I dubbi della prima notte del 2556.
Chiudo gli occhi. Li apro. Sono a Bangkok e mi dicono che il 2555 sta per finire.
Sull’aereo in effetti faceva freddino ma non credevo di essere rimasto ibernato per 543 anni.
Meme dice che non c’è niente di male e che anzi, è una figata che sia successo proprio a noi.
Io inizio a farmi duemila pippe sulle linee temporali, sul Mauro del 2012, se esista ancora lì, se ce ne sia uno per ogni dimensione parallela, se quello di Terra 626 sia magro e se qualcuno si sia preso la briga, nel frattempo, di tranquillizzare mia madre.
Meme mi urla dal bagno di smetterla di blaterare idiozie, che i thailandesi calcolano gli anni dalla morte/ascesi di Buddha che è avvenuta 543 anni prima della nascita di Cristo, e che tra cinque minuti è pronta.
Io sento bussare alla porta della stanza, apro e mi trovo davanti lui:
Il che, fa già curriculum.
Mentre se ne va, mi rendo conto che non saprei neanche come raccontarglielo a Meme, quindi decido di non farlo.
Tanto lei è talmente presa dalla voglia di uscire e fare casino che non s’è nemmeno accorta che qualcuno ha bussato.
Scendiamo in strada e veniamo fermati da un thailandese ciccione con le guance truccate di rosso e un cappellino di paglia in testa, che dopo averci offerto da bere, si mette a cantare per strada.
Sul serio.
Ci uniamo alla ciurma, per le risposte ci sarà tempo.
Mentre ci allontaniamo, dico a Meme che è una bella coincidenza che un matto sia venuto a bussare proprio alla nostra porta per augurarci felice anno nuovo in Hawaiiano e che il nostro capodanno sia cominciato con una famiglia di pazzi che aveva deciso di festeggiare in strada. Meme mi chiede: “Chi ci è venuto a bussare alla porta?”
Sto per dirglielo ma a una decina di metri da noi partono tutti i fuochi d’artificio del sud dell’Asia, per cui, chi se ne frega del resto.
In quell’istante la nostra realtà esplode col mondo che ci circonda.
Metà dei botti che si sentono sono causati dai guidatori di tuc-tuc che si tamponano tra di loro pur di riuscire a vedere i fuochi.
Gli spiedini di pollo muoiono carbonizzati sulle griglie dei griglianti coi nasi all’insù, senza che neanche un cane se li rubi in tempo, visto che sono scappati tutti per la paura degli schioppi.
Le massaggiatrici smettono di masturbare clandestinamente i turisti e scattano coi loro iPhun delle foto che caricheranno su Fb più tardi, con la mano sinistra.
E la notte di Bangkok si illumina di un miliardo di luci.
A quel punto io e Meme abbiamo l’idea del secolo: “Prendiamo un tuc-tuc e andiamocene al centro!”
Grande!
Ma che idea pazzesca abbiamo avuto?!
Ma come ci vengono?
Siamo dei fottuti geni!
Fottutissimi geni!
Come tutti questi altri sei miliardi di fottutissimi geni.
Capiamo che in una situazione simile rischieremmo di arrivare in anticipo giusto per i festeggiamenti del 2o14 (o del 2557, fate voi) quindi decidiamo, stoicamente, di scendere.
Spinto dall’ottimismo della consorte, decido che sì, camminare un po’ non mi farà di certo male.
E quindi cammino e faccio foto.
A Bangkok basta tirare fuori la macchina fotografica e puntarla contro qualcuno per renderlo felice.
Ho visto gente menarsi per strada e rappacificarsi grazie un clic.
Coppie divorziate tornare ad amarsi.
Avete presente quella sensazione che si prova in Italia quando ci viene la malaugurata idea di fotografare un bimbo?
Quel brividino di adrenalina di chi è ben conscio che sta per arrivare il padre a gonfiarci di legnate o le guardie ad arrestarci con l’accusa di smercio di materiale pedopornografico?
Ecco, a Bangkok se fotografate un bimbo, i genitori si precipitano, sì, ma solo per farsi fotografare insieme a lui, sfoggiandolo. Fieri.
Così come le ragazze.
Scattate, quindi, e fateli felici!
Tra uno scatto e l’altro ci accorgiamo che, nel frattempo, intere strade sono state occupate:
che a vederli in foto sembra una roba rubata sul set della quarta stagione di Walking Dead, e invece a starci in mezzo era una cosa così:
In quel marasma generale si sono distinti con lode, nell’ordine:
La lolita Arale che mi chiamava Dr Slump e io non sapevo se arraparmi o menarla.
Il trans più MAPPORCAPUTTANANONPUOESSEREVERONOOOO!!! di sempre.
Il gemello thailandese di Emiliano Mammucari.
Un gruppo di rivoluzionari indiani che mi abbracciavano e poi si battevano il sudore sul petto incitandomi a fare lo stesso.
La favorita tra le candidate a Reginetta Hipster 2556.
Il bimbo che ha pisciato sul palco dello sponsor e poi c’ha imbruttito.
Adi, l’Uomo che non deve chiedere.
La maglietta più geniale della serata.
Miss Ora Esatta.
Satana e la sua prima vittima consenziente dell’anno.
La ragazza col fiocco sobrio.
Una tizia uscita da un porno che m’ha mandato Roberto e il suo – o la sua – accompagnatrice/accompagnatore.
Fate voi.
L’intessitrice cicciona di amuleti floreali e la sua compagna smilza
certamente affiliata a una qualche mafia locale.
Il tizio convinto che V fosse la maschera di un nobile francese.
Il barbone trans che vuole fare la modella.
La ragazza che ha inventato gli spiedini di uova…
… il suo consorte votato al suino…
…e la loro sorridente famiglia al completo.
Ma tutto ciò è svanito come lacrime nella pioggia nel momento in cui è apparso su un maxischermo Mr. Improbabilità.
“Chi è?” Vi chiederete voi.
L’espressione afflitta del re dovrebbe essere sufficientemente esplicativa per non farvi approfondire l’argomento.
Ma siccome so che non vi fermerete davanti a nulla ve lo rivelo io:
KALABAO
(nome scritto direttamente sul mio cell da tizio thai, e confermato da altri tizi thai)
Come, non sapete chi è?
Tranquilli, non lo sa neanche Google.
Né Youtube.
Ma a quanto pare il miliardo di thailandesi riuniti in quella piazza, sì.
E lo adorano persone di tutte le età che gli si consacrano ballando nei modi più improbabili.
Un esempio? Eccolo:
Al punto che l’unica di tutta la thailandia a cui non piaceva veniva lasciata all’angolo nel disprezzo generale.
E anche noi, sinceramente, le preferivamo l’amica coniglio.
Dopo una tappa obbligata dallo zozzone locale, che fedele al suo nome, rifilava schifezze di prim’ordine
alle quali, come forse ricorderete, io avevo già pagato dazio durante la mia ultima visita alla capitale della Thailandia, decidiamo che s’è fatta la famosa certa.
Dopotutto sono quasi le quattro, ci aspetta una lunga camminata per tornare in albergo e non vorremmo gettare alle ortiche il giorno successivo.
Passeggiamo parlando tra di noi di quanto sia bello questo popolo.
Di quanto sia solare, di quanto sia attento agli altri, partecipe, sempre sorridente e pronto a stringerti la mano… quando ecco che arriva, puntuale ed inequivocabile, il dubbio.
Da quando lo conosco ha preso varie forme, ci sono volte che si palesa apertamente, altre si rende meno riconoscibile, ma in alcuni momenti ti sbatte davanti come se ce l’avesse proprio con te.
C’è la strada. C’è il marciapiede. Ci sono le scale della sopraelevata. E c’è lui.
Porca puttana c’è lui.
E sei lì che ti fai domande (esattamente come te le facevi due anni fa) ti dai risposte e le mille carte del tuo mazzo si esibiscono nella costruzione di centinaia di castelli che crollano immancabilmente all’arrivo di lei:
La madre.
Tutta contenta che stai fotografando il figlio.
E allora vorresti dirle macomediavoloèpossibilechelotieniquipperterra!?!?! e lei si avvicina, gli sistema le coperte e poi torna a lavorare.
Insieme alla collega torna a svuotare i cestini pieni d’immondizia mentre il figlio la guarda e, nella mia testa, le dice esattamente le mie parole.
Ma Mumbai mi ha insegnato a non lasciarmi fregare dal mio mondo e a fermarmi a riflettere cercando di utilizzare i loro occhi per vedere la loro realtà.
Perché, a vederla con i nostri, sarebbero tutti da condannare senz’appello, ma i nostri occhi lì non ci vivono. Non ci vivono le nostre mani che non toccano quello che toccano le loro, i nostri nasi che non sentono i loro odori, le nostre orecchie che non capiscono quella lingua scambiandola per una cantilena.
Per cui concentro ogni mia energia nel cercare di non giudicare e di capire perché, quella madre, si senta serena e perché non ci fosse preoccupazione o disagio nel suo sguardo o nel suo modo di guardare me, la sua collega, il suo piccolo.
Ma non ci riesco, devo ancora crescere o cambiare.
E dopotutto, mi dicono, il confronto con ciò che non capiamo è parte integrante del processo di maturazione.
La strada verso casa è lunga e per trovarci in una situazione ancora diversa, come prima, basta semplicemente una foto.
Una foto scattata col cellulare, che a Meme non piace e quindi prende la macchina fotografica per scattarmene un’altra.
I tizi sullo sfondo vedono la luce del flash e ci chiamano.
Sono poliziotti.
Con loro, quattro puttane più maschie di loro.
Ci intimano a brutto muso di cancellare le foto appena fatte.
Lo facciamo.
A quel punto si guardano tra di loro, scoppiano in una risata fragorosa e ci offrono da bere dell’orrido whisky allungato con la soda.
Decliniamo l’invito augurandogli Eppiniùia e ci proiettiamo direttamente verso il locale sgangherato alla loro destra, che attira tutta la nostra attenzione.
Perché anche da questo posto proviene musica e qualcuno sta cantando.
Il locale è una baracca che si regge a malapena ma dentro tutti ridono, ballano e ci invitano a partecipare.
La manciata di disperati presenti all’interno ci offre da bere, da mangiare e ci invita a passare con loro il resto della serata.
E questo non smetterà mai di stupirmi.
Perché a Bangkok, per le persone di Bangkok, non sembra esserci differenza alcuna tra alto e basso, tra paradiso e inferno.
Tra l’orrore della decandenza e dell’abbandono e lo sfarzo del lucido sfavillante.
La nostra ipocrisia ci ha portati a dividere le nostre città in zone contraddistinte dalla qualità della vita che può permettersi chi le abita. Mettendo più distanza possibile tra chi può e chi non può.
A Bangkok questa distinzione non esiste.
Qui non siamo nelle periferie, siamo esattamente a 500 metri dal centro, in una traversa della via principale che taglia Bangkok, dove, tra il tantissimo delle zone commerciali e lo zero assoluto delle viette laterali, la gente vive come se tutto quello che avesse fosse a disposizione del momento in cui ne fa uso.
Nel momento in cui cucina un piatto, nel momento in cui te lo offre.
Nel momento in cui canta una canzone con te.
Nel momento in cui ti riempie il bicchiere.
Come se non esistesse un futuro a cui pensare o un passato da custodire, ma soltanto momenti da condividere.
E’ per questo che il sorriso della ragazza benestante
quello della tizia sfranta del mercato
quello della sordomuta che voleva essere fotografata mentre cenava
quello dei ragazzini fighetti che aspettano l’autobus per tornare a casa
quello di un gruppo di amici che fa uno spuntino alle 5 del mattino
e quello della madre fiera del proprio figlio
sono esattamente lo stesso sorriso.
Perché è in quel momento che stanno vivendo. E nient’altro importa.
Il momento è l’unità di misura su cui basano la loro serenità e le loro malinconie.
Il momento è la tara dell’anima. Il compromesso accettato. Il canto di un popolo.
Per noi che l’adesso è solo una fase transitoria tra ciò che siamo stati e quello per cui stiamo lavorando, tutto ciò è incomprensibile e impossibile da condividere.
L’unica cosa che possiamo fare, per non fargli e non farci torto, è accettarlo provando a giudicarli tenendo da parte il nostro bagaglio cognitivo.
Un lavoro costante in bilico tra il dito puntato e la mano aperta di un mondo in cui, per una volta, dobbiamo accettare di non essere i protagonisti ma soltanto degli spettatori.
E allora io non lo so cosa sarà di questo 2013/2556.
So che proprio come quei bambini, non sappiamo cosa ci riserverà, né cosa diventerà.
Sappiamo che proprio come quei bambini è appena nato e vivrà giorno dopo giorno. Mese dopo Mese.
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio, Agosto e Settembre
Ottobre
Novembre
e Dicembre
E il mio augurio, per loro, per voi e sì, anche per me stesso, è che sia un anno pieno di momenti, che una volta sommati, somiglino un po’ alla forma che diamo alla nostra idea di serenità.
Baci da Bangkok.
mi sono emozionata ancora una volta. grazie e buon 2013 amore mio.
Bell’articolo e bellissime foto!
Mioddio! A parte la poesia dei tuoi “porti” [cioè post che sono anche un po’ dei corti, li adoro!], ma quanto sei pronto a diventare papà?!?!?
<3
un post bellissimo!!!
Sarà che sono ancora in fase nostalgica dalla mia vacanza ma PIMPIIII
Aspetto con pazienza tutti gli altri resoconti/reportage/eccc 😀
:* baci di buon 2013 e 2556 ad entrambi
Bellissimo! e l’invidia sale…..^_^
Nulla sarà mai da me invidiato più del tuo incontro con IL GEMELLO THAILANDESE DI EMILIANO MAMMUCARI.
Sono troppo invidioso.
Tieniti i Templi, tieniti le luci ed i suoni, tieniti tutta la Thailandia…
ma lasciami una foto, una sola del GEMELLO THAILANDESE DI EMILIANO MAMMUCARI. Non posso rimanere impassibile. Lo voglio. Lo bramo.
Ciao Mauro,
ti seguo sempre con piacere e vivi la vita che vorrei vivere io. te lo scrivo da 38enne che ogni giorno si rende conto che avrebbe dovuto ascoltare la seconda voce nella testa, quella coperta dalla prima che urlava di fare lo scemo ad oltranza.
ci siamo scambiati uno sguardo di assenso a Lucca, senza presentarci, ma eravamo gli unici due che si possono guardare negli occhi da così in alto. bello e poco importante allo stesso modo. (vai sulle variant di Harpun per vedere la mia bella faccia di cazzo 🙂 )
ogni volta che vedo la tua tipa nelle foto che posti ho la stessa reazione uguale a quella che ho avuto a Lucca: “Quella è Noomi Rapace”.
ah ah ah. anche questo è poco importante… però mi fa ridere.
grazie delle tue esperienze.
un saluto e continua a vivere.
ciao a entrambi
🙂
brividi nel leggere il tuo post, che meraviglia, mi sono imbattuta per sbaglio nel tuo blog,ma ora non riesco a staccare gli occhi dal pc e da quello che scrivi. tanti auguri per la vostra nuova avventura. un figlio è un regalo prezioso da custodire con cura e rispetto, ma soprattutto infinito amore!
Grazie mille, Memole.
Che bello leggere le tue parole.
Un abbraccio grande!
Il senso di questa lettura riecheggia sintetizzato in poche parole nella mia mente… “Devi vedere quello che vedono loro, devi toccare quello che toccano loro, devi….. Per comprendere come vivono, loro”. Un concetto dall’innesto universale, in grado di adattarsi ad ogni contesto so iale e diventarne regola fissa di equilibrio. E paradossalmente tale concetto, crea le stesse intolleranze e differenze che tenta di distruggere… Una malattia autoimmune del concetto di essere umano a 360 gradi. Ciao Mauro…