Reality – Recensione.
In tutto il mondo angloassone il termine Reality significa “realtà” e i Reality Show nascono come tentativi di rappresentazione e spettacolarizzazione della realtà stessa.
In Italia, non solo il doppio significato sparisce in funzione della sola accezione scenica e televisiva, ma venendo a cadere – nell’uso comune – il suffisso “show”, ecco che quella parolina: “reality” assume un volume contrario e opposto a quello originale.
“Perché lo sanno tutti che nei Reality è tutto finto.”
Garrone lo sa talmente bene che è proprio così che intitola il suo nuovo film, definendolo una fiaba.
“Volevo fare un film Pixar.” furono le parole che i giornalisti presenti durante il festival di Cannes si sbrigarono a riportare a tutto il mondo.
Parole capaci di spiazzare i presenti che ancora non avevano avuto modo di vedere in che modo Garrone fosse riuscito a sconfiggere l’ansia da prestazione, che da tempo lo affliggeva, nella ricerca del successore di quel Gomorra che aveva alzato di diverse tacchette il livello del cinema italiano, e la sua eco in quello mondiale.
E Reality, una fiaba lo è davvero.
Scritta da un Capra maligno e interpretata da attori usciti dagli inchiostri di un Dorè alle prese con l’Inferno dantesco, ma pur sempre, una fiaba.
La fiaba di Luciano, pescivendolo napoletano, che arrotonda la sua giornata con piccole truffe e rallegra quella dei suoi parenti con improbabili travestimenti, che un giorno decide di partecipare ai provini del Grande Fratello che si tengono in un centro commerciale locale.
Da lì, a una seconda convocazione a Cinecittà, il passo è breve e il sogno inizia a prendere forma.
La possibilità di cambiare vita, di smetterla con le truffe, di smetterla di svegliarsi presto tutte le mattine, e di poter ricominciare da capo.
Di realizzare i propri desideri.
Di essere riconosciuto per strada.
Benvoluto.
Cercato.
Voluto.
Ammirato.
Invidiato.
Ammirato.
Nell’ossessione della chiamata, avverrà la trasformazione.
Strepitosamente interpretato dall’ergastolano Aniello Arena, Luciano è un personaggio puro, folle e commovente.
Figlio della tradizione classica della commedia Napoletana, tra un De Filippo e un Principe De Curtis, Aniello porta sulla sua pelle tesa, tatuata e muscolosa, il riso amaro del neorealismo e il sacrificio dell’attore pronto a posare la maschera una volta sceso dal palcoscenico e a tornare alla sua realtà.
La realtà di un uomo incarcerato a 23 anni perché coinvolto nella strage di Piazza Crocelle a Barra avvenuta l’8 gennaio del ’91, e che soltanto nel teatro ha trovato la forza di andare avanti.
La realtà di un ergastolano che, dopo aver interpretato un uomo pronto a fare di tutto per entrare tra le quattro mura di una casa controllata 24 ore su 24, ha salutato tutti, ringraziato, ed è tornato nella sua dimora piantonata.
Dove non ci sono applausi né fischi. Solo attesa, rabbia e pentimento.
Contrariamente ai dettami del Reality televisivo, che trova nell’accostamento di camere fisse la propria misura e il proprio linguaggio, Garrone predilige l’utilizzo della macchina a spalla.
In questo modo segue costantemente i movimenti di Luciano comunicando l’idea di un Grande Fratello, che non l’abbandona mai.
Che gli punta contro il suo occhio non solo in sede di provino ma anche nei giorni successivi, sul posto di lavoro, nell’intimità delle mure domestiche.
E questo porterà Luciano ad abbandonare la sua vita di truffe, nell’assurda convinzione di essere costantemente spiato dagli inviati della trasmissione televisiva, rinunciando alla sua vera vita in funzione di una supposta verità televisivamente compatibile.
E’ qui che la realtà di Luciano si frantuma per lasciare il posto ad una reality da prima serata. Da televoto.
Qui Luciano diventa buono, e un po’ come tutti quei poveri cristi presenti alla Via Crucis all’ombra del Colosseo che chiedono la grazia in attesa della risposta del loro dio, accetta di buon grado di portare la sua croce.
Garrone, lontano dalle atmosfere cupe e documentaristiche di Gomorra, gioca la carta della commedia nella messa in scena di un’Italia ridotta in ginocchio dalla telereligione. Per questo motivo l’ìmmedesimazione è assoluta, la presa emotiva è letale, e il terrore si insinua sotto la nostra pelle e sale fino alla bocca.
Dove nel bivio tra un urlo e una risata, sceglie la seconda.
Che ci seppellirà.
Stellette? 9 su 10
Molto bella la tua analisi. Credo che pero qualche cosa nel ritmo e nella credibilita nella nascita dell’illusione ottica del povero Luciano andava fatta da parte di Garrone.
9 stelle a mio parere sono troppe, se si puo arrivare a 10 e Gomorra vale 10 Reality allora vale 7.
Mauro V
Ciao Omonimo.
Devo rivedere Gomorra ma ora come ora ti dico che per me rispetto a questo ne vale 8.
L’aspetto emotivo e l’analisi lucida di quello che ci circonda mi ha ammazzato.
E sì, condivido che c’è un calo di ritmo nella seconda parte, ma a mio gusto non così tanto da inficiare il valore complessivo del film!