Dopo avervi presentato l’intervista a LRNZ, mente e mano al servizio del lato animato del documentario The Dark Side of the Sun, è il momento di fare quattro chiacchiere con Carlo Shalom Hintermann, regista e vero e proprio motore di tutto il progetto.

Hai dichiarato di aver scoperto dell’esistenza di Camp Sundown leggendone sul New York Post. Come si passa dall’interesse per una notizia al farla diventare una missione per i successivi tre anni della propria vita?

Ho avuto bisogno di tempo. Quando ho letto l’articolo non mi sentivo pronto a girare un film su una tematica così delicata. Qualche anno più tardi, dopo aver fatto un programma sulla pena di morte che mi ha messo a confronto con la realtà durissima del braccio della morte in Texas, mi sono sentito pronto ad affrontare questo progetto. Quasi sempre quando iniziamo un progetto con la Citrullo sappiamo che durerà molto perché cerchiamo di conoscere e diventare parte di ciò che raccontiamo, in questo caso quando abbiamo conosciuto Dan and Caren Mahar siamo rimasti talmente impressionati che abbiamo da subito deciso di prenderci tutto il tempo necessario per poter realizzare il miglior film possibile.


Quali sono le prime persone che hai pensato di coinvolgere nel progetto? E quale la molla – narrativa/etica/quello che ti pare – che ti ha convinto che poteva nascerne un film, il tuo film?

Ho subito coinvolto Daniele Villa come produttore, la mia società Citrullo International e Lorenzo Ceccotti, perché da subito ho pensato che l’animazione fosse necessaria per documentare quello che era indocumentabile: i sogno, le passioni e le paure dei bambini malati di XP. A questo punto ho sentito che poteva diventare un film perché si poteva ragionare con le persone giuste su come articolare la narrazione. Ho chiamato il direttore della fotografia Giancarlo Leggeri, pedina fondamentale per ragionare sulla questione che più di ogni altra mi interessava a livello visivo: non riprendere al buio quanto riprendere IL buio. Perché la notte doveva essere la protagonista del film cambiando la nostra prospettiva e cercando di farla cambiare anche agli spettatori.
Ho capito però che il film poteva andare nella giusta direzione solo quando ho incontrato i nostri protagonisti: Katie, Rachel, Chris, Patrick, Hannah, Fatima, la loro eccezionalità mi ha convinto che se avessi rispettato la loro natura avrei potuto far conoscere anche al pubblico la loro forza.



Rispetto per una natura diversa. Rispetto per le persone. Per la malattia. Per le scelte. Per il buio e per la luce. Ma anche per le diverse professionalità coinvolte e per le esperienze che si portano dietro. Cos’è il rispetto? E soprattutto, come si racconta il rispetto?

Non solo è l’elemento fondamentale di base, ma credo sia anche un enorme motore creativo: senza il rispetto non si lasciano le persone libere di dare un apporto creativo pieno.
Prima di tutto per me è fondamentale capire l’essenza del lavoro dei collaboratori coinvolti. Con Lorenzo significava davvero entrare nel suo universo, confrontarsi con i suoi riferimenti artistici e lasciarsi guidare dalla sua percezione della storia che stavamo raccontando, lasciandogli piena libertà e intervenendo solo per rilanciare ancora più in alto. Per fare un passo in più, a volte, incoscientemente.
Lo stesso è accaduto con il musicista Mario Salvucci. Collaboro con lui da molti anni e so quale valore aggiunto può apportare al film.
Una volta settato il tono è fondamentale rispettare la sua creatività, rimanendone anche un po’ sorpreso ascoltando il risultato finito.
Quello che mi esalta è accogliere le idee più originali dei collaboratori proprio quando ti sottopongono qualcosa che non ti aspettavi. Questo spinge il film verso una nuova direzione, spesso quella giusta. In un certo senso a Camp Sundown succede la stessa cosa: Dan e Caren Mahar lasciano che lo spirito del campo sia la somma di tutte le personalità che vi prendono parte, e il risultato è eccezionale proprio perché ognuno dà il suo contributo. In questo senso ho ritratto il rispetto: il rispetto di Patrick, bambino di 8 anni che non ha l’XP, verso Rachel, bambina sua coetanea molto fragile.
Nel loro rapporto sta forse la chiave di tutto il film. Il rispetto si lega indissolubilmente alla compassione, ma nel senso etimologico del termine: esperire insieme qualcosa moltiplicandone la forza.
Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda perché in questa ottica il rispetto è il vero protagonista del film e se io o qualsiasi collabortore avessi rotto questo eqilibrio tutto sarebbe crollato. Io credo che questo film non possa piacere alle persone sgradevoli, e questo non per merito mio ma per la grandiosità dei protagonisti.

E a proposito di rispetto, sei riuscito a guadagnarti quello di una personalità complessa come Terence Malick che ti ha voluto come regista dell’unità italiana per alcune sequenze di Tree of life girate nel bel paese. Come è nato il vostro rapporto? Come si è sviluppato e verso cosa è proiettato?

Il rapporto con Terrence Malick è nato quando io Daniele Villa, Gerardo Panichi e Luciano Barcaroli (Citrullo International) abbiamo girato Rosy-fingered Dawn – a Film on Terrence Malick.
L’impresa era molto complessa perché Malick ha sempre rifuggito interviste, quindi quando gli abbiamo presentato il progetto del film attraverso il suo agente ha subito rifiutato.
Ma un citrullo non è un citrullo se non sbatte la testa contro il muro almeno due volte: abbiamo quindi deciso di contattarlo nuovamente spiegandogli che non volevamo intervistarlo ma che, al contrario, sarebbero stato il suo cinema e i suoi collaboratori a essere protagonisti. Abbiamo così iniziato un viaggio  che ci ha portato a contatto con Sean Penn, Arthur Penn, Martin Sheen, Sissy Spacek, Jack Fisk, Jim Caviziel e moltissimi altri. Malick ha capito lo spirito del progetto e da lì è nata una vera e propria amicizia, che per me ha significato anche un confronto con una sorta di padre adottivo. Nel tempo ho avuto un confronto diretto con lui su quasi tutti i miei progetti compreso
The Dark Side of the Sun. Per quanto riguarda invece la collaborazione su The Tree of Life è stata quasi uno sbocco naturale. Ricordo che il suo scenografo Jack Fisk, collaboratore abituale di Malick ma anche di David Lynch, professionista di valore assoluto, ci disse dopo l’intervista che gli facemmo: “Secondo me Terry rimarrebbe incantato dalla vostra passione e vi coinvolgerebbe in un suo progetto”.
Questa frase mi ha dato forza e per questo motivo ho proposto a Malick di girare delle cose in Italia (per motivi contrattuali non posso dire esattamente cosa ho girato). A quel punto mi è stata lasciata grandissima libertà, il che è stato un insegnamento straordinario, perché il principio che animava questo atteggiamento era quello di rimanere sorpresi. E così è stato, le immagini inserite nel film sono quelle che ho girato di mia iniziativa, grazie anche alla collaborazione preziosa dell’operatore Matteo Ortolani. Riguardo al futuro stiamo finendo un libro su Malick per la casa editrice inglese Faber & Faber, che uscirà per il mercato americano e inglese. Malick è stato anche molto generoso nell’appoggiare il film di finzione che stiamo cercando di produrre insieme a Rita Rusic,
The Book of Vision.



Ora che il film è stato trasmesso pubblicamente, possiamo dire che si è chiuso un ciclo e presto se ne aprirà un altro. Cosa ti ha sorpreso in questo percorso? Sia positivamente, che negativamente, intendo.

Quando parlo di The Dark Side of the Sun non posso non ricordare quanto sia stato difficile produrre il film. Penso al produttore Daniele Villa, compagno citrullo, che non si è mai tirato indietro e ha sempre assecondato le spinte creative mie e di Lorenzo.
In questo percorso ci sono stati partner generossissimi: Tecnolight che ha fornito tutte le luci, Lanterne Volenati, tutte le luci a fiamma, AB Medica che ci ha dato un contributo fondamentale, Muse Roma e Muse Italia, Presa diretta di Andrea Fiorentini. Poi Rai Cinema, NHK, DR e YLE (telvisione italiana, giapponese, danese e finlandese). Dulcis in fundo è arrivato il contributo indispensabile di Rainbow, grazie alla generosità e incoscienza di Iginio Straffi.
Detto questo per il resto ci siamo scontrati con le solite pastoie italiane, con tutto il peggio del sistema nepotistico e soffocante del nostro paese.
Il ministero, in primis, che valuta i progetti con criteri assolutamente imperscrutabili, e assolutamente condannabile è anche un certo mondo “ufficiale” legato a festival e istituzioni che si muove per rapporti clientelari.
E’ più facile, per noi, avere contatti con Brad Pitt o con professionalità eccelse americane, tedesche o francesi, piuttosche che con l’ultimo dei distributori italiani.
Questo a volte è disarmante e testimonia una cosa indiscutibile: l’Italia è ferma per una precisa volontà di immobilismo che fa comodo a poche persone arroccate sui loro privilegi.
Una nota amara ma doverosa.


Alla base di tutto.

4 novembre 2011 da Mauro

Dedicato a chi lavora, o abbia voglia di lavorare, con me.

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Posso affermare senza alcun dubbio di avere grossi debiti nei confronti di Raffaele Boiano.

Gli devo l’invenzione del Fluidismo, le caramelle al caffè e alla menta alle 3 del mattino per l’integrale di The Kingdom di Von Trier al Palazzo delle Esposizioni, un freepress dal suo primo viaggio a New York, il passaggio di una cerva quando pensavo fosse troppo tardi, le regole del calcio e del rugby, il festival di Venezia, le polpette al sugo della nonna, i pranzi di casa Fazzi e la carne di Cisternino, l’insegnamento della calma nel rispetto verso gli altri e verso sé stessi, l’essere Fratello sempre. Non da meno, la forma e l’esistenza di questo stesso sito.

Da qualche tempo gli devo anche una serie di resoconti lucidi ed emozionanti dei suoi viaggi in Palestina.
Reportage diretti, improntati sulle persone e sul contesto in cui si muovono.

Raffaele non lascia spazio a voli stilistico-filosofici ma spalanca universi semplicemente raccontando l’esperienza pratica di un preciso momento, in quel mondo.

Questo che vi riporto integralmente, è quello che ha scritto sul suo blog appena rientrato a Roma, ieri sera:

Day 21. Exit strategy

// November 4th, 2011 //

Oggi torno a Roma. Chi mi segue on line avrà notato cose strane nei giorni scorsi:

  • il blog si è fermato ad una settimana fa
  • da ierisera sono scomparsi i post sulla Palestina
  • ho cambiato nome e foto al mio account Facebook
  • ho reso privati tutti i tweet
  • ho cambiato la privacy dell’account Google

In sostanza, mi sono preparato per l’aeroporto, dove sarò interrogato. Ho anche:

  • cancellato tutti i file che parlano di Palestina dal laptop
  • cambiato SD nella macchina fotografica inserendo tutte foto delle chiese sante della Galilea (mia mamma apprezzerà…)
  • eliminato tutta la cronologia del browser
  • disattivato dropbox
  • cancellato google notifier, perché io dovrò sostenere che il mio unico indirizzo mail è quello del lavoro
  • scaricato e crittografato le foto della West Bank
  • rovinato intenzionalmente la lonely planet, per farla più “vissuta”
  • spedito il materiale che parlava esplicitamente del conflitto e dell’occupazione
  • preparato una versione credibile del viaggio
  • cancellato tutti i numeri e i messaggi dalla SIM watanya
  • cancellato i numeri palestinesi dalla SIM Orange IL

Insomma, attività da para-spia. Ma perché?

Non è un crimine andare a visitare i Territori Occupati, eppure agli occhi della sicurezza israeliana è un comportamento molto pericoloso, da disincentivare assolutamente.
Anche i volontari che stanno in Cisgiordania per 3 o 6 mesi all’aeroporto non dichiarano apertamente quello che fanno, anche se non c’è alcun reato. Tutti hanno paura di due cose: il timbro di espulsione, che ti impedirebbe di tornare per 5 anni, e l’interrogatorio sfiancante, quello che mira ad ottenere i nomi dei palestinesi che collaborano ai progetti di resistenza non violenta.

Perché questo è il punto centrale: a te, cittadino UE, in assenza di reato non possono fare nulla. Invece i palestinesi, non-cittadini di uno stato non riconosciuto, possono essere arrestati e trattenuti con ogni scusa. Se dici di aver dormito ad Al Ma’sara per 12 giorni, qualcuno devi aver conosciuto, qualche locale ti avrà aiutato no? Sono questi nomi l’obiettivo dell’interrogatorio.

Il mio volo è alle 17.30 ma mi presento allaeroporto alle 12.20. Ho già la scusa: sono arrivato prima per provare a prendere il volo delle 14:50. Terzo piano, settore A, una fila interminabile. Inoltre una tedesca sciroccata come compagna di fila che mi assilla con i suoi pensieri mistici. Dopo 45 minuti di attesa in piedi mi si avvicina una donna della sicurezza. Prende il passaporto e parte il primo Q&A:

Come ti chiami? Raffaele
Quando sei nato? (la so)
Dove vivi? Roma
Quando sei arrivato? Il 13 Ottobre
Quando riparti? Oggi
È tanto tempo che sei qui, che hai fatto? Turismo (guida ciancicata alla mano)
Tutto questo tempo? Beh, si, ci sono tante cose da vedere.
Ok aspetta

Solito balletto. Prende il mio passaporto e aspetto. Dopo 5 minuti arriva un altro ragazzo.

Come ti chiami? Ari-Raffaele
Dove sei stato? A Gerusalemme, Betlemme, Galilea, Tel-Aviv
Quanti giorni? Circa 3 settimane in tutto
Quanti giorni a Gerusalemme? Una quindicina
E quanti a Betlemme? Quattro
Che hai fatto 4 giorni a Betlemme? Sono arrivato per vedere la basilica della natività e la città. Ho mangiato un ottimo falafel ma il giorno dopo non mi sono sentito bene di stomaco. Ho avuto anche un po’ di febbre (mostro la tachipirina). Sono ripartito quando mi sono ristabilito.
E gli altri 3 giorni? Tel Aviv
Dove hai dormito ieri sera? A Tel Aviv. Nel Mugraby Hostel, allenby road 19.
Ok, aspetta (sorride, la risposta “Tel Aviv” + indirizzo gli è piaciuta)

Torna con gli adesivi che classificheranno la mia pericolosità. Sono un 5. Da 1 a 6, sono abbastanza pericoloso, ma poteva andare peggio. Mi accompagnano al controllo bagagli. Apro la valigia e l’addetta mi sembra simpatica. Le faccio vedere le ceramiche, apre tutti i miei panni sporchi uno ad uno, apre una maglietta di decathlon sigillata che non ho usato, vorrebbe aprire anche la Tahina che ho comprato per Sara. Io sono disponibile e lei è distesa.

Poi il primo problema: ci sono 3 kefiah colorate, in una busta trasparente.

Che sono? Regali
Perché regali queste cose? Perché sono belle e costano poco
Perché in Italia mettete queste cose? Si, al collo, come sciarpe.
Dove le hai comprate? A Gerusalemme.

È insospettita. Chiama un collega che mi chiama da parte mentre lei finisce la scansione della valigia.

Hai ricevuto cose da persone? No
Stai portando in Italia oggetti non tuoi? No
Hai fatto regali? Si, delle kefiah, delle ceramiche e della tahina. Ah, anche un libro.
Sei stato 15 giorni a Gerusalemme, non dirmi che non hai conosciuto nessuno? Conosco un ragazzo a Gerusalemme. È italiano e si chiama Marco.
Che fa a Gerusalemme?

Ed ecco l’errore. Fino a questo punto ero andato molto bene. Ma poi ho ceduto alla verità, una semplice:

– Si occupa di Cinema. L’ho conosciuto alla Mostra a Venezia. Fa riprese, video e cose come queste.

Vedo chiaramente nella mente dell’ufficiale addetto ai controlli dipanarsi l’equazione video=documentari=attivista. E quindi io sono amico di un’attivista.

Lascia la tua valigia lì e seguimi. Andiamo in una stanza piccola. C’è una panchina. Mi siedo e aspetto. Arriva uno più grande e ricomincia da come mi chiamo. Poi l’itinerario della visita. Poi tante altre domande. Poi se mi posso spogliare per una perquisizione. Resto in mutande davanti a loro. Sono tranquillo, sicuramente a disagio ma tranquillo. Non trovano nulla nelle mie tasche (chiaro direi, no?). Altre domande. A volte ripetono le stesse. Mi posso rivestire, ma non è finita.

E dove altro sei stato? Tel Aviv.
Ah, a fare che? Ho visto un museo d’arte e una mostra sui graffiti. E poi ho fatto anche del mare. E la sera ho girato per locali.

È qui che entra in ballo il serbo, il mio salvatore. Ma ora sono stanco, questa storia nella storia la racconterò a parte.

Ed io non vedo l’ora di continuare ad ascoltarlo.

Cliccando QUI, trovate tutti gli altri resoconti di quest’ultimo viaggio, vi consiglio di leggerli.

E di proseguire, poi, con la lettura dei post riguardanti cinema, sport e tutto quello che Raffaele sceglierà di raccontarvi.
Scoprirete che brilla della stessa luce di ogni tesoro che custodisce.

Ho sentito parlare per la prima volta di The Dark side of the sun per diretta voce di Carlo Hintermann, regista e motore primario del progetto (insieme al produttore, per Citrullo International, Daniele Villa), un paio d’anni fa.
Era alla ricerca di animatori tradizionali e io l’avevo indirizzato verso due colleghi.
In quel pranzo mi raccontò per filo e per segno le peripezie che stava attraversando per riuscire a realizzare un film in cui credeva con tutto sé stesso.
Mi parlò dei bambini di Camp Sundown, mi parlò del gran lavoro che Lorenzo Ceccotti – in arte LRNZ – stava facendo sull’animazione.
Mi parlò delle emittenti televisive che l’avevano opzionato e delle migliaia di difficoltà in cui si andava incontro realizzando un progetto di quella portata in (quasi) completa autogestione.

Ero fottuto.
Mi sembrava miracoloso che una roba simile venisse sviluppata da un’equipe totalmente italiana e, per di più, a pochi passi da casa mia.
In un piccolo studio dietro il Cinema Aquila, al Pigneto, una manciata di ragazzi stava sfidando il tempo, lavorando notte e giorno, mantenendo come benchmark qualitativo soltanto la piena soddisfazione per ogni scena realizzata. Un concetto quasi commovente se rapportato all’odierna animazione tradizionale italiana.
Aderii al progetto sposandone immediatamente la causa e, da quel momento, gli incontri con Carlo, Daniele e LRNZ – che allora conoscevo soltanto di fama – iniziarono a farsi più frequenti, fino a quando non divenni produttore associato del film.

Oggi, The Dark Side of the sun viene proiettato finalmente al pubblico nella cornice del Festival del Cinema di Roma.
Godetevi il trailer:

Da quel primo pranzo in via della Bufalotta sono successe cose divertenti – quando non proprio divertenti, talmente interessanti che sono servite ad unirci maggiormente sotto il profilo professionale ma soprattutto sotto quello umano –  ma ci saranno altri momenti per raccontarle.
Oggi vi mostro una chiacchierata avvenuta questa notte con Lorenzo, che – ve lo ricordo – del film è regista di tutto il versante animato, nonché direttore artistico e dell’animazione.

3 novembre 2011.
Ore 3.24

Io: Ao, finito adesso di lavorare. Sto a casa di Roberto e c’è pure Federico. Usciamo?
LRNZ: Ma ora?
Io: eh.

Ore 3.25
LRNZ: Magari! Il problema è che domani alle nove inizio un oryuken di interviste che finisce alle 7.  E devo ancora finire di firmare dumila carte che attestano che sono proprio io. Un usanza bizzarra del Festival del cinema di Roma! Se vuoi skype quando vuoi ma uscire vorrebbe dire la morte.
Io: Quindi se ti faccio tre domande che metto domattina sul blog per promuovere l’uscita del film, non mi defechi, vè?

Ore 3.26
LRNZ: Ti defeco eccome, ma ho la “e” rotta, quindi occhio ai refusi!


Io: Io avevo rotto la “q” e quindi capirai che la tastiera è rimasta così per mesi prima che facessi qualcosa. Comunque, domani sera il film viene proiettato. Il motivo per cui te la stai più facendo sotto qual è?

Ore 3.32
LRNZ: Farmela sotto, no. Certo ci sono dei problemi. In primis la qualità del mio lavoro, che sono perfettamente cosciente non essere all’altezza del progetto. Per quante toppe puoi mettere, per quanto ti puoi nascondere, certi limiti si vedono, e parecchio.
Non me ne faccio una colpa eh, sia chiaro. Ho fatto quello che potevo e lo sai bene. E’ che proprio non sono soddisfatto del risultato. Io vivo nel cercare di soddisfare delle mie pretese assurde di qualità impossibile, sempre.
Facile rimanere delusi su un progetto tanto più complesso di qualunque cosa abbia mai fatto in vita. Me la sono fatta sotto quando è stata fatta la prima proiezione a Camp Sundown, li sì, assolutamente.
Fallire in quella circostanza sarebbe stato irreparabile, sarei morto di vergogna. E invece tutti contenti.
Detto ciò, non mi preoccupa il giudizio di nessun altro, so già che a qualcuno piacerà, a qualcun altro no. E’ normale.

Ore 3.35
Io: Bhé, la convinzione di aver fatto tutto quel che si poteva mi sembra già un obiettivo complesso da raggiungere. Un miracolo, una chimera che dev’essere bello arrivare anche solo a sfiorare. Come si raggiunge un traguardo simile?

Ore 3.36
LRNZ: Senza mai dormire, credo.

Ore 3.38
Io: Bhé, la notte è mamma calma, amante stronza e amica fidata di chi fa il nostro lavoro. Come sono state le tue notti per The Dark Side of the Sun? Quello a cui assistevo io quando ti passavo a trovare nel piccolo studio che avevate allestito era la norma?

Ore 3.45
LRNZ: Oddio, sono onesto: una tragedia di norma. Abbiamo avuto una serie di scadenze quotidiane severe. Severissime.
Fra i 10 e i 15 secondi di animazione al giorno da consegnare. La notte ad un certo punto è diventata il sinonimo di un imbroglio collettivo, uno sporco trucco per riuscire a mantenere le promesse. Qualunque scadenza valutata per il giorno diventava rispettata solo per il fatto che c’era pure la notte disponibile. Le nottate si sono trasformate nel muro dove ti becchi con i compagni di classe per copiare i compiti prima di entrare a scuola.
Aggiungici il fatto che da gennaio a giugno non sono mai tornato a casa, ho molestato tutti gli amici in zona Pigneto (dove avevamo lo studio) occupando pavimenti, divani, lettiere per gatti.
Poi ho comprato un lettino pieghevole, sono ingrassato 8 chili e ho distrutto il mio metabolismo.
A quel punto è arrivata l’abnegazione monastica, il bucato a mano, in studio. Mutande appese ovunque.
Affacciarsi nudo la mattina dopo potenti docce che si svolgevano in un lavandino (piccolo).
Le signore ultra sessantenni dirimpettaie, di paesi matti sconosciuti, contentissime. Bello eh, ma un giorno di più e sarei morto.

Ore 3.48
Io: Abbiamo iniziato con l’arrivo, torniamo alla partenza: dove, come e quando hai sentito parlare per la prima volta di The Dark Side of the Sun?

Ore 3.58
LRNZ: Carlo Shalom Hintermann, diventato mio amico dopo diverse collaborazioni – mi vengono in mente h2o

chatzer

e Sid&Bob in Videoland

mi ha chiesto di valutare una collaborazione su un progetto lungo.
Mi ha descritto la cosa e siamo partiti con un idea molto diversa di quello che sarebbe poi stato il risultato finale. L’animazione doveva limitarsi ad un’integrazione al girato dove fosse possibile esaltare alcune scene di gioco all’aperto, altrimenti problematiche da rappresentare con le sole riprese live, proprio a causa dei severissimi limiti di illuminazione del set imposti dall’XP.
Ne è venuto fuori questo piccolo promo realizzato in 5 giorni:

Da lì in avanti il passo è stato breve. Sia io che Carlo ci siamo resi conto che era opportuno approfondire le possibilità di un’impostazione narrativa complessa come l’animazione, facendole riconoscere una dignità maggiore, che non restasse stretta nell’ambito dei piccoli stacchi integrativi, ma che venisse usata per raccontare un vero e proprio universo parlallelo autosufficiente.
E’ interessante ricordare che il film ha inizialmente ricevuto delle risposte tiepidine (eufemismo totale) da parte dei produttori televisivi, questo – lo ammetto – fece calare la mia attenzione sul progetto.
Carlo dal canto suo, non si lasciò abbattere e insistette talmente a lungo che quando tornò da me con una prima proposta di produzione da NHK
, io mi ero quasi dimenticato della cosa.
E’ stato uno shock realizzare che stavamo veramente per farlo. M’è cambiato tutto. Io sono un autarchico e di norma faccio 35 cose diversissime e contemporaneamente, in questo caso, per la prima volta, mi occupai sempre di 35 cose diversissime e contemporaneamente, focalizzandole però su un unico obiettivo. Occuparsi di tutti gli aspetti, curando ogni cosa dall’ideazione alla realizzazione di un solo e unico progetto è stato liberatorio, mai successo prima. Mi ha aperto la testa su quello che voglio fare nella vita.
Anzi COME lo voglio fare: concentrato.

Ore 4.01
LRNZ: Intanto ti segnalo che sono le 4.

Ore 4.02
Io: Lo dicevamo prima, no? Dormire mai! Mi spieghi perché si fanno mille cose? Un giorno mi rispondo dando la colpa al “precariato” italico che in un certo senso ci costringe a diversificare e declinare i nostri talenti all’inseguimento del posto che ci porta da una parte a mangiare, dall’altra a metterci alla prova su chi siamo e cosa vogliamo. Altre volte invece mi convinco abbia a che fare con una certa logorrea comunicativa ed emotiva che ci porta a volerci esprimere con mille voci per ottenere consensi e attenzioni diverse. Tu che saltelli tra i media come se lavorassi con la riproduzione casuale di iTunes attivata, perché lo fai?

Ore 4.10
LRNZ: Il discorso che fai è intelligente. Ed è importante.
Lo è stato ancora di piu’ negli ultimi anni ’90 dove tutti si sono inventati un mestiere grazie al digitale.
Ma per me non è così. Ogni cosa ha il suo motivo. Ti faccio un esempio. Suonare è una cosa che faccio perchè mi fa stare bene. Mi diverte, mi rilassa, è come massaggiarsi il cervello. Cosa che quando disegno non avviene affatto.
Entro ancora più nel dettaglio: quando disegno un’illustrazione sto cercando di imbrigliare un’istante o un costrutto epigrammatico, o epico/titanico come vuoi tu, in cui il prima e il dopo non sono rilevanti. Ho un problema da risolvere ecco, tutt’altro che rilassante.
Quando faccio i fumetti, invece, il prima e il dopo sono l’oggetto delle mie attenzioni.
In un film il movimento, l’immersione, la musica, la luce diventano il motivo di impegnarsi e non lo strumento, sono l’obiettivo.
So perfettamente che spendersi su tanti fronti è un male. Non si fa bene nulla, forse. Però è anche vero che ogni esperienza in un medium diverso genera una maggiore consapevolezza dei pregi e dei difetti di tutti gli altri. Vado dove vedo la possibilità di procurarmi la bellezza, fosse pure da solo: a quel motto che ognuno è artefice del suo destino io ci credo proprio.
Non ci credo nella volontà lucida, ma intendo dire che bisogna essere capaci di catturare la vita che costantemente ci attraversa, e distillarla come un altoforno. Alcune parti finiscono piu’ in alto altre più in basso, ognuna deve incontrare il suo alloggio migliore, nel migliore dei medium se sei un artista.
Dovrebbe essre così perlomeno. Poi riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Non so se si capisce.

Ore 4.15
Io: Si capisce decisamente. E a proposito, sei uno dei pochi che conosco che ritiene impensabile non coniugare l’aspetto artistico con quello produttivo.
Mi parli del sistema che hai messo su per realizzare le animazioni del film? A chi ti ispiravi, cosa volevi ottenere e come l’hai messo in pratica?

Ore 4.26
LRNZ: Ho passato due mesi a definire ogni singolo aspetto della pipeline tecnica.
La tecnica è il 99% del mio lavoro. Definire il medium e come usarlo è tutt’uno con l’atto di creare materialmente la cosa.
La mia esperienza con i videogiochi e l’interattivo in genere, essendo partita in tempi remoti con limitazioni pazzesche, mi ha fatto allenare la parte del cervello in cui si risolvono i problemi e si fa in modo che quella informazione che tanto ti torchia, in qualche modo, riesca comunque a passare. Costi quel che costi.
Tim Follin con un cicalino dello spectrum zx48k (quello monocorde che hanno gli orologi da polso per capirci) faceva cose così:

S’è inventato un sistema di “retini” audio per avere la polifonia con uno strumento che è tecnicamente incapace di suonare due cose contemporaneamente.
Un bit. Bianco o nero. Suonare o stare zitti.
Eppure il pezzo che t’ho allegato è un brano prog anni ’70 con mille membri della band tutti a fare la loro cosa.
Se hai otto anni anni quando scopri che quel ragazzino inglese di sedici si è spinto così in la’ col cervello (e ti ricordo che all’epoca: no internet, no documentazione. Dalla campagna ha inventato un nuovo modo di fare musica) è impossibile non appassionarsi alla questione tecnica nell’arte.
Ora mi piace inventarmi un sistema espressivo da zero ogni volta che devo esprimere una cosa nuova. Ma è proprio logico se ci pensi.
Perché usare sempre lostesso sitema, lo stesso codice se gli obiettivi cambiano? Amo l’animazione procedurale, i sistemi di automatizzazione del digitale. Ma per questo film io ho scelto di abbracciare l’animazione limitata giapponese, ci ho provato per lo meno. Dove col minimo sforzo si ottiene il massimo. Dove il montaggio, ellittico, fa lavorare la testa dello spettatore.
Makoto Shinkai
è stato un punto di riferimento importantissimo. Dosare il segnale con una cura maniacale al risparmio delle energie è stato come fare una maratona in cui ogni muscolo devi amministrarlo per avere la massima resistenza nel tempo.
E’ un arte marziale quella di usare il minimo sforzo per ottenere il massimo danno. Senza perdere di vista gli obiettivi poi.
Chiaro che questo film poteva essere molto meno complesso figurativamente, ma sarebbe venuto meno ai suoi obiettivi (vedi la risposta di prima). La tecnica ad ogni modo è stata semplice. Photoshop + after effects per il grosso del lavoro, con flash che ci dava una timeline con un controllo maggiore sul foglio macchina, comodissimo per fare i rough. Tutto rigorosamente Paperless per poter passare dallo storyboard al definitivo senza soffrire mai dei passaggi tra supporti diversi.
Lo studio iniziale E’ lo stesso file che diverrà il definitivo. La qualità del segno sul singolo disegno (photoshop rimane uno strumento fenomenale per il disegno e la customizzazione dei brush), e la facilità di integrazione e compositing grazie ad After FX, Con un occhio di riguardo alla qualità degli sfondi, sono stati gli altri motivi di una soluzione simile.
Ripeto, massimo danno col minimo sforzo (quando dico minimo intendo = senza fallire pur avendo risorse limitatissime).
Sono stanco e ho la sveglia tra tre ore, ma se riesci a sistemarlo sono felice.

Alla fine c’è stato poco da sistemare e quello che rimane sono le parole di Lorenzo.
Preziose ogni giorno, da rileggere e tatuarsi per coglierne a fondo ogni singolo aspetto.

La prossima volta leggerete anche quelle di Carlo e Daniele, nel frattempo, inseguiteli, contattateli, fate il possibile per non perdere il loro lavoro.

Qualche giorno fa, sulla mia bacheca Fb, compare il seguente messaggio: “Spero tanto che gradirai l’omaggio”, firmato da Syd Chino Barrett, un lettore di John Doe col quale ogni tanto ho scambiato due chiacchiere.
Allegato, c’era questo video:

Inutile dire che l’inaspettato omaggio mi stupì non poco.
Avendo a disposizione soltanto una semplice immagine promozionale, Syd era riuscito a cogliere in pieno lo spirito di un teaser e a musicarlo in modo molto professionale.

Soddisfatto del risultato, e del positivo riscontro, Syd ha “animato” e musicato con notevoli dosi di ingegno, anche gli altri tre poster.
Ecco il risultato:

E a questo punto, oltre a ringraziarlo per il gran lavoro svolto, gli ho chiesto qualcosa in più sulla sua attività ed ecco aprirsi il vaso di pandora.
Syd mi gira una serie di link legati al progetto musicale cui dedica anima e corpo.

Eccoli anche per voi: cliccando QUI potrete saperne di più anche voi perché finirete direttamente sulla pagina ufficiale.
QUI invece c’è la pagina Facebook.
E QUI potrete ascoltarvi il disco precedente.

Mi racconta che: “Il progetto QualooD fu fondato da chino.K e Kine nel 2008, dopo essersi conosciuti durante un evento multisensoriale di musica elettronica, installazioni audio/video del circuito undeground romano. Nascono con l’intento di creare una sorta di fusione tra le musiche ambient-dark di chino.K e i ritmi spezzati e sincopati di Kine. Dal 2009 vengono affiancati alle tastiere e sintetizzatori da Alaska, elemento fondamentale per la parte melodica, che influenzerà il sound del gruppo nelle loro ultime produzioni. All’attivo un EP (Alphabetic Sound Code) e un disco (The 14’s Soundtrack) che ha riscosso un discreto successo sul web superando i 5.000 download gratuiti. Dopo più di un anno di lavorazione finalmente è pronto il nuovo disco (anche questo completamente autoprodotto), “A Nice Chilled Plate of Atmosperic Beats”, la cui uscita è prevista per Gennaio in diversi formati gratuiti e non, infatti per questo disco è prevista anche la stampa su CD, anche se è un supporto che sta andando un pò in disuso.”

E conclude il tutto scrivendomi: “Essendo pronto il disco nuovo, mi sto buttando da solo in diversi progetti musicali e stili differenti, cercando le più svariate collaborazioni con altri musicisti, continuando ad utilizzare comunque il nome QualooD, che altri non è che un contenitore da riempire con nuovi elementi. E da questo è l’idea di fare un teaser partendo da un poster di John Doe, postato sul tuo blog, anche se qui non mi sono avvalso della collaborazione di altre persone, sfruttando le pochissime conoscenze in campo di video editing, ma il DIY è il concetto che sta alla base di tutte le mie conoscenze, e in alcune cose purtroppo si vede fin troppo che manca la professionalità.”

E io in queste parole, ci ritrovo belle similitudini con l’approccio di alcune tra le persone più geniali con cui ho avuto la fortuna di lavorare.
In bocca al lupo, Syd.

Mettiamo che mi venga voglia di leggere un fumetto ed esca a comprarlo.
Ho un mare di possibilità.

Posso infilarmi in una fumetteria e trovarne migliaia.
Posso entrare in una Feltrinelli o in una Fnac e cercare il settore dedicato.
Li trovo persino nei caffé letterari di San Lorenzo.
Anche fosse domenica e trovassi tutto chiuso, potrei comodamente scaricarmeli e leggerli su un tablet.

Comoda la vita del giovine del 2011.
Fino a qualche anno fa i fumetti li vendevano soltanto in edicola (si, proprio come quella lì in alto disegnata da Flaviano).

Motivo per cui, per uno come me, l’edicola è un santuario da visitare in qualunque luogo e qualunque ora con la gioia estatica del pellegrino che chiede la grazia, e l’edicolante è l’altissimo sacerdote a cui rivolgersi con devozione e stima.
Lui, unico custode della verità contenuta nella Risposta.
Lui che può aprirti le porte del paradiso del “Si, è uscito oggi!” o gettarti nelle viscere dell’inferno del “Non è uscito, passa domani.”

Questo è il motivo per cui, io, nei riguardi dei giornalai, ho sempre avuto un atteggiamento di reverenza e ammirazione.

E la vita mi ha ripagato facendomene incontrare di ragguardevoli.


A partire da Gianfranco, dell’edicola della natìa Marino, che in caso tu non fossi stato allineato con la sua ironia, era capace di trasformare anche la semplice esperienza dell’acquisto di un quaderno, in un incubo.

“Gianfrà mi servirebbe un quaderno.”
“A righe o a quadretti?”
“A righe”
“Orizzontali o verticali?”
“Gianfrà, sto di corsa.”
“Orizzontali o verticali?”
“Orizzontali.”
“Già scritto o da scrivere?”

E così via per una decina di minuti buoni e per qualsiasi altra cosa di cui tu avessi avuto bisogno.
Motivo per cui mia sorella allungava di quasi un chilometro per andare in un’altra edicola, mentre io già lo amavo.
E gli ricambiavo quotidianamente il supplizio chiedendogli tutti i pomeriggi se fosse uscito Tutto Zagor?” anche se mancava ancora un mese all’uscita.
Lui non se la prendeva eccessivamente e anzi, si prodigava nel vendere, senza tenersi alcuna percentuale, ben tutte e cinque le copie di SuperLuke! Il fumetto che mi scrivevo, disegnavo, incollavo da solo (ripetendo la lavorazione per tutte e cinque le singole copie).

Nel mio periodo a Latina (brrr)  c’era questo giornalaio che mentre mi faceva il conto, ogni volta mi indicava di sottecchi e con un’abile combo di occhio e mento, le tipe presenti nell’edicola.
Che, nel caso in cui l’edicola fosse stata di un centinaio di metri quadri e divisa da scaffali e librerie avrebbe anche avuto un senso, ma siccome era un luogo ameno e minuscolo, l’unico risultato che otteneva era che la tipa se ne accorgeva e guardava malissimo sia me che lui.

Tornato a Roma, a monteverde, c’era “Ma’ Allora”, l’edicolante che mi teneva da parte le riviste e i fumetti di un altro, incazzandosi con me che non li ritiravo mai.

“Le dico che io non lo leggo Noi Pescatori!”
“Mà Allora perché me lo fa mettere da parte!”
“Ma non le ho mai chiesto di mettermelo da parte!”
“Mà Allora dice che me lo sono sognato?”
“O forse mi confonde con qualcun altro!”
“Mà Allora con chi la confondo? Lo legge solo lei quel giornale!”
“Non è vero, non lo leggo!”
“Mà Allora se ha smesso me lo dica che non glielo tengo più!”

Poi è arrivato il turno del ciccione burbero dell’edicola sull’appia che si lamentava quotidianamente, fumando come un turco, delle pessime condizioni della distribuzione e, di conseguenza, dell’Italia tutta.
La sua edicola aperta 24 ore su 24 (con l’egiziano che faceva il turno di notte, addormentandosi e facendosi depredare di tutti i porno e i quattroruote esposti a destra) è stato probabilmente il motivo principale per cui avevo accettato di prendere quella casa a San Giovanni.

Nessuno di loro, però, regge il confronto col mio edicolante di fiducia qui in via della Bufalotta.
Il mestiere di giornalaio per lui è chiaramente solo una copertura perché lui in realtà è un fico e lavora come modello per i fotoromanzi di Grand Hotel (sì, esce ancora).
Non gli fanno fare spesso il protagonista e questa è la dimostrazione, dico io, che quelli di Grand Hotel. non capiscono una sega.
Egli buca.

Espone, accuratamente affiancati e con una cura che neanche Ghezzi e Giusti nei loro migliori blog, i calendari del duce tutto impettito accanto agli arroganti tettoni di Victoria Silvstedt e delle Studentesse laziali (la più giovane è chiaramente Settembre e ha un’età stimabile intorno ai quarantasette).
Mi saluta sempre chiamandomi “Grande!” ma credo che sia una mera constatazione dei fatti e non un attestato di stima – per quanto si sia premurato di ripetermi almeno tre volte che su John Doe sono stato disegnato troppo grasso – ma il suo vero super potere lo sprigiona al momento del pagamento.
Mi dice la cifra che gli devo accostandola sempre ad una battuta che ironizza sulla completa – e giusta – assenza di un trattamento di favore.
Mettiamo che io debba pagare trenta euro, lui mi dirà una di queste frasi:

“So’ trenta euro co’ tutta ‘a busta!”

“Solo perché sei te, famo trenta!”

“Sarebbero cinquanta ma visto che c’hai la ragazza bona famo trenta!”

“Guarda pe’ stavolta famo trenta ma non te ce abituà!”

E così via per ogni possibile declinazione.

Per cui, quando stamattina m’ha detto:

“So’ ventisei euro e cinquanta, compresi i carzini!”

io ho fatto la mia solita risatina (stupendomi, sotto sotto, per la sua abilità nell’aver individuato una variazione più divertente del solito) e l’ho salutato andandomene tranquillamente in studio.

Una volta arrivato ho aperto la busta.
Ho tirato fuori i fumetti.
Le riviste.
La nuova statuina della collana dei Supereroi Marvel.

E poi.

Questi.

Credo facciano abbastanza curriculum.

La ladra.

Il ragazzino col sorcio.

La leggenda.

cliccateli, ingranditeli, ammirateli, stampateli.

John Doe #13 – nuova serie –
– “APRI GLI OCCHI, JOHN.” –

Soggetto e sceneggiatura del sottoscritto.
Disegni di Federico Rossi Edrighi & Marco Marini.
Supervisione e salvezza: Roberto Recchioni.
Protezione dall’alto: Lorenzo Bartoli.
Pubblicato in extremis da: Editoriale Aurea.

L’ho preso ieri dritto dritto dalla redazione e, come potete vedere dalla foto

me lo sono sparato prima di addormentarmi.
Prima volta che lo faccio con una cosa mia.

Strano.

Dovrebbe uscire, ovunque, oggi.
Lo riconoscerete da questa splendida copertina dove il concetto di amore e morte assume una nuova ed esaltante raffigurazione.

Come al solito, opera del sommo De Cubellis.

Buona lettura!

P.S.
Che il numero horror sia il 13 e che esca esattamente sotto Halloween lascia ipotizzare persino una sorta di pianificazione, nevvero?

JOHN DOE #13 – nuova serie –

– “APRI GLI OCCHI, JOHN.” –

Primo di quattro poster promozionali.
I prossimi tre saranno incentrati sugli altri personaggi che compariranno, a sorpresa, nella storia.

Intanto, iniziate a rifarvi gli occhi sbirciando in anteprima lo splendido lavoro fatto da Federico & Marco.

Cliccate, e shcaricate! Cliccate e shcaricate!
Bravi i giovinotte, che shcarican’!

Il cinema è il multisala presente all’interno del centro commerciale Porte di Roma.
Un cinema con dei posti scomodi, che fa iniziare il film 35 minuti esatti dopo l’orario scritto sul biglietto e popolato da una fauna quasi sempre sorprendente.
Difficile dimenticare il party spontaneo che venne a crearsi durante la proiezione di Antichrist di Von Trier, in cui il tizio seduto in f-9 urlava una battuta alla quale rispondeva il tale seduto in m-4 e tutta la fila “i” rideva a crepapelle mentre il povero Dafoe si giocava – letteralmente – le palle.
Appena entrati in sala, quindi, il giochino è sempre quello di trovare l’errore.

E’ facile individuarli, sono la coppia di genitori che ha portato i figli di 6 anni a vedere Piranha 3d convinti che fosse il nuovo film della disney “Pirati 3d”.
Sono il gruppo di sedicenni assatanate di Brad Pitt (esistono ancora, sono a Porte di Roma!) con le scritte in faccia e i cellulari pronti per sperare di riprenderlo a torso nudo durante la proiezione di Tree of life.
Sono la coppietta che era seduta accanto a me l’altra sera.

“This must be the place” mi faceva bel sangue sin da quando lessi la sinossi online e iniziai a vedere le prime scene. L’aspettativa alle stelle.
Provo a prenotare due posti per vederlo in lingua originale. Impossibile. Tutto pieno.
Provo a ripiegare su un cinema di quelli testati. Impossibile. Si resta in studio fino a troppo tardi.

“Guarda, lo danno anche a Porte di Roma.”

mh.

ok.

Entriamo venticinque minuti dopo l’orario che dice Trovacinema,  la sala è piena e già del tutto esausta dalle pubblicità della tizia che a casa si toglie gli occhiali perché è meglio non vedere l’uomo che ha sposato (ne riparleremo) e della pizzeria che ti prepara tutto in cinque minuti.
Chiediamo permesso, permesso, permesso e dobbiamo ripeterlo forte perché i due seduti subito affianco ai nostri posti pomiciano duro, stimolati dalla Tappezzeria Perilli che questo mese fa uno sconto del 60% su tutti i tappeti persiani che vengono direttamente dall’oriente.

Già promettono bene:
Lei, ossigenata figlia della tuscolana.
Lui, poco romanzo, pochissimo criminale ma gel come se piovesse e profumo di quelli allegati al corriere dello sport.
Nel numero speciale dedicato alle coppe vinte dalla Juve.

Sulle loro gambe, un kit di sopravvivenza all’apocalisse nucleare.
Conto: numero 1 secchio gigante di popcorn, numero 2 barattoli di coca cola da un litro, numero 1 confezioni di m&m’s con la nocciolina (non come quelle orrende, nella confezione marrone, che sono state recapitate a me!), numero 1 hot dog, numero 1 sacchetto di Fonzie.

Stima.

Ah, lei ad un rapido sondaggio risulta: “bella”. Lui? “Anche”.

Durante il film si distinguono per due momenti:

– Alla prima apparizione di Sean Penn, Lui dice: “Ao, pare tu zia!” che non è tanto per la frase in sé ma per quanto ne hanno riso e ne hanno sottolineato le somiglianze con questa povera donna per tutto – TUTTO – il film.

– mentre Sean Penn suona la chitarra per far cantare il bimbo – forse il momento più dolce di tutto il film – Lei chiede a gran voce: “ahahha ma perché ‘sti regazzini americani so’ tutti ciccioni?” e Lui, svuotando il pacchetto di fonzie direttamente nella bocca,: “Perché se magnano ‘o schifo!”

Ma il motivo per cui regnano incontrastati al primo posto della mia top 5 di personaggi incontrati al cinema, avviene tutto dopo pochi secondi che si sono spente le luci.

Fate attenzione perché è difficile assistere a qualcosa di più eclatante.

Dal buio, Lei: “Ma che film se semo venuti a vedè?”
Lui: “Quello de quello che ha fatto quello che te piace.”

In quell’istante appare il logo della Medusa, che ha distribuito il film.
Questo logo qui che avete visto decine di volte:

E lei esclama: “MEEEDUSA??? Ma ‘sto film l’avemo visto!”

Io sgrano gli occhi.

Lui: “Ma se è nuovo! E’ uscito mò!”

Lei: “No, no, “Medusa”, l’avemo visto su Sky! Te ricordi? E’ quello de quello col cavallo alato, che je stacca la capoccia!”

E io in quel momento mi volto al ralenty.
Li guardo.

E come nel finale di 2001 Odissea nello Spazio, acquisisco tutta la conoscenza del mondo.

Grazie.

—-

Stellette? 10 su 10

Corollario.

18 ottobre 2011 da Mauro

http://www.youtube.com/watch?v=-1CXMAAdAaU&feature=feedu

Questa, la prima reazione dei manifestanti, al passaggio degli incappucciati.

La seconda è stata tentare di scacciarli fisicamente, ma con gente armata di spranghe e coperta dai caschi, è difficile mettersi sullo stesso piano.

La terza reazione: rivolgersi alle forze dell’ordine, chiedendogli di fermarli mentre gli sfilavano davanti, ed evitando così di farli arrivare sul piazzale di San Giovanni, dove già avevano iniziato a fare i danni.
Nessuna risposta, solo sguardi fissi nel vuoto e richiesta di allontanarci.

Probabilmente per questo, sono stati premiati.

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