi, che è grazie a come ti sei comportato nell’ultimo anno e mezzo, che ho ottenuto questo accredito

e posso aggiornarti dalla sala giornalisti

parlando dei film che ho visto senza fare le file.  Passando avanti a tutti quelli che non ti hanno.
Se per l’anno prossimo riesci a far allargare le poltroncine in sala Darsena, o a farmi dimagrire, te ne sarò ancora più grato.

Grazie.

Per sempre tuo,
Mauro.

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