Nel 2010 la mai troppo lodata galleria Mondo Bizzarro mette in mostra per la prima volta i lavori di Makiko Sugawa.

Stiamo parlando di roba del genere.

Io che ero lì per caso e per fiducia rimango folgorato e quello che vedo mi piace talmente tanto da lasciare sul tavolo un paio di reni e portarmi a casa due opere della giappa.

Questa:

e quest’altra:

L’immaginario di Makiko Sugawa, fatto di donne sensuali, ironiche e spezzate ma mai realmente fragili, si accomodò tra le mie viscere guadagnandosi un posto di tutto rispetto all’interno del mio intestino crasso.
Da quel giorno, oltre a documentarmi su ogni suo movimento e ad aggiornarmi sulle sue creazioni più recenti, iniziai a frantumare i maroni a Dario Morgante pregandolo di invitare l’autrice in Italia per permettermi di conoscerla/parlarle/saperla.

Dario mi ha sempre risposto con un laconico ed ottimistico “Più in là.”
“Più in là.”

“Più in là.”

Ed io, che a Dario gli credo, ho sempre saputo che questo più in là sarebbe alla fine arrivato.

Quello che non sapevo era che avrebbe conciso col giorno della mia partenza per Barcellona.
Esattamente.

Dopo aver scritto ogni tipo di bestemmia possibile su google translate per attenermi alla lingua del posto in cui mi trovavo, tentai il tutto per tutto: chiamai Dario dalla lontana terra d’Espania chiedendogli se la Sugawa avrebbe protratto la sua permanenza a Roma fino a Domenica, perché in tal caso, avrei fatto in tempo a tornare e ad intervistarla.

Alla sua risposta affermativa capii che google translate aveva svolto perfettamente il suo lavoro.

Così dopo una notte intera passata a passeggiare per Barcellona in attesa dell’aereo delle 5.40, eccoci a roma alle 8 di mattina.
Eccoci a casa alle 9.30.
Al telefono con Yoko per trovare una traduttrice dal giapponese  alle 10.
A dormire, alle 11.

Sveglia alle 16 e, freschi come le rose, eccoci tutti alla Galleria Mondo Bizzarro alle 18 per incontrare Makiko Sugawa.

“Melting” La splendida mostra, curata da Luisa Montalto,  fotografa perfettamente l’attuale stato dell’arte dell’autrice giapponese.
Guardare per credere.

ma chi mi lascia senza fiato, stavolta, è proprio lei:

Makiko.

Mille volte avevo riflettuto sui significati delle sue figure ma mai, mai, mai mi aveva sfiorato il pensiero più semplice e lineare.
Non avevo capito che le sue donne amputate erano mille rappresentazioni di sé stessa.

Sollevandosi con attenzione, Makiko ci si avvicina ci ringrazia per essere lì, scusandosi per quelli che, per il momento, chiama semplicemente “problemi alla gamba”.

Io le dico (o meglio, le faccio dire da Yoko e Silvia, le nostre due intrepide interpreti) di non preoccuparsi, la ringrazio di essere lì, mi dico onorato di conoscerla e le chiedo se se la sente di rispondere a qualche domanda.

Ne è venuta fuori un’intervista intima, una ricerca personale, una confessione, e una passeggiata tra quello che è e ciò che vorrebbe essere.
Nè è nato un elogio dell’incompletezza e della necessità di accettarsi per quel che si é.
Mai passivamente.

Buona lettura.

Io: Benvenuta in Italia, Makiko.

Lei: E’ la terza volta che vengo a roma, è una città che mi piace tantissimo, e sono molto felice perché per la prima volta ho l’onore di avere questa esibizione. Grazie per essere venuti a visitarla.

La prima volta che ho visto i tuoi lavori sono rimasto scioccato da quanta potenza riuscivi ad emanare pur utilizzando  un tratto così sottile, leggero e mai nervoso. Uno scontro gentile, una guerra non violenta. Da dove viene il tuo segno?

Da una parte cerco di illustrare quello che mi piace, e in particolare di dare un senso a un certo feticismo che ho verso alcuni oggetti e ad alcune ossessioni.
Qualche anno fa ho dovuto amputare la gamba sinistra.
Sono stata costretta ad eseguire due operazioni: la prima volta fino alla coscia, la seconda volta fino all’anca.
C’è stato un periodo, soprattutto all’inizio, in cui non riuscivo ad accettare di non avere più una parte del mio corpo.
Capivo che si trattava di una cura e che l’alternativa fosse tra vivere o morire, ma è stato veramente difficile accettare questa nuova condizione. E quindi ho iniziato a vedermi come le bambole.
Io amo molto le bambole, soprattutto quelle che hanno parti del corpo intercambiabili a cui puoi staccare le gambe, o le braccia.
Ho cominciato a guardare al mio corpo come a quello di una bambola, e non era una cosa negativa: l’oggetto che tanto mi piaceva, a questo punto, ero diventata io.
In questo modo ho provato a reagire e quindi, proprio per accettarmi, ho iniziato da subito dopo l’operazione – ero ancora nel mio letto – a disegnare queste ragazze belle a cui però, mancava sempre qualcosa, un arto solitamente.
Era un modo per accettare me.

Volevo utilizzare questi disegni per mandare un messaggio. Io ho dovuto subire l’amputazione a 31 anni ma cose del genere possano accadere anche a persone molto più giovani di quanto lo fossi io in quel momento, e in periodi molto più delicati della propria esistenza, come nell’adolescenza, e quindi rischiassero di percepire in modo molto più duro questi mutamenti costretti del proprio corpo, della propria bellezza. Quindi, con questi disegni, in un certo senso volevo rassicurare me e gli altri, dicendogli e dicendomi: Guardate che belle ragazze, anche se gli manca qualcosa.

E’ vero, sono molto belle. Anche nell’incompletezza di queste donne/bambole in realtà c’è un’unità completa. Alla fine sembra quasi che sia proprio nella mancanza che hanno trovato la loro completezza.

Mi rende felicissima che questo messaggio arrivi.

Non solo. Le tue donne sono apparentemente fragilissime, alcune addirittura già spezzate, eppure emanano sicurezza, serenità, ironia e sensualità.
Queste cinque caratteristiche creano un’immagine della donna classica e moderna allo stesso tempo.  Chi sono le donne di Makiko Sugawa?

Io illustro le donne che vorrei essere. Quindi tutte le caratteristiche che hai elencato, sono quelle che anche io riconosco nelle donne e che mi piacerebbe riuscire ad esprimere, per questo le sottolineo nelle mie illustrazioni. Anche quest’unione tra il classico e il moderno mi sta molto a cuore perché so di proporre in larga parte degli stereotipi ma non voglio fermarmi lì. So di proporre qualcosa di antico ma spero di mostrarlo sempre in evoluzione.

Quindi è per questo che gli uomini sono praticamente assenti nei tuoi lavori se non per figure maschili spesso riconducibili ad animali di compagnia? Chi sono gli uomini di Makiko?

C’è qualcosa che non mi permette di disegnare gli uomini, o degli esseri maschili, perché probabilmente non mi ci riconosco. Io voglio ripetere e riproporre la mia realtà attraverso i disegni e solo rappresentando delle ragazze riesco a trasmettere qualcosa di me. L’uomo lo vedo, e lo sento, ancora troppo distante per riuscire a racchiuderlo in un disegno. Ma ammiro molto gli uomini che riescono a riconoscersi nei miei lavori.

La parte mancante è un’elemento ricorrente del tuo mondo. Mi affascina l’incompletezza. Le tue donne sono sempre prive di qualcosa ma hanno colmato quel vuoto mostrandolo e rendendolo parte della loro femminilità. SI può vivere incompleti o si deve sempre ricercare la completezza?

Ti ringrazio per questa domanda, mi sembra molto bella, anche se non ho mai pensato veramente che l’incompletezza vada completata. Il fatto che io avverta il mio stesso corpo come mancante di qualcosa è in realtà una fonte di ispirazione continua perché è proprio perché mi manca una parte che io so cosa sia la mancanza e riesco quindi a esprimerla. Gli esseri umani sono animali e quindi imperfetti, ma è proprio quell’imperfezione a renderli esseri umani.

Guardando le tue opere sembra che la sensualità non sia solo figlia della carne ma anche della meccanica. Che sia legno o ferro, gabbia o strumento, l’aggiunta meccanica rende unica ognuna delle tue protagoniste. La sensualità è nell’unicità?

Credo che la bellezza derivi dal contrasto, quindi non solo da quello che ci dà la natura, ossia il corpo, ma anche dalle cose artificiali.
E’ nel contrasto che risalta la bellezza dei diversi elementi, per questo da un corpo naturale possiamo veder spuntare un arto di ferro, magari abbellito da un bel vestito da un velo. Ed è proprio da questo contrasto che viene la bellezza.

Da anni curi le copertine del trimestrale Nico. La prima volta che lo comprai ero ad Hong Kong ed ero stato rapito dalla tua copertina senza ancora sapere che fosse opera tua. Che ci dici della tua esperienza come copertinista?

Quando si è trattato di lavorare per la rivista erano tutti lavori già pronti. Mi avevano chiesto di fargli vedere alcune delle mie cose e io avevo portato con me quanto fatto fino a quel momento. A loro piacque e presero tutto,  quindi non erano cose nate direttamente per la rivista. Altre, fatte in seguito, invece erano più mirate all’oggetto in sé, così come quelle nate per le copertine dei libri arrivano da ispirazioni ancora diverse.

Il tuo è un mondo di banchi e neri netti, illuminati, rarissime volte e soltanto a tratti, dall’arrivo del colore. Che non sembra neanche nascere con l’opera ma aggiunto a lavoro completo. Che rapporto hai coi colori?

Ho iniziato con i lavori in bianco e nero. E ragiono sempre in termini di bianco e nero. Però sul lavoro spesso mi chiedono di aggiungere colore e il fatto che sia solo in pochi e determinati punti è una scelta. Quando coloro tutto un mio disegno mi sembra sempre di appiattirlo e le mie cose colorate infatti sono molto simili a certi cartoni animati. Quando ero più giovane adoravo fare disegni colorati ma quando ragiono in ottica professionale o espressiva ammetto che sto ancora studiando quale potrebbe essere il mio modo di mettere colori. Non è una cosa che escludo dai miei ragionamenti, o che evito a priori, mi trovo soltanto a metà strada del percorso per capire come gestirli al meglio, in futuro.

Makiko, ti ringrazio per la tua disponibilità, sono veramente soddisfatto di questa chiacchierata.

E’ stata una conversazione interessante. Mi hai fatto riflettere e mi hai portata a dare  delle risposte a domande che magari io, da sola, non sarei arrivata a pormi.

Ogni incontro è uno scambio, no?

Sì. Io non mi aspettavo che ci fosse quest’intervista oggi, è stata una cosa inaspettata. Ma ne sono contenta perché grazie a questo tipo di confronti capisco come possano venir percepite le mie opere, a volte con una profondità quasi maggiore di quella che ci metto io nel disegnarle.

A questo punto, Martina preme stop sulla videocamera, e il risultato delle sue riprese, mostra un’intervista ancor più integrale di quella che avete appena letto.
Se parlate tranquillamente il giapponese, vi consiglio di ascoltare le risposte di Makiko tramite la sua viva voce e sarà una nuova sorpresa, altrimenti potrete accontentarvi dell’orrida inflessione romana del sottoscritto.

http://www.youtube.com/watch?v=OdWzr0rHE_g

http://www.youtube.com/watch?v=D9so44DqCTc

Conclusa l’intervista, Makiko ha chiesto di essere immortalata insieme a tutte le ragazze della crew che, tra video, foto e traduzioni, si sono date un bel da fare per contribuire alla realizzazione di questo post.

E ha deciso di salutarci impreziosendo le nostre copie del suo nuovo artbook

con dediche e disegni.

Guardarla disegnare è stata l’insperata emozione conclusiva.

http://www.youtube.com/watch?v=ggY3jh0Qckg

E dopo aver salutato e ringraziato la meravigliosa Andrea che, insieme a Dario, ci ha permesso di realizzare quest’intervista, siamo andati via, tutti un po’ più contenti.
Poi ci siamo guardati e abbiamo capito che mancava qualcosa.

Siamo rientrati e l’abbiamo trovato.

Ora non manca più niente.
Proprio perché dalla completezza siamo ancora, e fortunatamente, troppo lontani.

Prosegue la mia collaborazione col bel sito musicale Beat Beat Theory.
Questo un estratto dal mio nuovo articolo, dedicato al concerto tenuto da David Pajo all’Init:

“Eppure Tu chi sei? Continua ad essere la domanda più comune dopo Come stai?
E mica importa che nessuno veramente ti risponda mai.
E’ l’immensità che rotola in retorica come una rima
da inserire tra un saluto, un addio, un amici come prima.
Eppure pensa a quanto sarebbe meglio: Che fai?
“Quel che vedi e senti. Ti piace? Son contento.”
E non più sentirsi chiedere Chi sei?
Da gente che non vuole il gioco ma solo soluzioni.
Eh, arrivate presto, voi, tipi da pagina quarantasei.
Sono trentatreanni che ci provo ma non l’ho mai capito.

Io sono i nomi che mi do ogni mattino. Forse.
Che pensiero cretino.

Ma fa bene David Pajo.
Che si nasconde mostrando solo il cosa e cambiando ogni volta il chi.
Perché se la persona non esiste non può essere trovata,  ma soltanto indovinata.

Le prime tracce, come in un romanzo di poco conto, erano già chiare, stampate in copertina tra i nomi scelti per le sue band adolescenziali: “Obscene Routine”“Solution Unknown”.

Dichiarazione d’intenti.

Giù in garage come in capo al mondo.
Slint, King Kong , Oldham, For Carnation, Tortoise, Stereolab, Royal Trux, , Bush League, Zwan, Peggy Honeywell, Yeah Yeah Yeahs, Interpol.
E con loro, lui, tra gli studi, i palchi e le lettere piccole di qualche booklet.

M, Aerial M, Papa M, Pajo, e solo infine, David Payo.

Dall’ombelico all’universo e ritorno.

Stasera all’Init, ha appena finito di suonare.”

http://www.youtube.com/watch?v=lxnyXDzW7oY&feature=relmfu

Il resto del testo, le altre foto e soprattutto i video di buona parte del concerto, li trovate CLICCANDO QUI

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Yoanne Lemoine & Woodkid

14 giugno 2012 da Mauro

Yoann nasce il 16 maggio del 1983 a Lione.

Di Woodkid non si ha una data di nascita precisa, quello che sappiamo è che la sua comparsa pubblica sulle scene è avvenuta il 28 marzo 2011 a Parigi.

Il primo è un regista di spot animati e videoclip musicali, ma anche un apprezzato fotografo e grafico.
Il secondo è un musicista che con sole 5 canzoni e una manciata di remix è riuscito a creare un inedito miscuglio di folk orchestrale, epica da new wave ed elettronica emodanzereccia.

Nei due videoclip di Woodkid, diretti proprio da Yoann Lemoine i due raggiungono la summa (momentanea) della loro unione artistica ei loro percorsi video/musicali arrivano ad incastrarsi in un perfetto unicum che rivela la verità:

Yoann Lemoine E’ Woodkid.

Ma andiamo con ordine.

Yoann Lemoine nasce sfigato.

L’unione dei geni dei suoi famigli hanno dato vita ad un mezzo hobbit idrocefalo, pelato e con la faccia scema.
Uno che versa in una situazione simile, e per di più paVla fVancesé, cosa diavolo può fare per sopravvivere?

Si iscrive ad una scuola di illustrazione e animazione, si sposta a Parigi e dopo aver frequentato un corso alla H5 (famosi per aver vinto l’oscar col corto Logorama) approda alla BUF Compagnie dove, sotto la direzione di Luc Besson, anima Arthur e i Minimei.

Uh.

Soddisfatto ma non appagato, Lemoine vuole saperne di più e si butta sul live action riuscendo a infilarsi come centoduesima unità sul set di Maria Antoinette di Sofia Coppola.

Il suo gusto per la messa in scena barocca, pulita e minimalmente kitch inizia a formarsi, viene notato da Hype Williams e David LaChapelle e subito messo sotto contratto per la loro casa di produzione.

Lemoine riceve nel frattempo una fracca di premi per il suo divertente spot di sensibilizzazione per l’utilizzo del profilattico nella prevenzione dall’Aids

ma è grazie alla HSI che in breve tempo inizia a dirigere videoclip per Taylor Swift, per Mistery Jets fino ad arrivare a Moby e Katy Perry.

Sono video semplici, di presa immediata e con poche pretese. Niente per cui valga la pena soffermarsi.
Ma è in questi video che la sua estetica si mischia a quella dei suoi protettori, si sporca con i ralenty e le virate modaiole dell’Anthology più nostalgica e inizia ad identificarsi un suo stile.

Il video di Born to die per Lana del Ray

e, soprattutto, quello di Blue Jeans,

mettono a fuoco, per la prima volta e nitidamente il suo vero talento.

Ma stiamo sempre e comunque parlando di lavori su commissione e uno come Lemoine non è nato per mettersi semplicemente al servizio degli altri.

“Iron”, l’ep con cui si affaccia al mondo musicale dietro lo pseudomino di Woodkid ha forti venature cinematografiche.

La scala emotiva dei quattro pezzi che lo compongono rivela le diverse sfaccettature della sua personalità: dalla malinconia appena pizzicata di Brooklin,

all’incedere orchestrale del piano di Baltimore’s Fireflies,

fino alle note conclusive del nascondino dolce e vittoriano di Wasteland.

Ma è nell’iniziale title track, e soprattutto nel suo videoclip che si rivela appieno la potenza epica ed apocalittica del suo stile.

Guardare in HDissimo/sentire/sbalordirsi per credere:

Pubblicità, videoclip, cinema, bianco e nero, fotografia, nouvelle vague, rallenty, analogico, digitale, design, agyness deyn, tattoo teatro, moda, carrelli verso destra e track sempre in avanti, verso la scoperta, e mai indietro che le cose da lontano non si capiscono. La preparazione, l’urlo, la battaglia, la rivoluzione. Le fiamme, il sermone, la morte. La nostalgia. La sconfitta.
L’ordine, speculare e precostituito, da abbattere. Sempre.

Queste le (due) chiavi per entrare nel vero mondo di Woodkid.

Le stesse che servono per aprire una porta ancora più grande, annunciata dal singolo Run Boy Run e che porterà all’uscita del suo album di debutto “The Golden Age”nel mese di settembre 2012.

“Run boy run” mantiene tutte le promesse fatte dall’EP precedente.
Si presenta come il brano che i Depeche Mode cercano di fare da anni senza riuscirci ma allo stesso tempo è appartiene fortemente al percorso musicale di Woodkid.
Nell’utilizzo sempre più incalzante delle percussioni, nelle aperture melodiche e soprattutto nel caratteristico timbro vocale (figlio di un Antony minore) è impossibile non riconoscere il marchio di fabbrica.

Ma anche in questo caso, è con l’arrivo del videoclip che il suo percorso raggiunge il compimento.

Un videoclip che di Iron è la naturale prosecuzione

e che, oltre agli elementi già identificati e perfettamente riconoscibili, aggiunge quella magia finora solo ventilata e la poesia materica delle opere di Maurice Sendak.

A questo punto, restiamo in attesa.

Di scoprire se il ragazzino vincerà la sua battaglia.
Se la vincerà Woodkid col suo album d’esordio.

E soprattutto se la figura crossmediale di Yoann Lemoine, che secondo me è l’unica alternativa espressiva, concreta e percorribile all’alba del secondo decennio di questo secolo, continuerà a raggiungere i suoi obiettivi, oppure no.

P.S.
Sull’iTunes Store, Iron Ep sta a due iuri e novantanove.
Io fossi in voi, al pelatino ce li darei.

Harpun.

13 giugno 2012 da Mauro

Se pensate che la logica del nulla muore e tutto si trasforma si adatti perfettamente soltanto alla materia, vuol dire che non avete mai avuto un’idea.

Ad esempio un disegnatore può leggere un articolo interessante su una ragazzina australiana che è sopravvissuta alla temibile cubomedusa e farsi venire l’idea di darne un’interpretazione di questo tipo:

Uno sceneggiatore invece, guardando quel disegno potrebbe avere a sua volta l’idea di una ragazzina armata di arpione che combatte gli incubi.
E affiancargli un tipo strano, saldamente ancorato alla realtà.

Potrebbe poi, ad esempio, parlarne al disegnatore di cui sopra e da questo primo flirt far nascere Joshua

e dare un nome a quella ragazzina lì: Rebecca.

A questo punto, ai due belli e soddisfatti, non resterebbe altro che farsi venire l’idea per una prima storia in cui iniziare a muoverli.

E lo fanno.

Harpun nasce ufficialmente sulle pagine del free-press Comic-Soon distribuito alla scorsa edizione di Lucca Comics & Games ed edito da NicolaPesceEditore.

Già con quella prima apparizione, i due bizzarri personaggi attirano l’attenzione di un manipolo di lettori e di diverse case editrici.
Il caratteristico segno di Federico Rossi Edrighi inizia a rimbalzare tra i passaparola degli addetti ai lavori e tutti sono curiosi di sapere cosa ha in testa Giovanni Masi.

Il proposito, per il momento, è quello di continuare a portare avanti fieramente il concetto della fruizione libera, per cui, è apparso immediatamente chiaro ai due autori che Harpun dovesse ritornare a quella che era stata la sua prima e più naturale incarnazione: quella digitale.

Il 7 novembre 2011 nasce harpun-comic.blogspot.it.

Da lì, a suon di aggiornamenti settimanali, Harpun è diventato, ancora una volta, altro.

Via cubomeduse, via storiella autoconclusiva legata ai miti, dentro la grande storia del primo incontro tra Joshua e Rebecca.
Il cambiamento passa dal contenuto alla forma e dal fumetto incrocia la prosa e finisce a giocare con nuovi formati e diverse piattaforme.

Nato dal blog omonimo, la storia raccontata da Giovanni Masi e Federico Rossi Edrighi è passata per le pagine di altri siti, è stata condivisa su Facebook ed è arrivata a far bella mostra di sé anche nell’iBook Store – primo fumetto digitale italiano a raggiungere questo traguardo – per essere apprezzata maggiormente dai possessori di tablet.

Oggi, per Harpun è arrivato il momento di tracciare un primo bilancio.
La storia pensata per il digitale è arrivata alla sua conclusione ed è il momento quindi di una nuova, necessaria e già annunciata trasformazione.

GP Publishing pubblicherà in volume la versione cartacea di Harpun.
Una semplice riproposizione di quanto abbiamo già visto online?
Assolutamente no.

Giovanni e Federico hanno avuto l’idea di trasformare quanto già pubblicato nella prima parte di una storia molto più ampia che svilupperà ulteriormente i rapporti tra i due protagonisti.
E di arricchire il tutto con un bell’apparato di note e dietro le quinte.

Per cui esiste, e sempre esisterà, una versione di Harpun digitale, che nonostante la prima storia sia bella e conclusa continuerà ad essere il punto di riferimento primario per i fan di Joshua e Rebecca.
A questa, si affiancherà una versione in volume che si ripromette di colmare il gap per tutti quelli che non rinunciano all’odore della carta e al piacere di sfogliarla.

E poi? Quale sarà il successivo passaggio?
Non è stato ancora annunciato ma è sicuramente questione di tempo.

Sapete, la logica del nulla muore e tutto si trasforma può funzionare per la materia, ma è con le idee che trova il suo reale compimento.

Oggi stesso, sul più cazzuto blog musicale italiano, ho l’onore di inaugurare una mia personale rubrica settimanale.

A partire da questo lunedì infatti, e per tutti i prossimi in cui riuscirò a mantenere l’impegno, sulle pagine di Beat Beat Theory, troverà posto LIVE 2 ME, uno spazio in cui recensirò concerti, mostrerò video e foto e scriverò le mie solite e varie amenità.

Un prolungamento di questo blog quindi, inserito all’interno di uno scrigno di perle, spesso notevoli, e sempre attuali.

Se non lo conoscete, conoscetelo e conservatelo gelosamente.

Per quanto mi riguarda, io comincio la mia serie di articoli con la prima parte del reportage dal Primavera Sound Festival.

La seconda parte, tanto per iniziare fin da subito a contraddire l’assunto iniziale, verrà pubblicata domani.

Eccovi un estratto:

Non sono mai stato a un festival musicale.
Anzi, no, non è vero, ho iniziato subito dicendo una cazzata.
Non sono mai stato a un festival musicale all’estero, ma per alcuni di quelli italiani ci sono passato eccome. Ad Arezzo Wave vidi per la prima volta i C.S.I.

Al Tora!Tora! Gabri perse la verginità e alla prima edizione degli Indipendent Days di Bologna mi trovai, nella stessa notte, in una tenda trascinata come un’arca dal diluvio universale, in autostrada a cantare in coro con Antonio pur di tenerci svegli e in un autogrill che mi svelò il segreto delle docce per i camionisti.

Capirete, dopo tutto questo, che i Turbo Negro potevano anche mettersi a suonare sulle spalle dei Queens of the Stone Age (true story) ma avrebbero trovato poco posto nei miei racconti.

Per il Primavera Sound Festival ho deciso, quindi, di fare le cose per benino: biglietti acquistati il giorno prima, last second aereo e nessun albergo prenotato.

La prima regola per godersi un bel viaggio è non avere nulla da perdere, così – zaini in spalla e rapida successione di tre mezzi di locomozione: scooter/aereo/taxi – io e la mia fanciulla ci siamo ritrovati sani e salvi in Plaza de Espana.

Da lì, trovare un tre stelle nei pressi del Parc Del Forum è stato semplice, ritrovarsi su un set di Public Disgrace semplicissimo, accreditarsi e ricevere i nostri braccialetti per l’ingresso al festival, come bere un bicchier d’acqua.

Per scoprire il resto e vedere noti cantanti benedire la folla pisciandogli addosso, ascoltare la voce più bella che sia mai stata udita sul pianeta, mirare la splendida patataggine di Madelaine Hart e sbirciare nel prossimo album degli XX, non dovrete fare altro che CLICCARE QUI.

Buona lettura.
Buon ascolto.
Buon Beat Beat.

Primo passo.

Il più difficile e quindi il più cauto.

Ho scritto questa storia con l’unica intenzione di dimostrare il mio amore per il personaggio inventato da Roberto e Lorenzo e l’ho fatto in punta di piedi.
Volevo che editore, ideatori e lettori avessero la netta e chiara sensazione che il nuovo arrivato fosse lì semplicemente per raccontare storie di John e non per mettersi in mostra esibendosi su un palco non suo.
E l’ho fatto parlando di cinema e di rapporto coi padri: i due argomenti più importanti della mia vita.
Dopotutto, fu proprio il consiglio di Roberto di scrivere sempre e soltanto di ciò che conosco a farmi passare la paura del debutto.
Il risultato è stato una storia di John Doe indirizzata a tutti.
A chi non ne aveva mai sentito parlare e a chi, dell’uomo che era stato Morte, prima di diventare Dio, conosceva ogni particolare.

Ai disegni: il solido e rassicurante Luca Maresca, una garanzia.

Secondo passo.

Negazione, e quindi conferma, del primo.

L’intenzione era quella di muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto alla prova precedente.
Una storia indirizzata soprattutto ai lettori hardcore del personaggio ma che potesse incuriosire anche i nuovi arrivati.

Lo scopo, come al solito, era scoprire ciò che non si conosce.

E io volevo scoprire alcuni lati di John che avevo intravisto ma di cui volevo essere sicuro.
A volte, ciò che vediamo negli altri – reali o meno – non è altro che il nostro riflesso e mi interessava infilarmi nelle pieghe per escludermi e toccare qualche nervo.
John di fronte ai diversi sé di diversi momenti della sua vita e davanti ad una donna a cui, per la prima volta, non poteva mentire.
La contraddizione di credere in un unico dio quando lo sappiamo essere espressione di una moltitudine.
Una storia grande fatta di minuscole storie brevi. Un’esperimento vecchio ma sempre imprevedibile.

Ai disegni: Una valanga di esordi variegati e difficilmente convogliabili. A Valerio Schiti la parte del leone, e poi Valerio Nizi, Manolo Morrone, Federico Rossi Edrighi e Marco Marini.
Talenti inaspettati per un seriale da edicola perché è questo che John Doe fa e ha sempre fatto: colpire forte e duro portando ciò che sta sotto, davanti agli occhi di tutti.

Terzo passo.

Giocare col genere nella piena libertà della prima e dell’ultima storia di John Doe, fumetto horror.

Appena John venne punito con la Prigione dei Generi Narrativi, chiesi subito di poter fare un racconto dell’orrore.
L’orrore di essere gli Ultimi, che in comune con i Primi hanno soltanto il privilegio di essere Unici e quindi Soli.
Una storia d’amore, fin dalla copertina. E una storia di zombi.
Ma anche un omaggio sincero al fumetto popolare italiano – a partire dall’inchino iniziale a Dylan Dog, di cui John Doe è stato per diversi motivi, figlio – che viene mostrato alla stregua di un mondo di morti viventi in cui, ad oggi, riescono a sopravvivere soltanto le icone ben riconoscibili di un imbattibile Cowboy, di una Ladra compagna di un ladro che non sbaglia un colpo, un Topolino, e un adolescente irrequieto, forse troppo preso dal suo ombelico (come troppi autori contemporanei) per pensare al resto.

Un sottotesto fin troppo celato, al servizio di una storia che raggiunge la sua conclusione lieta nella pace della fine.
Non nella ribellione che rifiuterebbe un diverso ordine delle cose, ma nell’accettazione di uno status nuovo.

Ai disegni: Federico e Marco. Due fratelli. Due geni assoluti. Due persone con cui vivo e lavoro da anni tra cinema e fumetti indipendenti.
Finalmente, la loro bravura, in edicola e a portata di tutti.

Quarto passo.

Lavorare a quattro mani, per la precisa volontà di farlo.

Ogni mia sceneggiatura di John Doe è stata supervisionata da Roberto.
Mi ha aiutato sui dialoghi, a volte ha migliorato una regia, altre ha eliminato inutili voci fuori campo, spesso ha lasciato le cose com’erano.

Poi c’è venuta voglia di lavorare insieme.

Come per Dylan Dog, le idee si sono rimbalzate da una parte all’altra. Lì l’abominio dei talent show, qui le acrobazie, centrali e periferiche, della pornografia.
Alla fine ne è uscita la nostra storia più comica e più romantica.
Abbiamo parlato di coppie, di incontri, di incomunicabilità, di controllo, di libertà, di amore – e quindi – di morte.
Lo abbiamo fatto di persona, per mail o al telefono, ridendo o scontrandoci sui vicoli ciechi ed esaltandoci per le idee quando una nuova strada annullava le precedenti.

Abbiamo riconosciuto, guardandoci bene, il meglio dell’altro e abbiamo provato a metterlo su carta.
Se ci siamo riusciti, o meno, è poco importante. A noi è servito.

Ai disegni: Flaviano Armentaro. L’unico che col suo stile dinamico, cartoon, sexy e stilosissimo, poteva dare corpo ad una storia simile rendendola sempre credibile e divertente. Un altro incredibile talento che dall’animazione e dal sottobosco fumettoso è approdato in edicola, dimostrando che la linfa nuova è ovunque intorno a noi. Bisogna soltanto riconoscerla.

L’ultimo passo.

Una nuova storia a quattro mani, perché le sfide grosse è difficile vincerle da soli.

Per le mie ultime parole su John Doe, ho scelto una storia di super eroi e di eroi super.
Una storia che, in linea con le velleità del genere, fosse epica, gigantesca, definitiva.
Una storia, quindi, che non sarei mai stato in grado di scrivere da solo.

Solo insieme a Roberto avrei potuto maneggiare questo tipo di materia narrativa senza bruciarmi le mani.

Dalla leggerezza comica e minimale della nostra precedente collaborazione, alla cupezza crepuscolare di Flettendo i Muscoli il passo è stato più breve di quello che ci si possa aspettare.
Volevamo parlare di eroi e abbiamo parlato di quelli che ci circondano tutti i giorni.

Abbiamo riflettuto sul nostro mondo e della direzione in cui il fumetto italiano sta puntando.
Abbiamo invocato il ritorno degli eroi perché Negazione è un nemico che non muore mai.
Si nasconde nelle righe di un editor che boccia un progetto perché troppo innovativo, nelle storie mai scritte per paura o per la stanchezza di un ennesimo rifiuto.
Nell’omologazione.
Nelle teste basse.
Nella rinuncia di voler cambiare il mondo.
Nello smettere di tentare.

Negazione è un nemico enorme ma si sconfigge semplicemente rialzandosi. Applausi, e dedica finale, a chi non si è ancora stancato di farlo.
E non si stancherà.

Ai disegni: Federico Rossi Edrighi alla sua prima prova come autore completo. Novantaquattro tavole di soluzioni grafiche sorprendenti, inedite, innovative. Zero scuola, puro stile. Una potenza e un controllo tali che neppure la più ignobile delle stampe è riuscita a mettere in ombra.

Valore aggiunto: i grigi di Sabrina Ariganello che hanno evocato, per noi, le suggestioni dei colori tipici dei comics.

Cinque passi con John.

Cinque copertine di Davide De Cubellis che hanno aggiunto agli albi un valore inestimabile a prescindere di qualsiasi cosa ci fosse all’interno. Cinque immagini che hanno fissato le parole in un momento, mostrandone il loro lato migliore.

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Tirando una linea scopro di aver parlato principalmente di cinema, padri, religione, psicanalisi, amore, solitudine, orrore, zombi, pornografia, supereroi e fumetti.
Che in effetti, in un modo o nell’altro, sono gli argomenti che maggiormente mi hanno accompagnato negli ultimi quindici anni della mia vita.

Tirando una linea scopro di aver ammazzato John quattro volte su cinque. Tutte, tranne la prima.
Che in effetti è un bel segno di insicurezza da parte di un autore che vuole riuscire a domare una creatura senza sentirsene all’altezza.

Tirando una linea scopro di aver fatto quello che faccio sempre, circondarmi della mia famiglia.
Collaborare con nuovi artisti senza dimenticare il legame coi miei fratelli. Che il fato ha voluto fossero anche le persone più belle, pulite e talentuose che io conosca.

Tirando una linea, infine, scopro di essere soddisfatto di ogni singolo momento di questa esperienza.
Che è più di quanto si possa sperare nel conseguimento della serenità.

Tra due mesi, il gran finale.

E pur sapendo quale sarà l’ultima mossa del nostro John, me lo godrò da lettore.

Che gioia.

Grazie, veramente, a tutti.

Stasera inizia la veglia.

7 giugno 2012 da Mauro

Oltre ai nomi in cartello, ci saranno anche Walter VenturiGiorgio PontrelliEmiliano MammucariSilvia Califano, e Davide De Cubellis.

John Doe non è ancora morto.
Evviva John Doe.

Saranno graditi i fiori e gli abiti discinti.

Il Napoli Comicon è finito da qualche settimana e, causa delirio di impegni, mi sono preso il mio tempo per stilarne un bilancio.
Cosa temevo?
Che la nuova incarnazione della fiera mi avrebbe irrimediabilmente deluso e che avrei rimpianto la spettacolare location di Castel S.Elmo.
Intendiamoci, non che a S.Elmo la situazione fosse più sostenibile.
L’anno scorso sembravamo tutti comparse di un brutto adattamento de La maschera della morte rossa di Poe, stretti tra di noi a farci i complimenti per le rispettive pubblicazioni e a bearci di poter passeggiare tranquillamente per le vie del castello finalmente liberi del caos generato da quel fastidioso pubblico pagante.
La scelta di un radicale cambio nella disposizione logistica del Comicon serviva, sulla carta, a risanare quella scissione che era avvenuta tra i diversi mondi che gravitano intorno al fumetto, nella speranza di ottenere un risultato che potesse finalmente competere con quello che è riuscita a raggiungere Lucca Comics & Games negli ultimi anni.

La sfida è stata vinta?
Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Aldilà dell’aspetto meramente economico (sono stati strappati un numero di biglietti tali da far gridare al record), la nuova Napoli Comicon è riuscita nella missione apparentemente impossibile di coniugare i diversi elementi di interesse e attrazione in un’unica, agevole soluzione.
Dalle mostre, alle sfilate dei cosplayer, passando per le premiazioni, le conferenze e la vendita diretta allo stand, tutto ha funzionato a meraviglia.
Grazie anche allo splendido sole che ci ha benedetto per tutti i giorni della fiera, l’aria nei corridoi non è mai mancata, l’accesso alle aree stampa e pro era comodo e ben organizzato e nonostante il grande afflusso di gente,  passeggiare per gli spazi espositivi, è sempre stato un piacere.
L’esperienza fiera, grazie anche alla competenza, all’attenzione e alla disponibilità dello staff preparato da Claudio e Alino è stata indimenticabile.

Tutto rose e fiori quindi?
Sì, con l’eccezione di una spina.

L’anello debole di tutta questa meravigliosa catena è stata la biglietteria, davanti alla quale ho assistito personalmente a code interminabili.
Sì, esattamente le stesse code interminabili di Lucca Comics & Games, ma questo non vuol dire che non si debba iniziare a fare qualcosa per evitare situazioni simili.
L’esistenza di queste convention è dovuta alla presenza di pubblico e quindi è fondamentale che al pubblico vengano spalancati i cancelli e non che, per entrare, venga costretto ad arrampicarsi su un ponte levatoio circondato da coccodrilli.
L’ingresso ad una fiera di fumetti deve spingere il pubblico a partecipare, non costringerlo a desistere (come è successo a più di un mio amico).

In ultima analisi poi, sapete cosa potrebbe invogliare a passare ancor più tempo tra le mura del Comicon?
Una bella e variegata area ristoro come si deve.

Per l’importanza che sta acquisendo anno dopo anno questa fiera e per l’enorme location in cui ha la fortuna di svolgersi, non è più il caso di affidare il ristoro a due chioschi coi panini secchi e alla bancarella dei noodles.
Gli spazi all’aperto vanno sfruttati anche per poter allestire degli stand che possano ampliare l’offerta delle proposte alimentari con panini, kebab, noodles, insalate, pizza, dolci, bibite.
Maggior offerta vuol dire anche poter contenere i prezzi e far sì che, per mangiare, non si sia costretti a lasciare la fiera intasando i ristoranti vicini.

Ma questo, è il consiglio di un ciccione reduce da festival in cui oltre a godersi le meraviglie che lo circondavano, passava anche il tempo mangiando come un porco.

Detto ciò, quindi, prima di salutare definitivamente per quest’anno l’organizzazione del Napoli Comicon, ringraziandola per aver invitato, supportato e sOpportato i 5Blogger, vi lascio con una serie di immagini e due video importanti che sono finiti dritti dritti nel bagaglio delle cose che porterò sempre con me.

Buona visione.

L’arrivo in Ca5a Blogger e la scoperta che per connettersi ad internet bisognava disegnare a terra un pentacolo col nostro sangue e sperare in qualche demone benevolo.

La sirenetta Rrobe che revisiona con me i dialoghi del nostro ultimo John Doe sotto lo sguardo attento e perplesso di Gud.

La prima foto in team.

L’incontro per la presentazione del volume sui 50 anni di Diabolik, ma soprattutto la faccia fatta dal sommo Castelli quando ha scoperto che un bambino gli aveva fottuto l’idea di farsi impreziosire il volume da Palumbo.

Occupy Diabolik.

La strana coppia.

Lo stile di Diego Malara.

La presenza, la preparazione e l’attenzione costante della maestra Viola.

Il paesaggio lunare. Un piccolo pasto per l’uomo.

Lo stakanovismo di Corbò (che qui, probabilmente, chiedeva a Castelli quanto avesse rosicato per il bambino aveva il disegno di Palumbo e lui no).

Le più belle della fiera.

I più belli della fiera.

E il disegno che mi ha donato quello tra i due che sa disegnare meglio.

Tuono tra i rami (che, messa così, sembra il titolo del prossimo film di Tony Scott).

Pierz e il suo omaggio a John Doe.

L’ansia dei nominati.

La promessa di Ratigher che lo ha automaticamente eletto a Re Fico del mondo.

La nonchalance di Corbò nel passeggiare per Napoli.

Gli exploit di un Bocchio straordinariamente in forma.

I colori di Andrea.

E quelli di tutti i 5Blogger.

La sopportazione di Noemi.

E i modi in cui il nostro Cap porta avanti il collettivo.

Roberto e la sua attenzione nel rispettare i cartelli.

La bambina che ha detto il mio nome prima di quello della madre.

E la madre, che adoro, insieme a quel sant’uomo del marito.

IL restauro. IL.

E la gioia di Laura, che c’era.

E la nostra che, non c’eravamo ma adesso sì.

E la conversazione, avvenuta all’ombra del Paz, con quell’illuminato di Andrea Ciccarelli, direttore editoriale di  SaldaPress ed una delle più belle teste di fumettolandia.
Una gioia sentirlo parlare. Ascoltatelo anche voi.

http://www.youtube.com/watch?v=VrRTqx1DXOA

Quello che non avremmo mai voluto vedere.

E l’arrivo della cosplayer espressa. Quella che appena s’è fatta un taglietto alla sua mano, ha trovato subito il modo per approfittarne!

La piratessa ubiqua.

E le due maledette che mi hanno ricordato quanti anni ho.

Mauro: “Ah! Quello zaino! Praticamente tutta la nostra generazione lo usava per portarselo in gita!”
Maledetta: “Questo? Boh, è di mio padre.”
Mauro: “…”
Maledetta: “Anche tu hai una figlia della mia età?”
Mauro: “Scusa, ma quanti anni mi dai?”
Maledetta: “Non lo so, quaranta? Quarantuno?”

MUORI, RAGAZZINA!
ORA.
SEMPRE.
OGNI GIORNO.

E infine l’immenso Tony Sandoval:

geniale autore messicano del quale Tunué ha pubblicato questi due imperdibili volumi:

e che mi ha fatto dono di questo splendido disegno:

Se vi sembra bello così, guardate che magia è riuscito a sprigionare, realizzandolo:

http://www.youtube.com/watch?v=tinRNABbpFw

E per questo Napoli Comicon è tutto.
Veramente.

Se volete leggere i reportage dei giorni precedenti, cliccate

QUI

QUI

QUI

e

QUI

Dopo due giorni passati al Napoli Comicon, l’organizzazione decide che la cosa migliore per tutti è tenere i 5Blogger il più lontani possibile dalla fiera.
Come dargli torto?
Ci organizzano così un tour alla Pedamentina, che io in testa mia fraintendo e trasformo in PeNamentina facendomi tutto un film scemo in cui la PeNamentina è questo luogo in cui nottetempo venne fatto fuori un tizio colpevole di alito pestilenziale.
Usciti da Ca5a Blogger il fato ci pone davanti alla nostra santa protettrice del giorno e Paolo sente di doverle rivolgere un’accorata preghiera.

La purezza cristallina di cui Paolo viene infuso, colpisce anche Andrea, e i due, ormai privi di freni inibitori si trasformano sotto gli occhi di tutti nei cosplayer delle Tokyo Dolores viste la sera prima.

Il pubblico presente sembra gradire parecchio

Parecchio.

E riusciamo a uscirne vivi soltando consegnandogli Paolo e permettendogli di farne brandelli.

Addio Paolo, sei stato un grande amico, un grande artista e soprattutto una colonna dei 5Blogger.
Ci mancherai.

Con quarantaquattro minuti di ritardo raggiungiamo Monica e Carmine che reagiscono alla nostra puntualità in questo modo:

confermandomi che Napoli è l’unica città al mondo in cui riuscirei a raggiungere una serena vecchiaia senza farmi ammazzare dai miei amici.
Lo vista da Castel S. Elmo è uno spettacolo che conosco bene, e anche senza il golfo è una roba che ti toglie il fiato.

Quello che invece ignoravo del tutto è che il Castello col cavolo che era dedicato a S. Elmo

ma a causa del fraintendimento del più lungo gioco del telefono del mondo è passato da S.Erasmo (suo nome originale) a S.Eremo, fino a S.Ermo per poi prendere il nome attuale.
Spero di morire prima che qualche scellerato arrivi a trasformarlo in S.Emo, protettore dei Tokyo Hotel, che solo questo, ci manca.

Monica e Carmine mandano all’aria il mio film scemo spiegandomi che la PeDamentina – questo il vero nome – letteralmente, sta a intendere la discesa, a piedi, dal monte.
Una discesa che, attraverso una luuuuuuna ma comoda scalinata, arriverà a portarci fino a quello che è il vero cuore pulsante di Napoli, la via che la taglia a metà: Spaccanapoli.

Ci raccontano le origini della città, anzi, delle due città, disposte su due differenti colline e di come attraverso battaglie e fortificazioni siano diventate una sola.
E mentre Rrobe, Gud ed io ascoltiamo e già twittiamo le informazioni acquisite

Andrea inizia il capolavoro che finirà poco dopo.

Monica inizia a parlarci di di terrazze e terrazzamenti, della storia urbanistica della città e di tutta una serie di esaltanti coincidenze esoteriche che hanno a che fare col quartiere di Forcella,

ma è proprio riguardo la Pedamentina che la nostra guida, tradisce una punta d’orgoglio, perché è una zona della città in pieno recupero urbano.
Ci fa capire che fino a qualche tempo fa era sconsigliato passare da queste parti, ma adesso, stanno avvenendo tutta una serie di iniziative fatte dal comune di Napoli, in collaborazione con il comitato di quartiere per riportare la Pedamentina al suo reale valore storico e culturale.
Le piacerebbe che si tornasse a percorrerla quotidianamente, ma sa che c’è ancora molto lavoro da fare.
A partire dal cambiare una abitudine ben strana.

E’ usanza infatti, dopo aver bevuto una birra in allegria con gli amici alle falde di Castel S.Elmo, effettuare una particolare raccolta differenziata, lanciando giù per le scale, la bottiglie vuote.

Tutte le bottiglie vuote.

Troviamo tracce di questa caratteristica disciplina lungo i primi due tornanti della grande scalinata,

ma fortunatamente, ben presto lo scenario cambia, e i segni del recupero sono ben presenti.

Le case e le piante contribuiscono ad un’atmosfera rilassante e intima

ed io finalmente riesco a mettere una nuova nozione nello stesso cassetto nel cervello in cui ho custodito fino ad ora ciò che mi disse mio nonno venti anni fa.

Eravamo alla fonte vicino casa, nonno stava lavando dei bottiglioni e a un certo punto, con espressione serissima mi disse: “Mauro, se un giorno scommetterai con un tuo amico a chi dei due è più veloce a svuotare una bottiglia d’acqua, ruotala in senso orario… e l’acqua se ne scapperà via prima!”
Io rimasi un po’ perplesso, mi chiesi per tutto il resto della giornata perché mai avrei dovuto fare una scommessa simile con un mio amico, e come questa informazione avrebbe potuto tornarmi utile nella mia vita.

Da quel giorno, quindi, la tengo in un apposito cassetto nella mia capoccia destinato alle nozioni che, prima o poi, dovranno servirmi a qualcosa, e adesso, a fargli compagnia, c’è la scoperta che se mai un giorno dovessi stendere i panni in discesa, mi conviene fermare lo stendino con un paio di pietre.

Richiudo il cassetto sperando di non doverlo riaprire tra altri vent’anni e mi godo il panorama dalla discesa.

A Napoli ci sono più di 400 scalinate e si dice che se si vuole conoscere veramente la città bisogna percorrerle tutte.

Da quello che sto vedendo, non ho problemi a crederci.
Il traffico è un eco lontana e noi ci muoviamo, con le voci sempre più basse, all’interno di un’oasi temporale in cui le epoche si mischiano in un archetipo che infonde serenità.

Maria Laura, una signorotta sorridente, non ci fa entrare a casa sua a causa del disordine ma ci offre un po’ di acqua e limone,

regalandoci altre chicche sulla scalinata e contribuendo a mantenere quest’aurea fuori dal tempo in cui siamo, sempre più evidentemente, finiti.

Roberto si ambienta perfettamente e diventa il protagonista di un film bello di Salvatores,

mentre Andrea decide di farsi adottare e restare lì per sempre.

Per fortuna, la signora Maria Laura gli chiude il cancello in faccia con doppia mandata dall’interno.

Io intanto mi concentro sulle scritte e i murales, che ci danno il benvenuto alla Pedamentina come fossero una perfetta allegoria del terzo cantico dell’Inferno di Dante

e ci salutano con quelli che non sfigurerebbero come raffigurazioni di Purgatorio e Paradiso.

Concludiamo così la discesa

e arriviamo a Via S. Lucia al Monte, ossia

all’inizio di Spaccanapoli.

La vista è mozzafiato, e in onore a questa via, che dovrebbe diventare patrimonio dell’Umanità, decidiamo di dimostrare al mondo che Abbey Road, in confronto, fa schifo.

Cliccate, ingrandite, e cominciate anche voi a intasare la rete con prove certe della morte di Gud e della sua sostituizione con un sosia pompiere.

Lungo questa strada, scattiamo foto, parliamo con le persone,

scopriamo la storia pulp della Madonna dei Sette Dolori,

e arrivati davanti al Chiostro di Santa Chiara, salutiamo le nostre guide ringraziandole per la pazienza e per la loro preparazione.

A questo punto, giriamo la chiave che mette in moto Via dei Tribunali, e ce ne andiamo a pranzo.

Sorbillo è andato a fuoco, quindi ripieghiamo su Di Matteo.

Io a Di Matteo ci voglio bene.
E’ stata la prima pizzeria di Napoli in cui ho mangiato e per quanto, negli anni, l’abbia sempre tradita con altre, è un piacere tornare a frequentarla.

Con i 5Blogger si mangiano pizzette, crocché, e frittatine di pasta fino alla morte e poi ripieghiamo alla ricerca di un caffè in cui tuffarci.
Lo troviamo.
E con lui, come ogni super gruppo che si rispetti, finalmente incontriamo le nostre nemesi:

QUELLI DEL MERCOLEDI’

http://www.youtube.com/watch?v=AISWzczapGI

Grazie a loro scopriamo il nostro centro, Roberto capisce di essere architetto, Gud di essere un uomo per tutte le stagioni, ed io di vestirmi bene.
Capito mamma?

Io.Mi.Vesto.Bene.

E se non sei d’accordo, veditela con la tipa dei mille colori.

Estasiati dalla conferma che il fluidismo è l’unica religione in cui credere, ce ne trottelleriamo allegramente verso quella via di mezzo tra una chiesa e un tempio massonico: la Cappella di San Severo

Per restarcene a bocca aperta davanti ai suoi tesori…

…e per pagare il nostro tributo ai due capolavori che contiene.

Il primo, sono le cosiddette Macchine Anatomiche, realizzate da Raimondo De Sangro, un tipetto ossessionato dall’immortalità e dal bell’arredo, che decise di unire le sue due passioni regalando ai posteri lo scheletro di un uomo e una donna con tutta la loro bella rete sanguigna solidificata e intatta.

Il secondo capolavoro presente all’interno, e principale ragione per cui frotte di turisti si precipitano qui da tutto il mondo, è la meraviglia delle meraviglie meravigliose realizzata da Giuseppe Sanmartino nel 1753: il Cristo Velato.

Anche dietro questa scultura le leggende si sprecano, si parla di velo aggiunto successivamente, riti alchemici e cristallizzazione…

…ma quel che è certo, è che Antonio Canova, vedendola, abbia rosicato un bel po’ e dichiarato che avrebbe volentieri donato dieci anni della sua vita pur di essere stato in grado di realizzare un’opera simile.

Purtroppo nella Cappella di San Severo, non si possono fare foto e abbiamo quindi potuto documentarvi questa visita soltanto utilizzando immagini di repertorio, ma per fortuna, nel vocabolario dei 5Blogger non esiste la parola Arrendersi!
Per questo, ci siamo precipitati a casa

(sì, volevo farvi vedere anche questa foto perché mi piace tanto)

e abbiamo realizzato un NUOVO cristo velato solo per i vostri occhi!

Questo il video che documenta la realizzazione

http://www.youtube.com/watch?v=sK1PdIGGbPs

e questo il risultato!

Tutto ciò perché vi vogliamo bene, ma soprattutto per per dimostrare che, alla fine, stringi stringi, Canova era ‘na pippa!

Erri De Luca saluta così la sua:

In te sono stato albume, uovo, pesce,
le ere sconfinate della terra
ho attraversato nella tua placenta,
fuori di te sono contato a giorni.

In te sono passato da cellula a scheletro
un milione di volte mi sono ingrandito,
fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.

Sono sgusciato dalla tua pienezza
senza lasciarti vuota perché il vuoto
l’ho portato con me.

Sono venuto nudo, mi hai coperto
così ho imparato nudità e pudore
il latte e la sua assenza.

Mi hai messo in bocca tutte le parole
a cucchiaini, tranne una: mamma.
Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra
quella l’insegna il figlio.

Da te ho preso le voci del mio luogo,
le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,
da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.

Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,
a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,
a finire le parole crociate, ti ho versato il vino
e ho macchiato la tavola,
non ti ho messo un nipote sulle gambe
non ti ho fatto bussare a una prigione
non ancora,
da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo,
a tuo padre somiglio, a tuo fratello,
non sono stato figlio.
Da te ho preso gli occhi chiari
Non il loro peso
A te ho nascosto tutto.

Ho promesso di bruciare il tuo corpo
di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco
fratello vulcano che ci orientava il sonno.

Ti spargerò nell’aria dopo l’acquazzone
all’ora dell’arcobaleno
che ti faceva spalancare gli occhi.

Io, che poeta non sono, e di madri ne ho ancora due, le saluto soltanto con un: Ciao ma’, ci vediamo presto.
E loro rispondono sempre: Mi raccomando. Oppure: Ti aspetto.
E lo fanno davvero sempre. Sempre davvero.

Auguri a voi due, allora.

che ci siete

vi raccomandate, e mi aspettate.


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