Da qualche tempo sto partecipando ad una bizzarra sfida online.
Non una roba di WoW o di fattorie su Fb ma una vera e propria battaglia a suon di recensioni in cui il ring comune è la cinematografia di Tony Scott.

I due pesi massimi del match sono, da una parte

Rrobe, amico/fratello/collega/zio/figlio/padr… ehm, no, padre, no.
Dall’altra

Nanni Cobretti, ovvero l’incarnazione del mio sito di cinema preferito, quello che mi parla della roba che conosco meno e me la presenta in un modo tale da volerne conoscere il più possibile: i 400 calci.

Loro secondi, inviati in territorio nemico per rubare punti sul film recensito dall’altro, Wim Diesel e il sottoscritto.

Cliccando QUI trovate tutte le recensioni scritte da Rrobe con il commento di Wim.
QUI quelle scritte da Nanni con i commenti miei.

Chi mi conosce sa bene quanto Tony Scott sia lontano dal poter essere definito il mio regista preferito e sono sufficientemente certo che, dopo la pietra deposta sulla causa Michael Bay, Rrobe mi abbia voluto con sé per punirmi in maniera lenta, continua e costante.

Eccovi le mie pillole (numero limitato di battute, per noi secondi!) e ammiratemi, che una cura Ludovico a suon di Giorni di tuono e Beverly Hills Cop 2 è roba che tempra.

TOP GUN
I film preferiti di mia madre sono il secondo Star Wars, il terzoMadMax, tutti i Robocop (compresa la serie televisiva) e Top Gun. Me lo fece vedere tre volte, sufficienti per capire che sì, le riprese aeree come nessuno mai, sì, le luci di Ridley filtrate da Tony, ma soprattutto, sì, la colonna sonora. Convocai la Femmina Che Non Me L’avrebbe Mai Data e iniziai facile: Otis Redding, scelta colta e neutra. Poi You’ve lost that lovin’ feeling dei Righteous Brothers, espertissimi in materia di sesso autoparcheggistico e a quel punto, il colpo di grazia: Take My Breath Away. Le nostre lingue umiliarono quelle di Cruise & McGillis (per i completisti, durante la scena di sesso, la lingua di Maverick colpisce cinque volte, quella di Charlotte, misere due) poi lei si fermò d’improvviso. “A proposito… te l’hanno mai detto che sei uguale identico a Goose?”. Nonostante le mie Great Balls of Fire spensi tutto e la mandai via. La troia.

BEVERLY HILLS COP II
Axel Foley doveva essere interpretato da Stallone, e questa è storia nota. Però Sly volle modificare lo script e cambiargli nome in Cobretti e venne ringraziato a suon di grandi calcioni al culo. Se in Beverly Hills Cop di tutto ciò non v’è traccia, nel II°, osceno, capitolo diretto da un Tony Scott ancora strafatto di coca dopo il successo di Top Gun, è l’unico elemento degno di nota. Trama? Regia? Stronzate, quando si possono usare le risatine di Tonino Accolla per perculare la categoria del macho man with a gun, di cui Stallone era nel frattempo diventato il massimo esponente. Tra un fiorire di rimandi, poster di RamboCobra, e l’utilizzo di Brigitte – allora moglie dello Stallone Italiano – Nielsen come cattivaccia del film, Tony tocca il culmine della nona arte… chionzandosela! Distruggerà così il suo secondo matrimonio, ma ancora oggi, ogni volta che Stallone gli telefona, la suoneria del suo cellulare è l’mp3 che gli regalò Accolla: hihihihihihi!

GIORNI DI TUONO
Quando avevo 10 anni mio nonno m’insegnò che siamo i nostri fatti e non le nostre intenzioni. Quando ne avevo 14, mia madre mi fece capire che se sei in un ospedale per delle semplici analisi e ti metti a impennare con le carrozzelle, il paraplegico sul lettino ti maledirà 70 volte 7. Quando ne avevo 18 mio padre mi prese da parte e tenendo in mano quella che sembrava una big babol ciancicata, mi disse che dovevo rispettare i preservativi se volevo che loro rispettassero me.
Questo, oltre a farci capire che la mia crescita è stata costellata da consigli sempre più prosaici, ci dimostra inconfutabilmente che se Tony avesse fatto di cognome Uzzeo invece che Scott, almeno una cazzata se la sarebbe risparmiata.
Tre sono i motivi per ricordare Giorni di tuono:
– la corsa sulle sedie a rotelle con cui Cole e Rowdy si danno battaglia tra i corridoi dell’ospedale, umiliando di colpo Kaufman e tutta la Troma.
– il sesso tra Cruise e la Kidman viene sostituito da una lezione su “come andare in scia” in cui la pista è una coscia dell’australiana e le auto sono due preservativi passati ovunque tranne che sui/nei posti giusti.
– nelle intenzioni di Scott, doveva essere un Top Gun con le macchine.
Ma come diceva mio nonno, siamo i nostri fatti, non le nostre intenzioni.

UNA VITA AL MASSIMO
In amore sono tre le cose che si devono fare. La prima è farsi notare. La seconda è smettere di farsi notare. La terza è farsi. Vicendevolmente farsi.
Dinnanzi al Vero Romanticismo, giovani sceneggiatori sfoggiano le loro carte migliori, acclamati registi smussano i loro angoli al servizio del racconto, e uno stuolo d’attori mozzafiato illumina l’eterno splendore delle menti immacolate di Alabama e Clarence.
Alabama: “Ho fatto bene la mia parte?”
Clarence: “Sei stata perfetta.”
A: “Come una ninja?”
C: “Come una ninja. Vado a cercare qualcosa da mangiare.”
A: “Io mi butto in vasca, faccio un bel bagno di schiuma, poi salto sul materasso ad acqua e mi metto a guardare film porno finché non torni. Vieni presto. Ti aspetto.”
C: “Fa conto che sono già tornato.”
E poi la violenza, la notte sul tetto col plaid, il sapore dei bignè, il sangue sugli occhi, una stanza di piume, un divano all’aperto e un cavatappi puntato verso l’alto, perché – fino all’ultimo – l’amore vero va difeso. Quelle volte in cui scopri che la somma di uno più uno non è due, ma sempre uno, un uno migliore, indivisibile. Fatto di una sostanza impalpabile e rassicurante.
“Mi dispiace. Non devi preoccuparti di niente. Andrà tutto liscio.”
La bugia? No. La consapevolezza.

The Fan
Jill acquista un piccolo ventilatore usato che, dopo aver fatto a pezzi la sua famiglia, si rivela indemoniato. Riuscirà Jill a rintracciare il vecchio proprietario, rinchiuso in una cella di sicurezza nel deserto afghano?

The Fun
Per debiti di gioco Jack perde tutto ciò che ha. Uno zio creduto morto lo riporterà nei luoghi della sua infanzia, dove per divertirsi, non serviva scommettere grosse somme, ma bastava lanciare sassi nel lago. Una commedia agrodolce sulla scoperta del vero divertimento.

Te-Phan
Il guerriero Zhao della casata dei Khai scopre di essere l’ultimo discendente dell’estinta razza dei Te-Phan. Il suo sangue è una minaccia per tutta la popolazione ma anche la promessa di rinascita della più antica dinastia di Venere.

The Fan
L’ordinaria follia di un uomo che ha rinunciato ad affetti e lavoro per la sua ossessione per il Baseball. Un fan dello sport in cui tutto deve essere sacrificato per la squadra, anche la propria vita.

Una di queste storie è stata trasformata da Scott in un filmetto del martedì di italia1. Non fa incazzare, non un capolavoro, non brutto, non bello, non. Poteva essere tanto e invece è solo un sorso. La vittoria per 1 a 0 su calcio di rigore, con la fastidiosa colonna sonora di un coro di vuvuzela.

Ardecore, meravigliosamente.

11 aprile 2012 da Mauro

Non ricordo più quanti anni fa ero seduto nell’ufficio di una produttrice cinematografica che stava preparando una serie animata per la Rai.
Nella stanza accanto c’era Sarah, la figlia della produttrice, che aspettava che io finissi di blaterare e potesse finalmente parlare con la madre.
Poi per qualche imperscrutabile motivo iniziai a cianciare di musica, gruppi rock, videoclip musicali e improvvisamente alle orecchie di Sarah smisi di essere un semplice sconosciuto spaccapalle e diventai un semplice sconosciuto spaccapalle con qualcosa di cui parlare.

Lei già cantava. Cantava tanto, cantava sempre e suoi colori erano quelli verdi dell’erba dove camminare scalza e il bianco glaciale della Bjork più vespertina.
Di qualsiasi argomento provassimo a parlare, il punto d’arrivo era sempre la musica.
Quella che per lei era voce e per me immagine.
Quella che, a pensarci bene, per lei era tutto.
E le prove che lo confermano sono nel cd di Scoutt Niblett che mi regalò e in quello di Colleen che non le regalai, ma che conservo ancora.

E non ci vedemmo più.
Così va la vita, diceva lo scrittore più bravo di tutti.

Ora dimentichiamoci per qualche riga di Sarah e passiamo ad un altro personaggio: Marco Marini.
Sì, quello che disegna quella roba fantastica e che nel tempo restante spaccia musica a chiunque sia dotato di padiglioni auricolari.
Marco mi spacciò il primo disco degli Ardecore una settimana prima che uscisse.

Grazie al legame che aveva con quella band mai troppo lodata che sono gli Zu era riuscito ad ottenere una copia del loro nuovo progetto musicale nato in collaborazione con Giampaolo Felici dei Blind Loving Power e Geoff Farina dei Karate.
L’idea era quella di reinterpretare in chiave moderna dei brani simbolo della tradizione musicale capitolina, riarrangiando sonate e stornelli popolari con sonorità che vedevano a braccetto folk e post rock.

BOMBA.
CLAMORE.
GRUPPO DELLA VITA.

E neanche a parlarne di quanto l’esperienza live facesse impallidire, per impatto e sentimento, tutto ciò che proveniva dai già ottimi brani registrati in studio.

Poi, da un giorno all’altro, come per le coppie che si amano tanto e si amano davvero, persi qualsiasi interesse.
Non fu una scelta ponderata né spinta da qualche ragione sotterranea. Non per odio né per amore, smisi semplicemente di ascoltare gli Ardecore.
Così va la vita, ripeteva quello scrittore lì.

I minuti si fecero anni, i bicchieri divennero fiumi e ce ne furono di trame da imbrigliare prima che Facebook unì tutti i gradi di separazione certificandomi che una certa Sarah Dietrich si era unita agli Ardecore.

BOMBA.
CLAMORE.
CONTENTEZZA E SODDISFAZIONE.

“E proprio il posto suo.” Pensai tra me e me, senza farglielo sapere.
“E proprio il posto suo.” Continuai a ripetermi dopo aver comprato San Cadoco, un doppio album splendido, in cui, se la figura di Giampaolo era diventata l’anima più sanguigna e materica del gruppo, Sarah ne incarnava lo spirito più etereo e allo stesso tempo divertito.

Un doppio album a metà tra le due realtà incarnate dalla band in cui l’oggi E’ la tradizione e le sfuriate blues trasformano immortali stornelli in implacabili e romantiche murder ballads.

Un doppio album che passa da Puccini per arrivare alla Ferri, stringendoci forte di notte, rassicurandoci piano, in un orecchio, che tutto andrà bene, accoltellandoci fino a vederci sorridere.

Gli Ardecore l’hanno presentato diverse volte a Roma e non sono mai andato a vederli.

Il Filosofo di Benni diceva “Non riesco a capire, le cose continuano a finire.” Io invece non riesco a capire quelle che continuano a cambiare.
Se per quanto riguarda me, il presente del momento è tutto ciò che c’è, sogno un mondo in cui gli altri restino cristallizzati nel tempo al servizio della mia memoria fragile.

Mia sorella che lavora in uno studio d’architettura,  Francesco padre, Andrea lontano. Non sono pronto ai cambiamenti degli altri perché mi spaventa non riconoscerli e ritrovarmeli diventati altro in mia assenza.

Ma come per ogni cosa, bastano due donne ed una coincidenza affinché tutto possa cambiare.

Amal che fotografa Sarah e gli Ardecore seguendoli in una data di Genova e me ne parla entusiasta: “Devi vederli, ti piacerebbero tantissimo!”
Martina che impazzisce per il loro nuovo album e muore dalla voglia di ascoltarli dal vivo.

Ed ecco i motivi per cui venerdì 23 Marzo entriamo insieme all’Init.

Con noi ci sono Rrobe, Mari e Solina. La sala è già buia.
Mi rinchiudo nel long island e nella mano di Marti, emozionato come quei padri dei film americani che si nascondono dietro le colonne.
Poi inizia il concerto e per più di un’ora il pubblico balla, canta, e si bacia guardandosi negli occhi.

Marti fotografa e sorride sempre. Mi chiede se mi sta piacendo e le rispondo di sì.
Perché Gianpaolo Felici è un urlo blues rauco e vitale

e Sarah è cresciuta senza essere cambiata, come fosse sempre stata su quel palco.

E da lì fanno il loro spettacolo per noi che applaudiamo, ci stringiamo e ci rassicuriamo.
Parlandoci piano nelle orecchie e scusandoci anche per le coltellate.

Così va la vita, diceva lo scrittore più bravo di tutti.

Da qualche tempo ho un’abitudine.
Appena qualche stolto mi paga per un lavoro, io stanzio una parte di quei soldi per l’acquisto di biglietti per concerti imminenti o lontanissimi nel tempo, tanto c’è Meme che nottetempo segna le date sui calendari e non mi ritrovo a smadonnare il giorno dopo leggendo le rece online.

Questo è il motivo per cui, nel giro di una settimana, ho onorato la scena musicale italiana godendomi le esibizioni live de Il teatro degli Orrori, Ardecore e Giovanni Lindo Ferretti.

Degli ultimi due parliamo poi, ora concentriamoci sulla band capitanata da Capovilla.

Per promuovere il loro ultimo album, uscito un paio di mesi fa, decidono di venire a suonare all’Orion.

Io: Fico l’Orion, bel nome. Guarda un po’ dove sta.
Meme: Qui dice Ciampino.
Io: Naaa, impossibile, Ciampino fa schifo.
Meme: Eeeaabbè, sembra che suonino lì.
Io: Facile a dire “Eeeaabbè”, sei nata a Velletri. Tu sei abituata all’orrore urbanistico. Fa vedere.
Meme: …
Io: Cristo. Suonano a Ciampino veramente.

Non me ne faccio una ragione ma compro lo stesso i biglietti, dopotutto, mi ripeto, Ciampino ha dato i natali a personaggi fondamentali del calibro di Raffaele Boiano, per cui decido di dargli una possibilità di redenzione.

Il mio piano è semplice e perfetto.

E’ sabato.
La mattina scrivo. Il pomeriggio mi rilasso leggendo un libro. La sera, concerto.
Alle 13 in punto invio le pagine di sceneggiatura.
Alle 13.20 mi siedo a tavola.
Alle 15 festeggio il mio quinto rutto con una serie di strette di mano.
Alle 15.12 mi appoggio sul letto e apro il comodo e rasserenante libro sulla storia del cancro che sto leggendo per motivi che vi saranno chiari in futuro.

Meme: Mi passi l’ultimo del Teatro degli Orrori?
io: Vuoi sentirlo ora che mi stavo mettendo a leggere?
Meme: No, tranquillo, lo ascolto in cuffia. E’ che voglio arrivare pronta al concerto.
Io: Ah ok, tieni. Se vuoi arrivare pronta…

Le passo il cd, lei lo fa sparire nel portatile, rippa i brani e se li mette nel suo ipod.
Io appoggio la schiena sui cuscini e apro il libro a pagina 130, dove tenevo il segno. Non arrivo alla quarta riga che accade ciò:

http://www.youtube.com/watch?v=CigVwVeMHVI

Vuole arrivare pronta.

Rido forte sperando che i 220 grammi di amatriciana che s’è mangiata da sola la piombino presto in un sonno profondo e mi rimetto a leggere.
Arrivato alla riga sette capisco che non c’è modo di sfuggire all’abominio e che a Velletri, nessuno potrà sentirmi urlare.

Fortunatamente la batteria del suo ipod ci salva dopo sole quattro o cinque interpretazioni e posso rimandare a casa Padre Karras senza neanche dargli un’offerta.

Presto cala la notte e bel belli, si arriva all’Orion intorno alle 21.00.

Entriamo e scopriamo che la struttura è notevole, di quelle da film di Michael Mann, con spazi ampi alternati a zone con divanetti e luci blu.
Il palco, forse, un po’ piccolo, ma ben visibile da tutti i punti.

Bravi i guaglioni dell’Orion.

Vado a prendere da bere e scopro che i cocktail stanno 8 euro e li servono nei bicchieri piccoli.

Come potete vedere dalla foto per “bicchieri piccoli” si intende quelli con la capienza parecchio inferiore a quella di una normale birra e identici a quelli che ti servono col giaccio per bere l’acqua. Otto euro.

Bravi i guaglioni dell’Orion.

Comunque, alle 22.40 sale sul palco il gruppo spalla, i: The Mantra (Giuro, non l’ho inventato).
Quattro personaggi tanto strambamente amalgamati tra di loro che sembrano un crossover della Image degli anni d’oro.

Un bradpitt torello e cappellomunito alla chitarra, un bassista un po’ rasato un po’ no che saltellava più in alto di Flea, una cantante minuscolamente indieradicalgotichella e un sobrio Batterista Archetipale ci hanno intrattenuto per una quarantina di minuti facendo un buon rock derivativo da qualsiasi cosa passata su Virgin Radio negli ultimi due anni.
La tipa ha una voce notevole e vederli mi ha messo di buon umore.
Avessi avuto quei 40 anni di meno mi sarebbero piaciuti veramente.

Conclusa la loro performance, passano altri minuti che sembrano ore e mezzanotte meno venti il Teatro sale sul palco.

Faccio il vecchio per un secondo: Mezzanotte meno venti. Ma a voi sembra normale?
Fine fare il vecchio.

La band di Capovilla, in questo tour, si esibisce con una scaletta notevole che, pur privilegiando l’ultimo lavoro, prende a piene mani dalla loro discografia per 100 minuti tiratissimi, senza un attimo di tregua.

Rivendico
Non vedo l’ora
Per Nessuno
Skopje
È Colpa Mia
Pablo
Martino
Doris
Monica
Ion
Direzioni Diverse
Il Terzo Mondo
E Lei Venne!
Compagna Teresa
Cleveland – Baghdad
Adrian

Encore:

Dimmi addio
Io cerco te
La Canzone di Tom

Encore 2:

Lezione di musica

Non avendo ancora familiarizzato a pieno con  i pezzi del nuovo album, i fan vanno in delirio vero solo sulle note di E’ colpa mia e Capovilla lo sa, annunciandola,

pregustadola col sorriso da tenero figlio di puttana che lo contraddistingue ed assaporandola a colpi di stage diving sul suo stesso pubblico.

Calorosa accoglienza anche per “Non vedo l’ora”, ancora più potente della versione registrata in studio e per il nuovo arrangiamento di Direzioni Diverse, in cui l’elettronica presente nella prima parte fa da perfetto contraltare ai feedback noise chitarristici della seconda.

Su “Compagna Teresa” le ragazze presenti in sala si sentono chiamate in causa e si uniscono all’allegro pogo sotto il palco, contribuendo non poco all’aspetto scenico della serata.
Cleveland/Baghdad è il momento più intimo e caldo insieme a quello in cui si narra di Tom che se n’è andato via per sempre, mentre Io cerco te, è già tra le preferite della nuova, giovanissima, generazione di fan del Teatro.

Una band che testimonia un notevole stato di grazia a dispetto delle voci di scioglimento che ciclicamente si sentono al riguardo.

Il concerto si conclude alle 2.27 e io sarei anche pronto a fare un secondo pezzo da vecchio ma sono decisamente soddisfatto di quanto ho visto e ascoltato.
Così mi trattengo e faccio il bravo.

Alle 23 di ieri sera è andato online il primo episodio di STUCK, la serie scritta e diretta da Ivan Silvestrini di cui vi ho già parlato in un paio d’occasioni.

Eccolo:

La mia opinione in merito già la sapete (oppure leggete il post precedente), quindi ne ho approfitto per riportarvi la chiacchierata fatta ieri sera con Ivan quando non mancavano che una manciata di minuti alla messa online.

Io: Cominciamo con tre perché e un quando. Perché Stuck, perché il web e perché ora? Quando ti sei Sbloccato?

Ivan: “Stuck” perchè credo che il sentirsi bloccati sia il sentimento più diffuso della nostra generazione. Il web perchè è l’unico far west che la nostra generazione può ancora colonizzare senza chiedere il permesso a nessuno. Perchè ora? ho fatto appena ho potuto. Scrivere 118 pagine di sceneggiatura in inglese e produrre 105 minuti di montato in totale indipendenza non è impresa da poco. Per fortuna lavoro con un gruppo di persone, gli Stuckanovisti (così ci chiamiamo), che non mi abbandonano e che sono la migliore squadra che potrei desiderare per un prodotto così audace. Oggi viviamo una congiuntura social/tecnologica che ci ha permesso di raggiungere un certo livello pur mantenendo costi molto ridotti,  penso che oltre l’ossessione che un regista possa avere di fare un film per il cinema, bisognerebbe tornare al concetto primario che dovrebbe muovere ogni azione creativa: raccontare storie alla gente. E se la gente ora vive sulla rete (per dirla a la Social Network di Fincher) allora è lì che devi parlar loro. Senza contare che la tv come la conosciamo sta morendo e nel giro di qualche anno si fonderà con internet.

Nove puntate da 1o minuti. Questo formato è dato dal contenuto o hai aderito a degli standard di riferimento?

Il format deriva dalla combinazione della mia smodata ambizione narrativo/contenutistica e da quello che credo sia il massimo dell’attenzione che uno youtuber ti può dare e cioè 10 minuti. Se ne fossi stato capace avrei fatto un format da 5 minuti, ma non ne sono stato capace, stavolta.

Diamo un po’ di informazioni pratiche. Come si fa una serie di questo tipo? Che macchine hai usato, quante persone sono state coinvolte e quanto ci vuole a girare un episodio di Stuck?

Come si fa? Diciamo che la sfida è trovare un’estetica netta anche nel low budget. Tecnicamente giriamo principalmente con una canon 60d con ottiche nikon anni ’70 a cui, a volte, si aggiungono registi di seconda unità che portano le proprie 5d e 550d. La troupe varia di weekend in weekend, ed è anche questo che rende possibile realizzare un prodotto così complesso. La sua natura frammentaria, a differenza di un film indipendente, lascia che contributi volontari di persone del cast tecnico possano essere anche sporadici (“quando ho un weekend libero dò una mano a Stuck”) tanto poi ognuno finirà nei crediti degli episodi a cui ha lavorato. Ogni episodio si gira in circa 2.2 giorni.

Quando andranno in onda gli altri episodi?

Uno a settimana a partire dalla prima data possibile (stiamo ancora finendo di girare) spero tra un mesetto e mezzo.

Sei tu David o ti riconosci in qualche altro personaggio della serie?

In molti diranno che David sono io, mettiamola così: una parte del mio cervello contiene il pensiero di David, l’altra parte lotta per farmi essere un uomo migliore.

Tu hai manipolato David o lui ha manipolato te?

Chi scrive manipola sempre i suoi personaggi, di rado succede il contrario e quando succede è bellissimo. Credo a me sia successo due o tre volte nella stesura di questa serie, ma è un evento raro e prezioso.

Credo che chi si fa manipolare sia più consapevole del manipolatore. Ma è una fissa mia. Per te cosa vuol dire manipolare. E perché (accettiamo di o accettiamo di farci) manipolare?

Se siamo consci che ci stanno manipolando e non fuggiamo vuol dire che c’è comunque qualcosa di profondamente attraente in quella vertigine, l’abbandonarsi al pensiero altrui può essere molto sexy. Brainy is the new sexy, o almeno mi piace pensarlo.

Bloccatevi. Da stasera.

25 marzo 2012 da Mauro

Vi ricordate di Stuck,

la serie per il web ideata, scritta e diretta da Ivan Silvestrini di cui vi avevo parlato QUI?
Bene.
Se la visione del trailer

vi aveva incuriositi, potete smettere di trattenere il fiato perché, da questa sera alle 23.00 in punto, il primo episodio sarà finalmente online.

Potrete quindi trovare i vostri bei motivi per odiare o innamorarvi di

e condividere le gioie e i dolori di chi avrà a che fare con lui.

Ma soprattutto potrete valutare le splendide capacità attoriali di

Se vi fidate del parere del vostro preferito Nontistavocercando di quartiere, una roba del genere non l’avete mai vista.
Io sì, in anteprima e alla facciaccia vostra, per cui, credetemi sulla parola.

Ivan riesce a frullare tutte le sue ossessioni preferite – la gestione dei rapporti interpersonali, la consapevolezza della dualità nella coppia, la manipolazione, il sesso come strumento di avvicinamento e allontanamento, la concezione estetica di una messa in scena patinata ma sempre autoironica, il dialogo barocco e asciutto al tempo stesso – e a condensarle tutte, con una naturalezza disarmante, negli undici minuti del primo episodio, portandovi a tu per tu con David Rea e a chiedervi, forse per la prima volta, DOVE.VI.SIETE.BLOCCATI.

Siateci fin dal primo momento, e seguitelo sul suo SITO dedicato o sulla sua PAGINA FB o sul suo CANALE YOUTUBE.
Che una roba simile, oggi, in Italia, è un miracolo.

Riempire lo spazio.

23 marzo 2012 da Mauro

Davide Occhicone de Lo Spazio Bianco è un tipo molto paziente.
Mi ha mandato una bella intervista un po’ di tempo fa, ehm, un bel po’ di tempo fa e io ho ricambiato il suo autocontrollo come fossi l’ultimo dei Jalisse, con fiumi di parole.

Si parla di cinema, fumetto, rapporto coi padri, scrivere in collaborazione e di un certo esordio su una storia dell’Indagatore dell’Incubo (di cui, oltretutto, potrete vedere degli inediti layout del sommo Bruno Brindisi).

Trovate tutto cliccando QUA.

A Davide, e a tutto lo staff de Lo Spazio Bianco, un grazie grosso come un cono da 3 con doppia panna.

A voi, buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate.

L’8 Gennaio del 1994 ero un quattordicenne ubriaco della cioccolata trovata nella calza della befana e vivevo ancora a Marino.
Credevo che quella giornata si sarebbe stampata indelebilmente nella mia memoria a causa della montagna di cacca che sarebbe giunta come naturale conseguenza e punizione della calza e invece l’8 gennaio del 1994, io, Mauro Uzzeo nato a Marino, Italia, scoprii che la felicità costava soltanto mille lire.
E no!, non c’entrava nulla la studentessa di Paz.

Proprio no.
Era tutto merito di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco che, sotto l’egida della Newton, invasero le edicole con una serie di libri settimanali il cui scopo era quella di presentare al lettore italiano i grandi classici del fantasy e della fantascienza, al ridicolo e meraviglioso prezzo di mille lire a libro.
La prima copertina era già puro fan service.

In un’impostazione grafica che strizzava l’occhio a quella classica dei volumi Urania, erano presenti:

– un uomo forzuto e coraggioso in mutande
– una donna in pericolo e con le tette al vento ma che sembrava non portare neanche le mutande
– un alieno chiaramente rappresentato come un orientale uscito da un wu-xia degli anni ’70, in mutande
– un mostrone dalle sembianze di un gigantesco varano di Komodo pronto a mangiarsi tutti quanti. Ah, senza mutande.

A condire il tutto, il nome dell’autore che era lo stesso dei magnifici libri di Tarzan e un titolo sufficientemente evocativo da togliere qualsiasi dubbio all’ipotesi dell’acquisto.

Fu così che conobbi John Carter della Virginia, “capitano di cavalleria di un esercito che non esisteva più e servitore di uno Stato che era scomparso insieme con le speranze del Sud”.

Per chi avesse sentito questo nome per la prima volta soltanto adesso che è uscito il film in sala, vi basti sapere che praticamente ogni roba fantasy o di fantascienza che avete visto e amato da quando siete nati, ha un debito grande come una casa col personaggio e i mondi inventati da Burroughs.

Se Superman vola, se Jedi e Padwan si chiamano in questo modo e Star Wars è un cappa e spada ambientato su mondi fantastici, se in Avatar il contatto tra tutti gli esseri viventi è telepatico e la parte più interessante del film è quella in cui ci viene mostrato come un terrestre si confronti con le leggi di un mondo del tutto alieno, è tutto, tutto, tutto, merito del ciclo di John Carter di Marte, un libro di 150 pagine pubblicato esattamente 100 anni fa e scritto da Edgar Rice Burroughs sotto lo pseudonimo di Normal Bean.

Per chi, come me, ha letto quel libro da adolescente, il legame che si è creato è come quello con la tipa a cui avete dato il primo bacio e oggi ve la ricordate con i colori sbagliati pur sapendo di amarla.
E così passate tutti i pomeriggi a scrivere il suo nome su Facebook, ma niente da fare, lei non si iscrive e vorreste tanto ricontattarla anche solo per sapere come sta, ma niente, rintracciarla è impossibile.

Allo stesso modo, per anni, tutti i libri del ciclo di Carter di Marte sono stati fuori catalogo, e per i lettori italiani rintracciarli nelle librerie o tra le bancarelle dell’usato, è stato come cercare il Sacro Graal.

Per intenderci, la prima cosa che ho pensato quando mi è stato regalato un iPad è stata: digitale! Qualcuno ne avrà messo un .pdf online!
Niente anche in questo caso.

L’ossessione per recuperare quei racconti e leggere quelli di cui non ero neanche a conoscenza diventò vera e propria scimmia nel momento in cui Andrew Stanton, il sommo regista di Alla ricerca di Nemo e Wall-e,  incontrato durante un workshop tenuto dai registi pixar a venezia, mi raccontò che ne stava realizzando la trasposizione su grande schermo.

Non si poteva più rimandare. Dovevo arrivare in sala preparatissimo.
Dovevo conoscere ogni singolo elemento raccontato da Burroughs e per farlo, non mi restava che attendere l’edizione che sicuramente sarebbe tornata in libreria trainata dal lancio del film.
L’unico terrore, a quel punto, era che degli astuti esperti di marketing avrebbero potuto scegliere una foto del belloccio di turno al posto di una delle splendide opere che il genio di Frazetta aveva regalato all’umanità. Che si mandasse quindi in libreria, una roba simile:

ma fortunatamente, alla Newton non sono così pazzi, e finalmente, dopo anni d’attesa e per la gioia dei nostri occhi:

La notizia negativa è ben leggibile in copertina.
Chi si aspettava uno di quei meravigliosi Mammuth con l’opera omnia del ciclo di Marte, deve riporre il vestito buono e accontentarsi soltanto dei primi tre libri (su 10).
La notizia positiva invece è che finalmente, un caposaldo della letteratura mondiale è tornato in modo massiccio in tutte le librerie, per cui, a sperare in una futura raccolta si fa sempre in tempo.

E’ fu così che, autisticamente, rifiutai di vedere il film finché non avessi completato tutta la lettura del bel tomo pubblicato dalla Newton.

Sapevo che in questo modo avrei aumentato il rischio delusione in sala ma niente e nessuno poteva fermarmi, volevo leggere.

La mia convinzione è stata talmente compulsiva che due sere fa, arrivato a un centinaio di pagine dalla conclusione del libro, ritenendo la mia stessa casa un malevolo luogo di futili distrazioni, ho mollato tutto e tutti alla ricerca di una Shangri-La dove nessuno potesse distogliermi dal mio proposito.
Ah, già. Era notte fonda.

Dove si può andare all’una e venti per starsene al caldo e al coperto, in un luogo che fosse lontano da tutti i miei interessi e in cui sentirmi, comunque, a mio agio?

Semplice: il McDonald’s di fianco alla stazione Termini.

L’unico aperto fino alle quattro del mattino.

Lì, armato di chicken mc nuggets, salsa al curry e coca cola, ho scelto l’angolo più nascosto della sala e mi sono lanciato nella lettura.

Dopo un’ora d’immersione la situazione che mi circondava era questa:

– il locale era pieno
– al tavolo alla mia destra era addormentato un uomo di provenienza ignota.
– al tavolo ad ore due erano seduti numero 4 puttani maschi (provenienza europa dell’est) in una pausa dal lavoro che svolgono regolarmente al parchetto alla sinistra di Viale Luigi Einaudi. Posto romanticamente famoso perché era proprio lì che Pasolini, la notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, caricò il giovane Pelosi.
– al tavolo ad ore una erano sedute invece due donne. Una nera, di spalle, che andrà via subito e una bianca, sulla quarantina, che richiese di poter alzare la temperatura della sala, prima di addormentarsi seduta sul posto.

– al tavolo ad ore dodici e trenta trovavano posto altri puttani (serataccia, dalle parti del parchetto)
– al tavolo ad ore dodici, infine, il mio personaggio preferito: la Grassa Napoletana Ritardata e i suoi due amici neri. Di cui, il primo dormirà per tutto il tempo, il secondo tenterà un approccio amoroso in cambio di un paio di scarpe, fallendo miseramente.

Tra i presenti, la situazione era serena e tranquilla, tutti sembravano conoscersi e i passaggi dell’omino della sicurezza venivano sanciti da grandi saluti e tranquillità.

I puttani erano la chiara e riconoscibile anima della festa e iniziarono a manifestare la propria joyeux de vivre giocando a sputare nei capelli della quarantenne addormentata in ore una.
Non sputi al bersaglio, non c’era competizione nella loro esternazione, ma un semplice alzarsi sopra il corpo della donna che probabilmente stava sognando uno shampoo al quale loro provvedevano come gentili fornitori del balsamo.

Uno spettacolo di ordinaria e colorata umanità interrotto solo dalla voce della Grassa Napoletana Ritardata che attira l’attenzione dell’omino della sicurezza.

Sorpreso da questo inaspettato colpo di scena fingo di continuare a leggere e mi pongo sull’attenti, non voglio perdermi neanche una parola della denuncia della donna.

“Ciao, scusa, ti volevo chiedere se c’hai una caramella”

Le parole.

“Sì, tieni.”

La risposta.

Restai in parte deluso perché speravo in un finale da film, in cui quella su cui meno avresti puntato risolve la situazione, ma dall’altra salutai con un moto di soddisfazione quella conferma di aderenza ad un habitat che non avrebbe potuto generare niente di diverso.
Fu quando l’omino della sicurezza si chinò per passarle la caramella che la Grassa Napoletana Ritardata gli sussurrò: “Vedi che quegli stronzi, con la scusa di farsi vedere da tutti che le sputano nei capelli, le stanno in realtà fottendo tutto quello che quella donna c’ha nella borsa e nelle tasche della giacca.”

Oh. Cazzo.

Colpo di scena dei colpi di scena.

Distratto anch’io, come uno stronzo, dallo spettacolo pirotecnico ero completamente all’oscuro di ciò che in realtà stava accadendo, e mentre i puttani svuotavano le tasche e restituivano il mal tolto alla bella addormentata, la sua Grassa e Ritardata Principessa Azzurra, soddisfatta, tornava a parlare di scarpe all’uomo nero innamorato.

A quel punto era chiaro che dovevo andar via di lì, troppa roba era diventata improvvisamente interessante ma io ero un uomo con una missione.
Conclusi così la lettura dello splendido libro (splendido davvero – COMPRATELO A SCATOLA CHIUSA) direttamente nel mio comodo lettone e mi addormentai soddisfatto pensando al film che avrei visto il giorno dopo.

Volevo andare al Trianon, ma per un maledetta storia di paradossi temporali, lì già trasmettevano il sequel diretto da Spike Lee e con la partecipazione straordinaria di Diego Abatantuono.

per cui, visto che dovevamo ancora vedere il primo, abbiamo ripiegato verso il solito multisala vicino alla Rainbow.
E a nulla sono valse le recensioni negative e le allarmanti notizie di flop colossale, io – come dicevo in un post di qualche tempo fa – ci credevo che Stanton avrebbe tirato fuori un film della madonna.

E infatti non ci andai lontano.
Stanton non si limita a fare un film della Madonna ma, per nulla avaro, fa un film dellE madonnE, quelle che ho tirato io una volta capito in che modo stava trattando il meraviglioso materiale che aveva a disposizione.

Com’è John Carter?

Un filmetto.

Un filmetto con una regia anonima, e uno script incredibilmente banale (a dispetto dei clamorosi nomi coinvolti) in cui la caratterizzazione dei personaggi è stata a volte ignorata e a volte flagellata da quelli che sembrano goffi tagli al girato. Illuminato da una non pervenuta e dilaniato da scelte di casting così catastrofiche da trasformare i personaggi in una parata di comparse della Tuscolana e dei Castelli Romani.

La trama del film è riassumibile in:

La raffinata regina di Subaugusta

si innamora del Pegasus di Genzano

e mentre va con lui alla ricerca dell’Issu si innamorano.
Peccato che il di lei padre, reduce dalle riprese di Box Office 3d

l’abbia promessa in sposa ad un uomo che lo minaccia di distruggere la sua città.
Ma chi è l’uomo che si macchia di una simile infamia?
Chi potrebbe essere così spregevole?
Chi è stato a compiere un simile, ignobile, ricatto?

E’ la stessa Principessa di Subaugusta a rivelarcelo nella sequenza più mozzafiato dell’intero film:

Fine.

Vengono annullati tutti gli elementi di interesse presenti nel libro originale nonché le motivazioni per cui i personaggi si legano l’un l’altro.
Io non sono per l’aderenza al 100% col materiale di partenza, ma se il legame tra John e il cane Woola, nel libro nasce a causa della caratteristica di Woola di non poter smettere di seguire l’ordine – impartitogli da Sola – di tener d’occhio il prigioniero, fin quando sarà lo stesso John a salvargli la vita durante un combattimento con le scimmie bianche – nel film inventatevi qualcosa. Magari di diversissimo ma non potete trascurare totalmente i rapporti di causa e effetto. Woola è nella stanza in cui John viene fatto prigioniero e inizia a seguirlo. Bon. Fine. C’è una scena in cui John interviene in suo aiuto ma arriva troppo presto e non è costruita in modo da sancire un rapporto indissolubile tra i due personaggi.

E se questo può sembrare un piccolo e veniale passo falso, che dire di come è stato vanificato il rapporto tra Sola e la sua famiglia? Vero e proprio cardine del libro, sia dal punto di vista narrativo, che concettuale, nel film è un colpetto di scena che arriva in un modo così finto e forzato da perdere qualsiasi forza o spessore.

E così, per tutti i 132 minuti della pellicola prodotta dalla Disney.

L’educazione di John alle abitudini del pianeta è ridicola e superficiale, gli spiegoni assolutamente incomprensibili (qualcuno mi riassume cosa – realmente – si dicono John e Deja nella stanza in cui poggiano in un punto a caso l’amuleto e tutto si colora di blu?) le battaglie sono dirette e interpretate come se Stanton non avesse visto alcun film di menare negli ultimi vent’anni,  i costumi fanno sembrare sobri ed eleganti quelli voluti da Gianluigi Cozzi per il suo Scontri Stellari oltre la terza dimensione

"Deja Toris? Che regazzina!"

e le informazioni vengono passate allo spettatore

"Noi Tark non voliamo!"

soltanto per poi confutarle il minuto dopo

"E INVECE SI!!!!"

Vi chiederete, quindi, c’è qualcosa che si salva in questo film?
Certo.

Come vi dicevo, il libro è tornato in libreria.

Grazie, stupidissimo ma non inutile film!
Te ne sarò eternamente grato.

P.S
Ora, visto che il sequel: “John Carter, ti stimo fratello!” è stato distribuito soltanto in un cinema, come li convinciamo quelli della Newton a pubblicare anche i romanzi mancanti?

Leggersi.

20 marzo 2012 da Mauro

La fase che preferisco è quella dell’ideazione. Quando le immagini si inseguono e si incastrano una dietro l’altra come fosse proprio quello il loro posto.

Poi c’è la scrittura vera e propria.
Lì è disciplina, silenzio, rabbia e sangue. Fatica. Non sono uno di quelli che si rilassa quando scrive, lo faccio nervosamente e l’esaltazione arriva solo quando metto il punto finale e invio le pagine all’editore e al disegnatore.

A questo punto arriva la fase dei disegni. Lì la storia non è più roba mia. Diventa altro nelle mani di una persona che la renderà migliore.

Poi, l’attesa.

L’attesa che l’albo venga letterato. Letto dall’editore. Stampato. Distribuito.

Ed è solo a quel punto, possono passare giorni, mesi, o anche anni, che ti ritrovi per le mani una roba, che porta il tuo nome nella prima pagina e la riconosci come qualcosa di tuo, ma che non t’appartiene più, perché di quella roba lì tu puoi esserne soltanto un lettore come tutti gli altri.

Ed è quella, l’emozione più grande.

Sono anni che mi capita di provarla.
Mi ricordo quella del mio primo fumetto pubblicato. Era il 1996 e avevo 17 anni.
Mi ricordo quella del mio primo videoclip musicale. Del mio primo spot. Il primo film al cinema.
Il mio primo John Doe. Il secondo e il terzo, con i compagni di sempre.

E in questo momento ho appena finito di leggere la storia di Dylan Dog che porta il mio nome accreditato alla sceneggiatura ed io una sensazione così forte non l’avevo mai provata.

Sarà perché leggo Dylan da quando ero minuscolo e ricordo perfettamente la gioia di trovare due, tre albi non ancora letti su una bancarella e non vedere l’ora di immergermi nella lettura.

Sarà perché de La bellezza del demonio, Cagliostro, Il castello della paura, La dama in nero e Il Signore del Silenzio conosco ancora interi passaggi a memoria, tante sono le volte che li ho riletti.

Sarà perché leggendo Dylan e Zagor ho iniziato a sognare di voler fare questo lavoro.

Sarà perché Roberto, scrivendo questa storia con me, mi ha insegnato più cose su come si scrivono i fumetti di quante ne avessi mai imparate fino a quel momento.

Sarà perché Roberto, in questa storia, c’ha creduto tantissimo esattamente quanto ha creduto in me come sceneggiatore. Ed io, per questo, non smetterò mai di ringraziarlo.

Sarà perché Bruno ha disegnato delle tavole belle, ricche e piene di un talento che non cerca mai la via più facile ma quella più adatta alla fluidità della narrazione.

Sarà perché in questa storia ci sono concetti a cui tengo molto e sono fiero di aver contribuito ad esprimerli in un albo della più importante casa editrice italiana.

Saranno tutti questi motivi insieme e diecimila altri ancora, ma avrò tempo per parlarne meglio appena l’albo uscirà in edicola.
Per il momento, mi stendo nel letto, spengo la luce, e mi addormento con un sorriso.
Per una volta spero in un sonno pieno di incubi.

Martedì ero all’Init a vedere Amal e i Saroos.
Chi sono?
Amal è la mia amica entropica e ubiqua.

Quella che il lunedì scrive del mare, il martedì fotografa concerti a Roma, il mercoledì insegna alla scuola del fumetto di Genova e il giovedì potrebbe essere sulla luna, ma mai troppo lontana.

I Saroos invece, più semplicemente, sono un trio composto dalla crema dell’elettronica crauta.

Gente di Lali Puna che pomicia con i Notwist e gli Iso86, per intenderci, tirandone fuori un robo lisergico che fonde spazi siderali, soundtrack di film che non abbiamo mai visto e una nostalgia di post rock.

Il concerto fila che è una bellezza.

Martina ed io, stanchi dal giorno prima, balliamo con gli occhi chiusi e vorremmo non finissero mai di farci vivere questa fase di R.E.M. cosciente ripetendo in eterno i loro loop ipnotici e liquidi.

Florian Zimmer e Max Punktezahl si scambiano sorrisi e, nonostante l’Init non sia pieno, si percepisce una forte energia provenire dal palco.

Il trio si dà come avessero registrato un sold out.

Il loro set dura una settantina di minuti, e mentre le ultimissime note non hanno ancora smesso di rimpallarsi i feedback dagli amplificatori, accade qualcosa a cui, nonostante la mia lunga frequentazione di concerti dal vivo, non avevo mai assistito.
Max posa la chitarra, scende dal palco, va verso il banchetto dei vinili e dei cd e si mette a servire i ragazzi che vogliono comprare la sua musica.
E lo guardo rispondere alle domande, firmare autografi, farsi le foto con i fan, cambiare 50 euro e dare il resto.

Una quarantina di minuti dopo siamo seduti all’aperto, insieme a noi c’è anche Sarah, e Florian e Max ci chiedono se ci è piaciuto il concerto.
Gli rispondiamo che avremmo voluto fosse durato tutta la notte e ci rivelano che anche loro si sono divertiti parecchio, nonostante la stanchezza di chi era partito la mattina alle 9 da Berlino ed era venuto in treno a Roma, per poi ripartirne la mattina successiva.
Parliamo della loro musica e del concetto di progetto parallelo.
Max dice che per lui non esiste un progetto di punta ed altri laterali. Esiste quello che fa e le persone con cui lo fa, per questo “parallelo” è una parola che gli piace molto, perché non indica una gerarchia, ma una vicinanza, un percorso comune.
Con Florian invece si va sulla politica. Dice che dovremmo essere soddisfatti di Monti soprattutto per il gran lavoro che sta facendo per ristabilire l’immagine dell’Italia e di non lamentarci troppo se gli stranieri ci perculano per Silvio o per Schettino, perché c’è chi sta decisamente peggio. Lui, da tedesco, viene solitamente salutato all’estero con un Heil Hitler! mentre da musicista, viene perculato perché gli artisti tedeschi sono tutti checche isteriche.

Prima di salutarci dico a Max che sono rimasto positivamente colpito di vederlo al banchetto a vendere i suoi album.
Lui mi risponde che è una cosa che adora, “…perché vedi, tu puoi comprare un disco in un negozio o scaricarlo online, ma è quando lo prendi ad un mio concerto che io posso guardarti in faccia e ringraziarti veramente.”

Ci salutiamo così, che all’Init ci si torna venerdì prossimo.

Parti.

13 marzo 2012 da Mauro

“Pezzi di stella, pezzi di costellazione
Pezzi d’amore eterno, pezzi di stagione
Pezzi di ceramica, pezzi di vetro
Pezzi di occhi che si guardano indietro
Pezzi di carne, pezzi di carbone
Pezzi di sorriso, pezzi di canzone
Ognuno è fabbro della sua sconfitta
E ognuno merita il suo destino.”

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.

Grazie.


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