Esco di casa alle nove per andare a diventare più povero in posta.
Nel cielo nessuna traccia della neve che verrà, solo una fastidiosa e grigia acquetta londinese che dice e non dice, ed io sono contento.
Uscire prestino mi coccola nell’illusione di perdere meno tempo del solito, quindi entro in edicola.
Mentre scorro tra indice e medio le uscite giornaliere, gioendo della visione del nuovo albo di Zagor, ecco giungere un amico dell’edicolante che lo invita a prendere un caffè al bar.
Il ligio negoziante risponde che non può lasciare l’edicola incustodita, ma che comunque ha la macchinetta del Nespresso e il caffè possono prenderlo lì.
L’amico insiste per il bar, lui insiste per restare, ma ecco che l’amico, incurante della mia presenza, rivela le sue reali motivazioni. “Io devo comunque andare al bar, perché c’hai presente quella mia collega – qui abbassa la voce – zoccola – la rialza – di cui ti ho parlato?” “Sì, sì, c’ho presente.” “Ecco… quella… co’ quella abbiamo fatto una specie di scommessa. Se io uscivo a prenderle il cappuccino al bar, lei mi faceva – abbassa TANTISSIMO la voce – una pompa – la rialza – nel magazzino.” “Bello! Ma non mi sembra una scommessa.” Dice l’edicolante con una lucidità commovente.
I due ridono, parlottano e alla fine l’amico va verso il bar a conquistarsi la sua felicità che, fosse per me, sarebbe chiara e col cacao sotto, tra il latte e il caffé.
Pago il mio fumetto stando ben attento a non incrociare lo sguardo col giornalaio, e vado verso la posta.
C’è pochissima fila, bene. Sono E-26 e stanno ad E-23, ottimo.
Compilo gli arroganti bonifici ed è già il mio turno.
La tizia mi parla con un accento marchigiano che pensavo fosse copyright Rainbow e questo mi fa sentire a casa.
Prende i miei moduli, inizia ad inserire i dati nel computer e proprio in quel momento il fato decide di benedirmi ricomponendo i pezzi del puzzle davanti ai miei occhi.
L’amico dell’edicolante, bagnato di pioggia, entra sicuro dietro gli sportelli, si toglie la giacca e porge il cappuccino verso la sua collega che sta gestendo i miei conti.
Lei gli sorride, ringraziandolo. “Grazie a te!” Risponde lui con un sorriso più orrendo di quello che già state immaginando, ma che lei sembra comunque apprezzare.
Poi, prendendo il cappuccino con entrambe le mani per scaldarsele, torna a voltarsi verso di me. “Bonifico o postagiro?”
Dopo esser stato presentato in anteprima al festival del cinema di Venezia, esce finalmente nelle sale italiane il film a cui ho avuto l’onore di assegnare (in ex aequo con Melancholia, a dire il vero) il prestigioso M.I.L.F.(Movies I Liked Furiously) del 2011.
Quinto film dello svedese Thomas Alfredson, che dopo il successo di quel piccolo oggettino di culto che è stato Lasciami entrare, è riuscito a convincere produttori inglesi ed americani a sganciare il danaro per fargli fare le cose in grande, Tinker Tailor Soldier Spy è uno spy-thriller modernissimo e allo stesso tempo completamente radicato nella tradizione ma soprattutto, una lettura personalissima del classico letterario di John LeCarré.
Grazie al fido Hoyte Van Hoytema alla fotografia e benedetto da un cast stellare diretto con estrema misura, Alfredson lascia il suo occhio libero di raccontarci gli intrighi e le mezze verità nell’allegra contrada delle spie che scorrazzavano per l’Europa negli anni della guerra fredda.
La trama
1973, in piena guerra fredda, George Smiley, un ex agente dell’MI6 in semi-pensionamento, viene incaricato di scovare una “talpa” che si annida tra i membri dei servizi segreti britannici, che si sospetta essere una spia sovietica.
qui estrapolata biecamente da Wiki, è – per il vostro amichevole Mauro di quartiere – quanto di più simile possa esserci ad un calcione nelle palle.
Summa assoluta di tutto ciò di cui non potrebbe fregarmene meno, mausoleo della noia e della stanchezza, eppure. Eppure.
Eppure Alfredson riesce nell’intento di spostare ancora più in là l’asticella della supremazia del Come rispetto al Cosa fulminando lo spettatore con un incipit che riesce ad essere lento, dinamico, elegante, inaspettato, lacerante.
Dieci minuti di storia del cinema ai quali ne seguono altri 110 in cui il livello non scende mai.
Se i piani stretti e gli interni fotografati dall’esterno in cui si muovono i personaggi, sono omaggio e rimando alla serie televisiva omonima del 1979 che adattò il romanzo per il pubblico televisivo, i leggeri carrelli laterali e i dolly appena accennati sono il compromesso europeo che la riconcilia alla scuola americana ricordandoci quanto le due hanno in comune nel momento in cui vengono palpeggiate da mani che conoscono.
Tra gli attori, baciamo le mani ad un Gary Oldman in stato di grazia, finalmente libero dalla prigionia di Nolan, Colin Firth fresco fresco di oscar con il Discorso del Re, nonché l’adorato Cumberbatch che riesce a guadagnarsi la pagnotta anche con i capelli conciati in questo modo:
Menzione d’onore all’immensa patata Amanda Fairbank-Hynes, il cui nome viene praticamente citato soltanto nei bassifondi di imdb ma che Martina ha fotografato per voi subito dopo la conferenza stampa per rasserenarvi in queste grigie giornate invernali:
Ma delle opinioni rilasciate da regista e interpreti in risposta alle domande dei giornalisti, ne parliamo domani.
Per il momento, un’ultima nota: il pittoresco titolo originale Tinker, tailor, soldier, Spy, – oltre a citare i nomi in codice dei personaggi principali del film, è un rimando ad una famosa filastrocca tradizionale anglosassone che recitavano le bambine in un gioco che serviva a predire il loro futuro.
Eccola nella versione integrale:
E finisce dove comincia.
Qui a Città del Messico mancano quattro ore al capodanno e ne sono passate già tre da quando ho sentito i miei che brindavano e mi facevano gli auguri.
Quello che è il mio futuro, per voi è il passato, per cui non fatevi problemi e spoilerate a manetta: com’è il 2012 per voi che già lo state vivendo?
E’ comparso nei cieli il gigantesco conto alla rovescia che ci traghetterà verso una fine, verso un inizio, o verso un – poco narrativo ma comunque soddisfacente – uguale?
All’alba del 2001, Warren Ellis comunicò tutto il suo dispiacere per l’assoluta mancanza di monoliti neri ai membri della sua mailing list.
Quest’anno non ha una mailing list (o se ce l’ha, io non lo so). L’anno prossimo? Gioirà? Tornerà a lamentarsi?
Io mi accontenterei se riprendesse a scrivere Transmetropolitan.
La Fine & l’Inizio sarà il tormentone che nel 2012 ci verrà fornito in tutte le salse.
L’alta moda coniugherà baratri high tech & pelli di tigri dai denti a sciabola nella linea Primitive Wi-Fi, i ristoranti di grido spopoleranno con le bouirgugnonne di sashimi alla pietra focaia, mentre nell’ambito degli immobili tornerà alla ribalta il fascino discreto della caverna, unica locazione superiore ai 22 metri quadri che potremo permetterci di acquistare senza l’aiuto dei nostri nipoti.
E quando anche questa Fine darà via all’ennesimo nuovo Inizio staremo lì a chiederci cosa diavolo ci faremo con tutte quelle VHS ora che sono arrivati i dvd?
Venderemo al mercatino dell’usato ciò che eravamo piuttosto che nasconderci in cantina e saremo pronti ad abbracciare ciò che diverremo, fottuti per l’eternità dal ritornello del nulla che nasce o muore perché tutto è trasformazione e divenire.
Il che, in termini scientifici/naturalistici, può essere splendidamente commovente ma nel mer(aviglios)o pragmatismo umano è difficile trovarvi un’utilità diversa da un rassicurante alibi.
Caro 2012,
io voglio, voglio, voglio, voglio, che ciò che è giusto che finisca, finisca per davvero e non torni camuffato con colori diversi, che ci impediscano di riconoscerlo per quello che realmente è.
Voglio, voglio, voglio, voglio che il Nuovo, se c’è, odori di neonato e gridi forte diventando rosso in faccia e stringendo i pugni.
Voglio, voglio, voglio, voglio che i punti portino a capo due righe più in alto e che questa dittatura dei puntini di sospensione venga debellata con una serie di colpi di stato che ricordino a tutti che i dubbi servono, ma solo se si è alla ricerca, ferrea, del vero. Non per prendere tempo.
Voglio che i nuovi inizi non siano costretti a sopportare il peso di ciò che si è concluso, e che tra loro ci sia una distinzione netta.
Perché nella fine deve esserci la stessa pace dell’inizio e questo può avvenire soltanto sapendoli distinguere nettamente.
Senza il rischio di confonderli.
Perché se nulla nasce e nulla finisce, tutto si rimanda. O peggio, si accetta.
Caro 2012,
benvenuto.
Prenditi da me tutto quello che puoi, io farò lo stesso.
Io cameriere, lei decisamente carina.
Plana nel ristorante con tutto un carico di amici per festeggiare l’inaugurazione del suo negozio di candele e, per ultimo, entra il suo uomo.
Lo odio e tento di dimostrarglielo chiaramente per i primi venti minuti in cui è seduto a tavola, poi apre bocca e mi fotte.
Capisco che è il direttore tecnico di un’azienda che si occupa di effetti visivi ed ogni cosa che dice è maledettamente nelle mie corde.
Mi fa ridere.
Non si prende sul serio.
E parla come il custode di tutto il sapere del mondo senza fartelo pesare nemmeno per un istante.
Colpo di fulmine.
Lei, e tutti gli altri spariscono immediatamente dal mio raggio visivo e mi è chiaro che se voglio veramente dimostrare a me stesso di essere un uomo, devo fargli capire che sono dalla sua parte. Che gareggiamo nello stesso campionato.
Non devo lasciare nulla al caso e l’attenzione per il dettaglio dev’essere massima.
Tutto, dalle inflessioni vocali, alla posa, alla forma che diventa contenuto, può essermi utile per conquistarlo, per cui lo annuso con attenzione e mi aggiro restringendo ogni volta di più il diametro del cerchio.
Sono un essere mitologico metà squalo, metà gambette di Will Smith che interpreta Alì e salta da una parte del ring mentre studia l’avversario per sorprenderlo con la sua mossa. Faccio lo stesso.
Lo colpisco raddoppiando la porzione di polpette taleggio e cognac.
Tre mesi dopo smetto di lavorare nel ristorante e sono in forze nel reparto creativo dell’Animantis.
(sì, avevo quei capelli lì. Smettete di ridere. Ho detto smettete di ridere. Fottetevi.)
Due anni dopo giriamo di società in società in rappresentanza di un gruppo con le palle decisamente quadre.
Tre anni dopo siamo in pianta stabile in Direct2Brain e viviamo insieme già da un po’, lui, io, quell’altro.
Cinque anni dopo, i nostri percorsi lavorativi e di vita si dividono ma quando macini tutti quei chilometri insieme non ti dividi mai.
Dopo aver condiviso il set e le notti in produzione, i viaggi, gli scazzi, l’ sagn’ della nonna di Zeno, e persino i Dhamm (brrr).
Quando ti arrendi e smetti di arrampicarti per la montagna insieme agli altri per la quantità di alcool che avete in corpo e non riuscite comunque a smettere di ridere.
Per i discorsi che diventano fatti e per le donne che abbiamo guardato e amato mentre ci chiedevamo l’un l’altro “tu che ne pensi?” e per tutte le volte che ci siamo ritrovati in macchina a girare per Latina a riflettere per ore su quale fosse il motivo per cui volevamo bene a Zeno senza riuscire a trovarne neanche uno e continuare, nonostante tutto, a volergliene.
Insomma, quando si diventa fratelli difficile smettere. E dei fratelli è bello parlarne e condividerli, soprattutto quando fanno parte di quel ristrettissimo manipolo di pazzi a cui dobbiamo tutto quel poco di buono che la computer grafica italiana è riuscita ad ottenere da – ormai – quasi trent’anni a questa parte.
Mauro: Hai cominciato in un’Italia in cui parole come Computer Grafica erano appannaggio di una manciata di eletti con qualche problema di interazione sociale e mistero per tutto il resto della popolazione. Cosa succedeva nelle primitive lande della cgi negli splendidi anni ’80?’
Francesco: – In quegli anni la computer grafica era come “l’isola che non c’è” : potevi accederci soltanto se eri in contatto con “il fanciullo dentro di noi” e sicuramente non era possibile intenderla come un lavoro ma più che altro come un mondo che, più che fantastico, non chiedeva altro che essere esplorato. Inizialmente da soli e poi insieme ad altri… bambini. Servirà qualche anno affinché termini come computer grafica iniziarono ad essere diffusi grazie all’arrivo nel mercato di riviste come Computer Gazzette (prima Commodore Gazzette) e poi appunto “Computer Grafica” di Antonio de Lorenzo. Ma la forza di questo approccio artistico sarebbe riuscita a imporsi nell’immaginario collettivo soltanto molti anni dopo per cui, agli occhi degli altri esseri umani, non eravamo altro che ragazzini che giocavano col computer. Un piccolo branco di sporchi nerd che invece di uscire a giocare a pallone, si chiudeva in casa a cercare di far volare una mongolfiera attraverso il linguaggio BASIC.
Come vi è saltato in mente di lanciarvi verso un mondo che, per l’appunto, ancora non esisteva?
Per trovare un motivo reale dovrei perdermi in una serie di dietrologie da cui non ne usciamo più, quindi te la butto sulle affinità elettive.
Anche se non ci eravamo mai visti era facile riconoscerci tra di noi perché la strada che stavamo percorrendo passava per gli stessi elementi in comune.
Chi ha assistito alla nascita dei videogame spendendo le poche lire che aveva (o “gettoni”) per Breakout, Asteroids, Space Invaders nel bar sotto casa, non poteva non desiderare ardentemente di avere consolle evolute come “l’Intellevision”
e similari e, soprattutto, non poteva non andare fuori di testa per i primi home computer come il Commodore Vic20 a 199 mila lire (escluso il lettore di cassette!!!).
Qualcuno di noi, riusciva a farselo regalare puntando sull’alto valore interiore di un passaggio come la prima comunione, mentre i più fortunati riuscivano ad ottenerlo per natale. Io riuscii a raggirare mio padre puntando strategicamente su due punti deboli: lo studio e la mamma. Lo convinsi dicendogli che “potevo memorizzarci sopra le ricette di cucina di mia madre” e promettendogli che lo avrei “usato per studiare”.
Chiaramente senza avere la benché minima idea di come – quelle due cose – ci si potessero fare. Quello che volevamo tutti era soltanto giocarci, ma a differenza della consolle, col compiuter ci si poteva anche programmare.
Essere pionieri in un campo dimostra di possedere una enorme capacità di analisi del contesto in cui si vive e di come quel contesto si trasformerà negli anni successivi.
Essere pionieri IN ITALIA vuol dire essere del tutto fuori di testa. Chi eravate?
Credo che a volte ti ritrovi ad essere un pioniere semplicemente ritrovandoti al posto giusto nel momento giusto e senza sapere che quella che stai inseguendo in quel momento possa essere una “visione”. La verità è che tutti partono da soli. Si parte soli perché i bambini hanno questa insana passione di uscire di casa e giocare a pallone, e ok, lo facevo anch’io e mi divertivo come un pazzo. Però poi c’era questa voglia di giocare anche con quella macchina grigia e a poco a poco, grazie alle riviste di cui sopra, a giornali come portaportese, ma soprattutto ai giochi pirata (quando si potevano fare…), abbiamo cominciato a conoscerci e a diventare una comunità. Dal giocare, alle aziende sono passati 10 anni di storia dei viodeogiochi, che però forse raccontare è fuori tema! C’erano veramente pochissime aziende ed era un po’ come giocare al più fico. C’era una divertente competizione.
Per cosa finivate a collaborare e per cosa vi scontravate? Amicizie, rivalità, aneddoti e stati d’animo di un’epoca che internet se lo sognava, forse perché riusciva quasi a immaginarlo.
C’erano quelli seri, che gettavano le radici per creare un’ azienda vera (tipo un certo Francesco Mastrofini che credo tu conosca bene) e quelli che come me invece giocavano solo a fare i più fichi…
Tralasciando la parte commerciale” delle aziende con cui ci identificavamo (anche se definire “aziende” dei loculi maleodoranti e organizzati peggio, fa abbastanza ridere) posso dirti che le amicizie erano tante ma le rivalità nessuna visto che noi eravamo i migliori e tutti gli altri non valevano nulla!
No, dai, scherzi a parte, gli aneddoti sono talmente tanti che non vorrei stare qui ad annoiare l’Internet per cui mi riallaccio al Mastrofini che ho citato qualche riga più sù perché nonostante non fossimo mai stati propriamente degli atleti, ci piaceva scontrarci a calcetto, e spesso si organizzavano partite fra queste prime aziende di computer grafica, in cui sentivamo di consacrarci come gruppi realmente esistenti. Uno tra i match più memorabili fu, per l’appunto, contro la Digitrace di Francesco.
Noi avevamo in squadra gente abbastanza bravina ed eravamo entrati in campo di tutto punto, fieri delle nostre magliette griffate con i loghi aziendali (all’epoca J.N. Graphics) mentre loro sembravano vedere un pallone per la prima volta nella loro vita e si presentarono con i numeri delle magliette stampati con i fogli A4!
Beh, eravamo cosi’ sicuri di noi stessi che le prendemmo di santa ragione!!!
Però ci siamo rifatti a tavola mangiando decisamente più di loro! Ecco, le cene probabilmente erano quell’elemento centrale, di scambi e interazione che oggi forse mi manca maggiormente. Ne abbiamo fatte un numero spropositato e se posso riconoscermi un merito è quello di essere stato un buon accentratore di cene con gente che oggi vedo, con affetto, ricoprire ruoli chiave nel panorama italiano della computer grafica.
Nel giro di una manciata di anni siete passati dagli scantinati in cui realizzavate cd multimediali a studi extralusso in cui consegnavate spot per il mainstream più ricco e spavaldo. Come hai vissuto questa trasformazione?
Di fatto ci siamo passati per gradi e con non poca fatica. Poi, tra di noi, partivamo da concezioni radicalmente diverso. C’era chi si metteva a capo chino a lavorare seriamente per far entrare budget e permettersi di ampliare l’organico e le infrastrutture e chi, come me, preferiva concentrasi sulla ricerca e sulla qualità del risultato. Per quanto mi riguarda, quindi, di cd multimediali ne ho fatti veramente pochi.
Ma ad un certo punto ho dovuto per forza scegliere tra il continuare a giocare a fare il fico o cominciare a lavorare. Ovviamente ho scelto di lavorare, e per quanto oggi possa sembrare assurdo, all’epoca questa scelta non venne da tutti condivisa. La trasformazione avvenne per gradi. Cominciai a casa, nello scantinato, poi creai la J.N. Graphics con alcuni amici, dove ottenni le prime vere soddisfazioni in questo campo, e che poi, come tutte le cose belle, ho dovuto abbandonarla per cominciare a mantenermi in maniera seria. Da qui il passaggio in RAI e, a seguire, l’Animantis (altra grande soddisfazione),
http://www.youtube.com/watch?v=BwoT7mXIYnw
la Direct2Brain
e infine il ritorno alle origini: freelance e fotografia. E parlo di ritorno perché, per quanto possa sembrare strano dopo aver parlato per tutto questo tempo di Cgi, la fotografia è stata e sempre resterà la mia principale passione, nata quando avevo dieci anni e iniziai a sviluppare le foto da solo.
Com’è cambiato il tuo approccio nel momento in cui tutti, improvvisamente, hanno iniziato a capire quanto eravate in grado di fare?” Sono affascinato dall’evoluzione delle proprie specializzazioni in base al contesto in cui ci si trova (e che spesso siamo proprio noi a creare). Hai parlato di una tua azienda, della Rai, di animantis, d2b, di un’attività da freelance e della fotografia. Quali sono le tue competenze in ognuno di questi ambiti? E quanto influiscono sul tuo approccio?
Il mio approccio non è mai cambiato: dedizione assoluta e sano narcisismo artistico. Nella mia azienda ero socio fondatore (sembra si dica così!), direttore artistico, lighting&Shading&rendering TD (ma ho capito di esserlo solo anni dopo!) e ci occupavamo di tutte quelle cose, anche le più naif, che all’epoca venivano racchiuse all’interno del grande calderone della computer grafica: siti, still images, videoclip, cd rom, volantini, masterizzazioni, etc, etc… Eravamo dei pazzi scellerati che amavano follemente quello che facevano.
In RAI invece mi occupavo della realizzazione e della messa in onda di grafiche in realtime per canali sportivi mentre in Animantis sono tornato a quello che mi era più congeniale e quindi ero team supervisor, lighting&Shading&rendering TD ed anche un po’ lo psicologo/psicotico di quella ciurma di matti in cui persino uno come te sembrava “normale”! In D2B ho affinato le mie tecniche mettendole al servizio di una grossa produttività e verso un gran numero di esperienze sia su set in live action che su quelli virtuali. Ero direttore della fotografia digitale (provo sempre un brivido di piacere quando mi definisco così!) ed operativamente lighting&Shading&rendering TD. Come freelance, faccio un pò tutto quello che capita!
In ognuno di questi momenti della mia vita ho sviluppato una serie di competenze che sono andate di pari passo col bagaglio di esperienza accumulato.
Non sono uno smanettone del computer, ma nella mia ho vissuto in prima persona un po’ tutte le fasi necessarie alla realizzazione di un prodotto (specialmente di un prodotto contenente grafica 3D) dalla progettazione, alla modellazione, alle riprese, alle textures, al lighting, al rendering fino alla sonorizzazione, il montaggio e la masterizzazione. Ma anche la nascita e l’evoluzione dei computer e di… internet!
Per cui diciamo che le ho passate un pò tutte! Ricordo ancora con affetto il mio primo adattatore telematico 6499 per il Commodore 64 (quello che gli umani in seguito chiameranno “modem”) ed i tanti escamotage per cercare di non pagare le numerose nottate passate a scaricare programmi e a parlare con le persone nelle BBS. Di cosa sto parlando?! Beh, ci sarebbe troppo da dire… troppo!
Al culmine di queste esperienze tu ci vedi la fotografia che, come in un loop, ti riporta al punto di partenza: a quei dieci anni in cui ti sviluppavi da solo le foto. Cos’era e cos’è per te la fotografia?
La fotografia, in un certo senso, non l’ho mai abbandonata. Mi occupo operativamente di Lighting & Rendering, quindi, di fatto, di illuminazione e resa di un set, sono di fatto un direttore della fotografia digitale con un’esperienza a tutto tondo sui progetti di computer grafica. La fotografia mi ha sempre accompagnato e il concetto di “scrivere/disegnare con la luce” mi affascina da sempre. Da bambino facevo esperimenti bucando della scatole e mettendoci dentro delle lampadine per poter creare degli effetti di luce particolari che poi impressionavo sul negativo della yashica di mio padre.
Poi, incuriosito dal processo di impressione della pellicola e non capendo come potesse essere possibile sviluppare le foto dal negativo mi sono rimboccato le maniche e ho iniziato a svilupparmele da solo nello sgabuzzino di casa mia. Il processo era lungo ma soprattutto maleodorante, e i risultati… tutt’altro che incoraggianti e ne rimasi deluso (avevo dieci anni, ma ero già molto esigente! – Nota di Mauro: no, eri già lo spaccapalle che sei anche oggi!) Mi affascinavano le Polaroid, perchè mi sembravano magiche!, scattavi e dopo qualche minuto appariva l’immagine impressa. MAGIA !! Però anche lì, il formato limitato non poteva lasciarmi completamente soddisfatto per cui, quando arrivarono le prime immagini digitali, puoi capire che shock fu per me, scoprire che erano stati annullati i limiti di dimensioni, forma e colore! Ho iniziato così a sperimentare in quell’ambito – almeno avrei concesso un po’ di pace alla santa donna di mia madre che non avrei più sentito smadonnare per il casino lasciato in giro – Ma alla fine del giro, come dici tu, sono ritornato alla fotografia… che nel frattempo è diventata anche “digitale”! Le mie due passioni, confluite in una soltanto!
Dopo tanti anni di immagini in movimento, com’è tornare a quelle fisse?
Le immagini in un certo senso sono sempre fisse, solo che noi le fruiamo in sequenze da 25 (o 24) frames al secondo. In una fotografia devo centuplicare l’attenzione perché è più facile che si noti un difetto, una piccola imperfezione, rispetto al filmato che, caratterizzato dalla velocità della messa in onda, punta tutto sulla spettacolarizzazione del momento. Il fatto stesso di rendere romanticamente eterna la visione di un istante in maniera permanente, tramite un sistema ottico, su di una superficie fotosensibile … è per me ancora più affascinante oggi, di quando ero piccolo. E oltretutto l’immagine fissa mi permette di dedicarmi alla pulizia, sia della scena, che, metaforicamente, di tutto il percorso fatto finora. Come se tornassi a giocare un po’ da solo dopo aver fatto gruppo per tanto tempo.
Chi sarai nei prossimi anni?
La naturale prosecuzione di ciò che sono stato finora. Continuerò nel mondo della computer grafica, ma questa volta solo come supervisore sul set o di progetti e non più come operatore. Credo, come si dice da queste parti, di aver dato. E quello che mi emoziona in questo momento, se chiamato in un lavoro di squadra, è portare il team ad ottenere il risultato. Da 8 mesi (in concomitanza con la nascita di mia figlia)
ho iniziato a occuparmi di fotografia, specializzandomi negli eventi. Mossa forse un pò azzardata a 38 anni, me ne rendo conto, e capisco anche che è l’equivalente di aprirsi un chiosco di granatine ai Caraibi, ma io ci credo molto. So che è quello che voglio da me adesso. Sto costruendo il mio book, e in un certo senso sono facilitato, perché nel mio lavoro ho avuto l’opportunità di collaborare con volti noti del cinema e dello spettacolo in generale. Da Dustin Hoffman a Mina, passando per Ligabue, Jovanotti, Tiromancino, Planet Funk, Celentano, Giorgia, Elisa, etc…
Ora, si ricomincia da capo, provando nuovamente il brivido della gavetta, ma accelerando al massimo i tempi grazie all’esperienza accumulata in questi anni. Mi piace fotografare le persone e le cose.
Mi piace occuparmi in prima persona della color correction, cercando di restituire l’atmosfera percepita al momento dello scatto.
Amo soprattutto ritrarre le persone nei momenti in cui sono – o si sentono – felici, perché è quello che secondo me si è più perso nelle produzioni italiane.
Vedo un grosso interesse per la tragedia, per l’introflessione emotiva, per la lacerazione e pochissima cura o attenzione per la serenità. Sembra che l’happy ending non emozioni più gli autori e invece io ne sono un fervente sostenitore. Fotograferei soltanto sorrisi di riappacificazione, di rilassatezza, i compleanni, gli abbracci, gli engagement e i matrimoni. Mi piacciono quei momenti in cui si sanciscono unioni piuttosto che distanze, e i matrimoni, in fondo sono questo.
Inoltre voglio portare avanti il discorso RUFRA , forse il più personale e meno inquadrabile tra i miei, e portarlo ad un livello professionale più cosciente. Fino ad ora è stato solo una piccola valvola di sfogo fatta dalle 6 alle 7 di mattina prima di andare in studio. Adesso che sto partendo con un progetto fotografico personale, spero assuma la forma che ho in testa da un po’ di tempo.
“Rufra” esce fuori dai normali canoni fotografici commerciali – almeno per quelli dell’attuale scena italiana – e anche se per il momento è decisamente freaky, non riesco a non riconoscergli una qualche pennellata di sentimento. Sto lavorando sulla formazione di un nuovo team di persone, puntando molto sulle facce, i costumi e le scenografie. Anzi, avevo anche intenzione anche coinvolgerti… ma per il momento non ti spiego il perché! (nota di Mauro: Paura. Quando fa così potrebbe veramente voler dire qualsiasi cosa!)
Da qualche tempo hai anche iniziato ad insegnare. Come si insegna la fotografia? Quali i metodi? Ma soprattutto: perché?
Ho cominciato ad insegnare pensando a quelle persone che lavorano e non hanno il tempo di seguire dei corsi infiniti e dispersivi di fotografia.
Persone quindi che, come me, vogliono arrivare il prima possibile ai concetti chiave dell’argomento di loro interesse.
Ho frequentato diversi corsi “canonici” di trenta e più ore, ed in tutti ho notato lo stesso problema: sono dispersivi. Troppa gente, troppe ore e troppa carne sulla brace.
Alla fine sono pochi gli allievi che escono da questo tipo di corsi avendo appreso tutto quello che è stato loro spiegato, ancora meno quelli che possono dedicarci tutto il tempo che una passione come questa richiederebbe. Ho deciso così’ di strutturare il mio corso, puntando soprattutto sull’identificazione di alcuni “argomenti chiave” che servono, in maniera sufficientemente chiara e sopratutto pratica, a far riconoscere in quale ambito ci si vuole specializzare.
Perché? Perché questo è quello che mi sarebbe piaciuto fosse stato fatto nei miei riguardi nei corsi che ho frequentato, niente di più e niente di meno!
Ed il tutto senza troppi voli pindarici. La semplicità è la chiave della conoscenza globale (diceva il direttore del supermercato sotto casa mia). Per questo ho strutturato i corsi in classi con pochissimi elementi, ma anche con la possibilità che gli allievi se ne stiano comodamente seduti nei loro salotti. Se sono della mia città o comunque gravitano intorno a Roma e Latina, vado direttamente a casa delle persone, perché mi ha sempre affascinato questo modo “antico” di insegnare la propria esperienza.
Ma anche se la persona interessata abita lontano da me, replico la medesima esperienza tramite Skype, ad esempio l’ultimo corso che ho fatto è stato per una ragazza che vive in un paesino vicino Parigi! Ed è una cosa che non solo emoziona l’allievo (vuoi mettere, un insegnante tutto per te!), ma anche me che li sento veramente interessati ad apprendere quella che è la mia esperienza.
E questo aspetto è allo stesso tempo il più difficile ma anche il più facile da insegnare. In molti mi avvicinano chiedendomi subito di specializzarsi tecnicamente verso quelli che sono gli ambiti più remunerativi del settore (matrimoni/engagement, ecc), il mio scopo è quello di capire come tirarne fuori, e come provare, emozioni facendolo. Ad esempio, io punto molto su una via di mezzo tra lo stile americano della messa in scena filmica che sento molto mio per via del mio percorso (una impostazione, quindi, alla Gregory Crewdson, per intenderci) unendolo, però, all’immediatezza del reportage. In questa via di mezzo, secondo me, c’è la chiave per raccontare e raccontarsi.
Senza dimenticare che ogni set è come un piccolo mondo che nasce, vive e resta nel mondo stesso. Per cui sono vietati i presets che tenderebbero ad uniformare quello che dovrebbe, sempre e comunque, restare unico.
Saluto Francesco augurandogli di finire in culo a tutte le balene possibili sapendo bene che anche questo suo nuovo viaggio non ci porterà troppo lontani.
E’ una persona preziosa che fa cose preziose.
Il mio regalo di natale per voi è stato presentarvelo, il resto fatelo da soli, contattandolo direttamente e scoprendo altri aspetti del suo mondo:
Davide è in uno splendido stato di grazia artistico/creativa e, per nostra fortuna, ha deciso non solo di rendercene parte, ma di poterne approfittare!
potrete infatti evitare di spendere soldi in inutili manuali sulla realizzazione di storyboard e shootingboard e imparare tutto quello che serve sapere semplicemente rubando dai lavori di Davide e leggendo con attenzione quello che racconta.
Và come vi accoglie con tutti gli onori in homepage: “In questo blog potete trovare una parte dei miei lavori: quelli che sono riuscito a recuperare e documentare o i più recenti. Sono gli storyboards e gli shootingboards che realizzo per le case di produzione, ma c’è anche qualche mio esempio di visualizing da agenzia. Fra Pubblicità, Cinema e Fiction, ho pubblicato qui circa 140 film. Potete cliccare sulle etichette (tags), per passare da un genere all’altro o per scovare qualche curiosità. Chi non ha la più pallida idea di cos’è uno shootingboard, chi è curioso o chi vuole avvicinarsi a questo mestiere può iniziare dalla pagina “Prima di Tutto”.
Non siete già completamente a vostro agio? Non avete voglia di togliervi le scarpe e sdraiarvi sul suo divano come fosse il vostro?
Ma se tutto ciò non dovesse abbastarvi e anzi, scatenasse in voi l’irrefrenabile desiderio di portarvi a casa pezzi di puro De Cubellis, ecco che è lui stesso a venirvi incontro, ben conscio di quanto siate affamate & golose.
Da qualche giorno è online DECU FINE ART:
un sito dove oltre a poter acquistare degli originali di questo livello
Potrete anche sbavare, impazzire, sbroccare, desiderare ardentemente, e persino portarvi a casa, delle stampe a tiratura limitaterrima delle clamorose cover che Davide ha realizzato per John Doe
“Eh, ma sono solo delle stampe!” direte voi, stolti, continuando a far cadere briciole sul divano di Decu. “Ennò!!!” vi si risponde da qui.
Anzi, lascio di nuovo a lui la parola:
“Stiamo parlando di 8 esemplari per ogni illustrazione: autenticati, numerati e certificati.”
Nei contenuti e nella forma il certificato di autenticità testimonia l’estrema qualità del prodotto. È stampato su un foglio con filigrana del marchio Hahnemühle – anno 1584 e ovviamente riporta molte informazioni, come il titolo dell’opera, la tiratura e l’edizione, il numero di prove d’autore, la firma dello stampatore. Si certifica oltretutto che: “la stampa fa parte di una tiratura limitata e numerata, realizzata su carta Fine Art Hahnemühle con inchiostri ai pigmenti; ha una durata media di oltre 100 anni, attestata da studi di laboratori indipendenti; tutti i files e le prove di stampa sono stati distrutti o consegnati all’autore”.
Visto?
E’ stato o non è stato dato un nuovo significato al concetto di “Sborone”?
Se anche voi state ardentemente pensando “Si, lo voglio!”, smettete di pettinare le winx e precipitatevi ad accaparrarvi le vostre copie, o a regalarle per natale, visto che tanto anche voi, come me, fate i regali sempre all’ultimo momento riducendovi ad imbucarvi nell’orrido autogrill sul raccordo!
Io, da parte mia, mi sono già accaparrato questi:
(quella scritta lì, sotto il disegno, indica per l’appunto, che è stata venduta. Non che costa 22 denari.)
(anche la scritta lì, non indica certo il costo, quanto invece – SPOILER – la risposta alla vita, l’universo e tutto il resto)
E serviranno a comporre un fantasmagorico trittico che avrà per centro questa assoluta meraviglia:
“Some days we get a thrill in our brains
Some days it turns into malaise
You see your face in the veneer
Reflected on the surface of fear
Because you know we’re better than that
But some days we’re worse than you can imagine
And how am I supposed to live with that
With all these train wrecks coming at random
Hey what are you gonna do
When those walls are falling down
Falling down on you
Hey what are you gonna do
When those walls are falling down
Falling down on you
You got warheads stacked in the kitchen
You treat distraction like it’s a religion
With a rattlesnake step in your rhythm
We do the best with the souls we’ve been given
Because you know we’re nothing special to them
We’re going some place they’ve already been
Trying to make sense of what they call wisdom
And this riff raff ain’t laughing with them
Hey what are you gonna do
When those walls are falling down
Falling down on you
Hey what are you gonna do
When those walls are falling down
Falling down on you”
In inverno, bisogna coprirsi meno di quanto si dovrebbe e sentire così freddo da voler tornare il prima possibile.
In inverno, smettere di riconoscere alla distrazione lo status di nuova religione.
In inverno, quando i muri cadranno sulle vostre teste state fermi immobili, come Buster Keaton in quel vecchio film in cui la scenografia gli cadeva addosso e lui si salvava finendo esattamente nel buco della finestra.
Fortunatamente, De Luca ha avvisato tutti da un pezzo: “Due non è il doppio ma il contrario di uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato”.
C’erano diversi punti vuoti che ci hanno costretto ad utilizzare anche addobbi più tradizionali.
Prometto solennemente, per l’anno prossimo, di dirne di più.
Squillo di trombe!
Sono finalmente giunte al termine le votazioni per il primo concorso “Johndoeizzate il vostro desktop!” che hanno decretato l’unico, inesorabile, inarrestabile, incontrovertibile vincitor!
Ma abbiate pazienza, come nelle migliori sagre paesane, prima dovrete sorbirvi tutte le segnalazioni di quegli sfigati che per un motivo o per l’altro non hanno vinto e poi, SOLTANTO POI, nelle ultime righe di questo post, saprete chi ha meritato l’agognato disegno di Federico Rossi Edrighi & Marco Marini in palio (e siate buoni, non andate subito a sbirciare e ringraziatemi, piuttosto per risparmiarvi l’elenco degli assessori comunali e l’intervento di Nilla Pizzi – gentilezza, per inciso, che durante l’ultima sagra dell’agnello di Pescasseroli, mica mi è stata fatta)!
Quindi, bando agli indugi, sappiate che LA giuria, capitanata da Roberto Recchioni e composta dalla intiera redazione del vostro fumetto preferito, ha sancito che:
alle due fanciulle che hanno pensato bene di imprigionare John Doe
(R.Amal Serena)
e di travestirsi da desktop umano
(Alessandra D’Amato)
và la nostra Minzione Speciale, che riconosce e si genuflette alla genialità delle loro proposte pur bastonandole per essere andate fuori tema (che, ricordiamolo, prevedeva di utilizzare nella foto esattamente il disegno del desktop in regalo!).
Sale quindi sul podio, strettino nel suo terzo posto, ma sorridente per essere il più basso tra gli svettanti, Fabrizio Adamo e la sua conquista dell’Apple Store!
Al secondo posto, qualcosa che o avete visto all’epoca o non vedrete mai più!
Ma mentre i giurati erano lì col coltello tra i denti a votare i loro preferiti, cosa accadeva nelle allegre lande della Giuria Popolare?
Ecco i risultati emersi dalle votazioni dei frequentatori della pagina facebook di John Doe:
Al terzo posto… Syd Chino Barret! che anche i frequentatori di questo blog conoscono bene!
Al secondo posto, nuovamente presente la nostra amichevole rossa di quartiere (a proposito… ti muovi a tornare a Roma?)
E al primo posto?
Chi avranno premiato i lettori di John Doe?
E chi sarà stato ritenuto il più meritevole secondo gli autori?
Signore e signori, Madames e mesieurs, inginocchiatevi al cospetto di colei che ha messo tutto d’accordo nel ritenerla la vincitrice unica ed assoluta del concorso!
Sfregiatevi i palmi e applaudite furiosamente…
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…Lorenza Barone
e il premio che le hanno realizzato Federico & Marco che la ritrae, rendendola immortale (diciamo così…), al cospetto dei protagonisti di John Doe n.13:
La versione cartacea presenterà anche una dedica da tutto lo staff, mentre quella digitale potrete gustarvela semplicemente cliccando e ingrandendola.
Di nuovo, grazie a tutti per le foto inviate.
E’ stato divertente vedere cosa è stata capace di partorire la vostra mente.
Ah, un’ultima cosa.
Il fatto che questa lettrice qui:
alla fine abbia ricevuto soltanto pochi voti, non può e non deve assolutamente dissuadervi dal seguire il suo esempio.
Che noi, chi ci mette il cuore in quello che fa, lo apprezziamo sempre!