Non Ti Stavo Premiando 2015: CINEMA!
Cinema. Musica. Fumetti.
In tre articoli, le mie classifiche su tutto quel che di fondamentale è uscito nel 2015.
Alcuni di questi titoli potrete trovarli facilmente, altri potreste faticare un po’, ma ne vale la pena.
Il criterio di selezione è stato rigorosissimo: tutto quello che m’ha fatto venire un coccolone la prima volta che l’ho visto/ascoltato/letto e che, nonostante il passare dei mesi, non ne ha voluto sapere di andarsene dalla mia testa.
Ovviamente, come per ogni classifica, lo scopo è divulgare, far conoscere, litigare a morte.
Si comincia col cinema.
Buon divertimento.
NON TI STAVO PREMIANDO 2015 – CINEMA
Posizione n. 1
Anomalisa
di Charlie Kaufman e Duke Johnson
Stati Uniti
Il più bel film del 2015 è un inno al racconto, dalle origini ai giorni nostri. C’è un uomo e c’è una donna. Ci sono le loro rappresentazioni. Ci sono le marionette. C’è il teatro greco. C’è la più raffinata tecnica di stop motion al servizio dell’unica storia che non ci stancheremo mai di ascoltare: quella di chi improvvisamente s’innamora di un’anomalia e farà di tutto per conquistarla.
Charlie Kaufman produce, scrive e dirige (coadiuvato da Duke Johnson) il suo film più emozionante dai tempi di Eternal Sunshine Of The Spotless Mind.
Dopo l’anteprima al Festival del Cinema di Venezia, esce in sala negli Stati Uniti oggi, fate di tutto per vederlo in lingua originale e quando lo vedrete, capirete perché è così importante.
Cliccando QUI potete leggere la mia recensione approfondita per La Repubblica – XL.
Il trailer:
Posizione n. 2
Mad Max: Fury Road
di George Miller
Australia, Stati Uniti
All’alba dei 70 anni, George Miller, l’uomo dalla carriera registica più delirante del mondo, dopo i due Happy Feet e Babe Maialino Coraggioso, torna a dirigere un nuovo tassello della sua saga più celebre. Via Mel Gibson e Tina Turner, dentro Tom Hardy e Charlize Teron per 120 minuti di pura meraviglia visiva.
Miller utilizza i corpi come macchine, il sangue come carburante, la sabbia del deserto come polvere che sporca i cieli e la pelle facendola gialla e metallizzata al grido di un edonistico vortice adrenalinico che per tutta la durata della pellicola non si ferma mai e anzi accelera e accelera e accelera togliendoci il fiato e riscrivendo le regole di quel genere action ormai in mano a troppi pischelli e a pochi grandi vecchi che ancora hanno molto da insegnare.
Tutto è perfetto in questa messa in scena che è lo stato dell’arte del mestiere del cinema. Della scenografia. Della fotografia. Della recitazione. Dell’uso degli effetti visivi, tanto di quelli analogici quanto di quelli digitali.
La dimostrazione di come possa essere possibile aggiornare dei franchise rendendoli attuali e universali.
Da vedere e rivedere.
Il trailer, graziato da un montaggio fuori scala:
Posizione n. 3
11 Minut
di Jerzy Skolimowski
Polonia
Da un settantenne a un settantasettenne. Dalla riscrittura dell’action moderno alla visione della modernità che investe l’uomo incastrandolo quotidianamente in un puzzle di destini incrociati cui bastano 11 minuti per cambiare intere esistenze.
Il veterano Skolimowski dimostra una lucidità fuori dal comune elevando il suo cinema di un gradino ancora più alto di quanto già ci aveva abituato ma riportandolo a quella forza primordiale che è presente, anche se ben nascosta, fin dal primo minuto del film e che non vede l’ora di deflagrare nell’apocalittica conclusione.
E noi siamo tutti lì, a gridare e ad alzare le mani verso l’alto come quando le band distruggono gli strumenti nella catarsi finale di un concerto punk.
Nella sua (apparente) semplicità, un’esecuzione magistrale.
Cliccando QUI trovate la mia recensione approfondita.
Il trailer:
Posizione n. 4
Vizio di Forma
di Paul Thomas Anderson
Stati Uniti
Smarcandosi dal capolavoro (There Will Be Blood) e da una noiosa masturbazione (The Master) Anderson continua a premere forte sul pedale dell’ambizione ma stavolta non dimentica di essere un maestoso narratore per immagini. Ci regala così un oggetto unico, di non facile decifrazione ma dalla potenza accecante. L’america tossicona degli anni ’70, il noir sotto acido di Thomas Pynchon prende la forma di quel grande romanzo americano che avrebbero amato i Cohen del Grande Lebowsky e che oggi è più vivo che mai. Di nuovo Joaquin Phoenix, di nuovo uno stato di grazia, di nuovo un cinema GIGANTE che urla forte la sua vitalità. Ancora, P.T.A. daccene ancora.
Il trailer:
Posizione n. 5
The Assassin
di Hou Hsiao-hsien
Taiwan
A otto anni di distanza dal suo ultimo film, il maestro taiwanese si ripresenta al pubblico affrontando il più classico dei generi orientali, quel wuxiaplan che vede come protagonisti gli eroi delle leggende che si sfidano a colpi di arti marziali.
Un’opera anomala nel percorso di Hou che si diverte a scardinare ogni regola del genere e a stupire con una cura per l’immagine che non ha eguali nel mondo orientale e pochissimi termini di paragone in quello occidentale. La fotografia sublime di Mark Lee Ping Bin gioca coi colori e col bianco e nero dimostrando una rigorosa assenza di limitazioni quasi a fare da contraltare alla costante battaglia contro i limiti che invece affronterà la giovane guerriera Nie Yinniang.
Per questo film, Hou Hsiao-hsien ha vinto la Palma d’Oro a Cannes come miglior regista.
Il trailer:
Posizione n. 6
Whiplash
di Damien Chazelle
Stati Uniti
Scritto e diretto dal 29enne Chazelle, Whiplash ha scatenato una ridda di polemiche tra chi ci ha voluto vedere una riproposizione in chiave jazz del rapporto tra il sergente Hartman di Full Metal Jacket e i suoi soldati e chi l’ha interpretato con la solita retorica americana dell’ossessione a tutti i costi per arrivare a raggiungere i propri sogni.
Cazzate.
Lasciate stare il jazz. Lasciate stare il sacrificio. Whiplash è in realtà la storia di due uomini alla ricerca del loro fottuto, perfetto, tempo. Un tempo che non dev’essere troppo veloce, non dev’essere troppo lento, ma che li vedrà scontrarsi, tradirsi, ritrovarsi e uccidersi prima di arrivare a un finale così perfetto da culminare in un nero pieno, al momento giusto.
J.K. Simmons, titanico.
Il trailer:
Posizione n. 7
Non Essere Cattivo
di Claudio Caligari
Italia
Ho pianto tantissimo.
L’ultimo film di Claudione Caligari, uscito postumo dopo la sua morte, chiude a tre il numero dei suoi film per il cinema dopo una dignitosissima carriera da documentarista. Già molto malato prima di iniziare le riprese di Non essere cattivo, parlando con Valerio Mastandrea, attore protagonista del suo L’odore della notte, Caligari gli disse: “Muoio come uno stronzo, e ho fatto solo due film.”
“‘C’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronza di te”, gli risponderà l’attore romano, che di Caligari era anche un grandissimo fan.
E proprio a Mastandrea si deve la riuscita e la finalizzazione di questo che è il vero e proprio testamento artistico e spirituale di Caligari. Un’opera che non solo cita e omaggia il suo percorso ma diventa il naturale compimento in quella che è una preghiera laica di speranza e forte umanità.
Niente è più vero della periferia raccontata da Caligari. Niente è più vero delle sue case, delle sue strade, della sua spiaggia, di quel mare sporco e di quelle facce cattive che è impossibile non amare, in questo caso interpretate perfettamente da Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
Vorrei farvi vedere subito il trailer ma prima preferisco farvi leggere la toccante lettera che scrisse proprio Mastandrea in occasione della morte del regista:
« (Senza) parole. ‘Muoio come uno stronzo. E ho fatto solo due film’. Se n’è uscito così, ad un semaforo rosso di viale dell’Oceano Atlantico circa un anno fa. Stavamo andando insieme a parlare con un amico oncologo in ospedale. La risposta ce l’avevo pronta ma l’ho lasciato godere di questa sua epica attitudine alle frasi epiche che accompagneranno per sempre tutti quelli che lo hanno conosciuto. Ho aspettato il verde in un altrettanto epico silenzio (sono molti anni che era stato operato alle corde vocali). Ripartendo ho detto ‘c’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronza di te’. Il suono leggero della sua risata soffocata mi ha suggerito il suo darmi ragione, confermato dall’annuire ripetuto della sua testa grande. Di gente stronza Claudio se ne intendeva, ne ha conosciuta tanta, e tanta ne ha liquidata con quel metro di giudizio.
Stronzo è una parola che detta da lui aveva un altro significato. Più potente. Più profondo. Il nord ‘di lago’ da cui proveniva deve avergli dato una dimensione molto particolare nello scegliere le parole e nella forza con cui scagliarle. E le parole che gli mancavano da parecchio tempo è sempre riuscito a fartele sentire anche se arrivavano scariche di suono. La grandezza di un uomo così viene anche da questo. Dal poter fare a meno delle armi convenzionali che servono per vivere la vita e dal continuare a battagliare con ogni mezzo mosso solo dalla voglia di esserci e di fare della propria vita una vita. Il suo lavoro ne è l’esempio unico, assoluto. Non ha mai smesso di fare film Claudio. Ne ha girati tre ma ne ha scritti, fatti e visti almeno il triplo. Questo deve accadere ad un regista che vede sfumare i propri progetti per motivi enormi o a causa di persone piccolissime. Pensare, scrivere, vedere, riscrivere, ripensare, vedere ancora fino alla morte del progetto e, nonostante questo, continuare a vederlo finito, il proprio film. Così ha fatto anche lui. Noi che abbiamo avuto il privilegio di lavorarci questo lo sappiamo bene. Ogni film non fatto da Claudio, Claudio lo ha fatto eccome. Come ha fatto il suo terzo e ultimo. Con l’amore e la cattiveria che la malattia gli imponeva. Con la dolcezza di chi riconosce la magia del cinema e delle persone che lo fanno. Con la stronza intelligenza di chi urlava il diritto al cinema da conoscere e da poter fare. Con un winchester immaginario sotto l’impermeabile a ricordare che Ford e Sam Peckinpah erano lì con lui anche se stavamo all’idroscalo di Fiumicino anzi, soprattutto per quello. Era pieno di roba e di gente Claudio. Il suo Martino in un angolo della testa. PPP sempre a portata di citazione. I suoi ‘ultimi’ da raccontare, facendoli volare dal basso dei sondaggi sui quotidiani, all’alto del livello drammaturgico in un copione e poi sul set. Il suo cinema è stato e sarà sempre politico. Non ha mai smesso di esserlo neanche quando non veniva materialmente realizzato. Bastava parlarne. Guardarlo mentre sceglieva il ritmo del respiro giusto per pronunciare la frase epica di turno. Ha sempre conosciuto i film che ha fatto. Li ha mangiati, bevuti, e vomitati prima di farli diventare un film. È stato forse l’ultimo intellettuale vecchie maniere. Con la capacità di sporcare la propria anima e la propria intelligenza del nucleo essenziale di quello che si apprestava a raccontare. Per Claudio ‘ideologia’ non è mai stata una brutta parola. Lo ha spinto a non fare mai un passo indietro e gli ha permesso di difendere quello che faceva con una forza che non ho mai visto in vita mia. E gli ha consentito anche di lottare con il male costringendolo ai supplementari più di una volta. Claudio ha perso ai rigori, che si sappia questo. E ai rigori non è mai una sconfitta reale. A tutti noi che lo abbiamo accompagnato nell’ultimo sogno realizzato è bastato questo. Onorarlo nel lavoro che più ha amato, maledicendo la sua ostinazione, ammirandone la tenacia, il coraggio e la passione. Ridendo alle sue battute crudeli. Commossi davanti alla sua commozione dell’aver iniziato e finito il suo nuovo e ultimo film. »
Ed ecco il trailer:
Posizione n. 8
’71
di Yann Demange
Regno Unito
Belfast. 1971. L’esercito inglese cerca di sedare le rivolte dell’IRA camuffando con delle semplici perquisizioni la volontà di catturare i leader della rivolta. A farne le spese, Gary, giovane recluta britannica che improvvisamente si ritrova abbandonato dalla sua squadra all’interno del territorio avversario. Un territorio in cui tutti lo vogliono morto: sia gli irlandesi, sia i suoi stessi compagni che giocano nell’ombra. Con un rigore formale asciutto e potente, Yann Demange firma il primo lungometraggio della sua carriera attenendosi a un’unita di luogo e di tempo serratissima, e dirigendo le straordinarie performance di Jack O’ Connell e di uno Sean Harris duro come la pietra.
Il trailer:
Posizione n. 9
Jia – The Family
di Liu Shumin
Cina
Cinque ore dura l’opera prima scritta, diretta e montata da Liu Shumin.
Un minutaggio capace di scoraggiare qualsiasi spettatore non votato al sacrificio e al martirio ma che, incredibilmente e miracolosamente, riesce a scorrere tenendo incollati gli spettatori dal primo all’ultimo fotogramma della pellicola.
“Non avrei saputo cosa tagliare, mi sembrava tutto fondamentale per raccontare questa storia!” dichiarerà con un po’ d’ironia Shumin alla fine della prima proiezione durante i giorni del Festival del Cinema di Venezia ed effettivamente, nonostante ogni pronostico, sarebbe stato difficile dargli torto.
Ma cosa racconta questo film?
Di un uomo e una donna, ormai anziani che conducono una vita lontana dai loro figli, trasportati dal lavoro in tre diverse e lontane regioni della Cina. Non potendo chiedere ai propri figli di smettere di lavorare, decidono così di sfruttare la libertà concessagli dalla loro pensione per mettersi in viaggio e andare a trovarli. Comincia in questo modo un’avventura che esplora i mutamenti e l’evoluzione della cina rurale e quella cittadina vista attraverso gli occhi di chi ha subito quel cambiamento sulla propria pelle e ancora non ci si abitua.
Se il debito narrativo è sicuramente rintracciabile in quel “Viaggio a Tokyo” che Ozu firmava nel 1953, lo sguardo è originale e fermo nel nostro tempo. Una fotografia della vita, una fotografia del mondo.
Cliccando QUI la mia recensione approfondita.
La cosa più vicina a un trailer che ho trovato:
Posizione n. 10
The Whispering Star
di Sion Sono
Giappone
L’umanità è quasi del tutto estinta, la Terra è morta e gli ultimi sopravvissuti attendono che si compia il loro destino su pianeti lontani. Yoko è un’androide adibita alla consegna dei pacchi che questi ultimi terrestri si sono spediti e nella sua piccola astronave a forma di vecchia casa giapponese solca l’immensità dello spazio per ricongiungerli con le loro memorie, con le vestigia di un passato che non esiste più.
Questa è la strada che ha scelto di percorrere Sion Sono per raccontare ancora una volta la sua ossessione per il disastro di Fukushima (ognuno dei pianeti esplorati è in realtà una delle aree devastate intorno alla centrale nucleare), lasciando da parte per una volta la furia creativa che contrassegnava opere urgenti e vitali come Himizu e Why Don’t You Play in Hell?, ma anche la dolce speranza vista in The Land Of Hope.
E’ un Sion Sono triste e vittima della nostalgia, questo di The Whispering Star che vorrebbe tornare indietro, a prima che accadessero le cose. A prima che nascesse il cinema. Quando le ombre delle lanterne magiche, facevano sognare e immaginare un futuro radioso.
Il trailer:
Questi erano i miei migliori dieci.
Rimangono fuori da questa classifica sei pellicole che sarebbe ingiusto non nominare.
Delle menzioni speciali, diciamo.
Che rappresentano dei momenti di cinema magari non del tutto perfetti, ma che hanno qualcosa di davvero speciale e che per questo meritano di essere viste.
Una iraniana, una tibetana e ben quattro italiane.
Ve le presento:
Wednesday, May 9
di Vahid Jalilvand
Iran
Jalal, un benestante cittadino di Teheran, mette un insolito annuncio su un giornale: donerà 10.000 dollari alla persona più bisognosa che si presenterà alla sua porta. Come ipotizzabile, una proposta del genere solleva buona parte della popolazione e presto Jalal si trova assediato: come scegliere la persona che davvero ha più bisogno degli altri?
Ben presto la selezione si restringerà a due sole donne, ma la scelta sembra davvero impossibile.
Dietro questo pretesto, Vahid Jalilvand, qui al suo primo lungometraggio, mette in mostra tutte le contraddizioni di una società che incontra per la prima volta quel tipo di benessere economico che genera un divario ancora più importante tra persone una volta simili. Un film che è allo stesso tempo una critica e una lode all’essere umano.
Il trailer:
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Tharlo
di Pema Tseden
Tibet
Tharlo è un pastore quarantenne che vive tra i monti, benvoluto e conosciuto da tutti anche se nessuno ricorda più il suo nome e tutti lo chiamano col soprannome di “Treccia” riferendosi ai suoi buffi capelli lunghi.
Nel momento in cui Tharlo però, sottostando alle nuove leggi dovrà scendere in città per fare la carta d’identità, la sua vita inizierà a cambiare.
Perché per la carta d’identità c’è bisogno di una foto.
Per la foto c’è bisogno che lui si lavi e che si sistemi i capelli. Che si tagli quella treccia, forse.
E piano piano, sarà proprio l’identità di Tharlo che inizierà a cambiare e ora che il suo nome è su un pezzo di carta, nessuno sembra più riconoscerlo.
La confusione e il disorientamento che sta vivendo il popolo tibetano viene raccontato dal cineasta Tseden come la più classica delle commedie pirandelliane.
Il trailer:
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Mia madre
di Nanni Moretti
Italia
Dileggiato in patria, osannato all’estero, Mia madre è un film preziosissimo. Un momento unico che testimonia l’urgenza di un regista che pur non essendo ancora fuori dalla dinamica di accettazione e superamento del lutto, sceglie di raccontare la perdita della madre mettendosi a nudo ma cercando di proteggersi con una serie di armature che non fanno altro che restituirne la commovente fragilità.
Non ce la fa Nanni Moretti a essere sé stesso in questo film, e per questo chiede a Margherita Buy il sacrificio di impersonarlo.
Di ridicolizzare il patto fatto con lo spettatore dai tempi di Sono un autarchico con quella che sembra una parodia ma che è solo una richiesta di aiuto. Una cortesia. Un permesso per non dover accettare di essere in crisi per una perdita così umana. E tra le pieghe della storia, il solito cinema nel cinema che fatica a trovare una realizzazione, la domanda sull’esigenza dell’urgenza emotiva contro il cinema dell’impegno civile e la sequenza di un sogno infinito, tra la fila per entrare al cinema e perdersi in un’altra storia ancora.
Il Moretti lontano da Moretti della messa in scena maestosa di Habemus Papam lascia il posto a quel Moretti un po’ accantonato negli ultimi anni e che fa piacere riconoscere.
Il trailer:
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L’attesa
di Piero Messina
Italia
In molti aspettavano al varco l’esordio di Piero Messina, già aiuto regia di Sorrentino.
Impossibilitata ad accanirsi contro un premio Oscar, buona parte della critica nostrana non vedeva l’ora di scagliarsi contro il bersaglio più vicino e, immancabile, si è fatta sentire senza accorgersi di che piccolo gioiello Messina ha consegnato come opera prima.
Jeanne arriva in Sicilia per rappacificarsi col suo Giuseppe dopo che una brutta litigata li ha separati. Giuseppe però non è in casa e Anna, la madre, dice a Jeanne che il ragazzo tornerà due giorni dopo, per Pasqua.
Jeanne decide così di fermarsi a fare compagnia a Anna e aspettare con lei il ritorno del figlio. Il ritorno del ragazzo che ama.
Ma per Maria e la Maddalena, questa pasqua potrebbe non portare con sé alcuna resurrezione.
Il trailer:
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Il Racconto dei Racconti
di Matteo Garrone
Italia
Garrone è patrimonio del cinema italiano. Punto. Il suo cinema personale, forte e sicuro, materico e sempre alla ricerca della fiaba che mostrasse il brutto e il bello degli uomini, per la prima volta gioca proprio nel campo delle favole e ne risale la sorgente fino ad arrivare a quella forma non ancora codificata che Basile, per primo, tentava di mettere insieme.
E alla forma primigenia della favola, Garrone risponde con la forma primigenia del cinema, rifacendosi a Melies e alla realtà non ancora plastificata dei fantasy moderni.
Non è un film perfetto ma è un oggetto unico che mette in scena qualcosa che non si era mai visto come nessuno aveva mai fatto prima. Per questo non possiamo che ringraziare il coraggio di un autore che continua a mettersi in gioco senza cercare facili appigli o ripetizioni e che rappresenta tutt’ora il meglio del cinema italiano contemporaneo.
Il trailer:
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Pecore in Erba
di Alberto Caviglia
Italia
Cercate questo film. Trovate questo film. Guardate questo film.
Opera prima di Alberto Caviglia, PECORE IN ERBA è il mockumentary che Woody Allen e i Monty Python avrebbero girato se fossero nati trent’anni fa a trastevere e racconta la storia di Leonardo Zuliani, sparito da sei mesi lasciando l’intera Italia nel cordoglio. Le manifestazioni in suo sostegno diventano sempre più numerose al punto che ormai Roma è piena di gente in piazza che ne chiede a gran voce il ritorno. Perché Leonardo Zuliani, ragazzino vittima di una particolarissima malattia che lo portava a odiare gli ebrei, nella vita, ha avuto sempre e solo un sogno: poterli odiare. Essere libero di poter odiare.
E l’Italia è con lui. Col suo sogno.
Si ride tantissimo nei 90 minuti di Pecore in Erba e si ride sempre. Grazie alla scrittura e alla regia di Alberto Caviglia, certamente, ma anche grazie alle straordinarie interpretazioni di Davide Giordano, Anna Ferruzzo, Mimosa Campironi e delle decine e decine di esilaranti cameo di tantissimi personaggi dell’intrattenimento italiano, tra cui anche il nostro Gipi.
Fatevi un favore e cercate davvero questo film.
E’ raro che una roba simile venga prodotta da noi. Facciamo che inizi a essere un po’ meno raro.
E con i Non Ti Stavo Premiando 2015, sezione CINEMA, direi che è tutto.
Nel prossimo post toccherà alla musica.
Una classifica interessante e che mi vede, per molti versi, in perfetta sintonia con le tue scelte. Giusto su Mia Madre avrei qualcosa da ridire, non perché l’abbia trovato di per sé un brutto film, ma perché mi è sembrato un film meno potente e coinvolgente di quanto non si dica in giro.
Gran sollievo provo nel veder escluso Youth di Sorrentino, che a mio modesto parere è davvero uno dei film più brutti, insulsi e sbagliati degli ultimi anni. E non sono un detrattore di Sorrentino in genere, anzi.
Solo una cosa di ciò che hai scritto grida vendetta al cielo: The Master come noiosa masturbazione. Ecco, secondo me è il vero capolavoro di PTA. There Will be Blood è un grandissimo film, itendiamoci, ma per molti versi gioca più sul sicuro tanto dal punto di vista dell’intreccio quanto dei caratteri messi in scena. Mi sembra un capolavoro più calcolato, ecco. The Master invece l’ho sempre visto come ulteriore evoluzione di uno dei filmmaker più talentuosi degli ultimi anni: una messa in scena perfetta, una narrazione ellittica e disarticolata in molti punti ma non per questo meno potente, personaggi per molti versi più complessi e sfaccettati. È probabilmente il film meno facile di PTA ma anche quello che meno cede a compromessi e, grazie alla potenza delle immagini, il più sottilmente suggestivo.
Inherent Vice è molto diverso, ma siamo d’accordissimo, è già un cult irrinunciabile. Anche questo film, però, l’hanno davvero apprezzato in pochi, anche tra i sostenitori di Anderson.
Just my two cents. 🙂
Ah, volevo farti un paio di domande, già che ci sono:
1- Lost River di Gosling l’hai visto? È stato letteralmente massacrato da chiunque eppure sembra esserci una sotterranea rivalutazione in atto. Tu cosa ne pensi?
2- Non hai mica una pagina su Mubi con i film che hai visto e relativi voti? Sarebbe un piacere seguirti.
Ciao
Ciao Margutte e benvenuta/o!
Sono contento ti sia piaciuta questa classifica che appunto, come ogni classifica, non è altro che un gioco.
Vado diretto sui film, in ordine:
– Mia Madre – la critica italiana e il pubblico sono stati abbastanza concordi nella derisione e nell’incapacità di affrontarlo con merito e competenza. Anche secondo me non merita di essere nella lista dei migliori dieci dell’anno, ma appunto una menzione speciale come oggetto unico, anche solo nel percorso autoriale di Moretti, secondo me ci sta.
-Youth – ‘na robaccia. E solitamente Sorrentino piace anche a me.
– The Master. Ora, lo vidi a Venezia, nello splendore dei suoi ’70 millimetri e rimasi di sasso. Non di certo per la messa in scena né per quelle due prove d’attore fuori ogni scala umana. Era proprio il senso del tutto a lasciarmi immobile, anzi no, proprio incazzato. Se sei PTA non puoi raccontarmi tutta quella roba per arrivare a dirmi che il buon selvaggio resterà sempre il buon selvaggio. Quello io lo accetto, al massimo, come punto di partenza su cui instaurare un discorso, di certo non come punto d’arrivo.
Detto ciò, non lo rivedo dall’arrabbiatura dell’epoca quindi non nego che una seconda visione potrebbe riequilibrare il mio punto di vista 🙂
– Lost River ancora nulla. Spero di recuperarlo presto.
– Mubi: negativo. Scrivo solo qui sopra quando ho un po’ di tempo (spulciati magari qualche post precedente, così possiamo spostare la discussione lì) e qualche volta per La Repubblica – XL. Tutto il resto è Facebook.
Grazie ancora per il tuo commento. E’ sempre un piacere riceverne di così accurati!
Grazie a te della puntualissima risposta. Se c’è una cosa che mi piace è confrontarmi con gli altri sui film, per questo, tutto sommato, amo molto queste classifiche di fine anno.
Per quanto riguarda The Master, temo proprio di aver avuto una prima impressione di segno totalmente opposto rispetto alla tua. Neppure io ho rivisto il film dal momento dell’uscita (giusto alcune scene sparse, dopo aver comprato il dvd), magari anche io tenterò una nuova visione prossimamente. Ti invidio molto la visione nei gloriosi 70mm comunque. 🙂
Lost River comunque ora è facilmente recuperabile, per fortuna. 😉
Comunque, ora che ci penso, mi aspettavo di trovarci anche The Lobster in questa classifica. Sei tra i delusi dall’ultimo film di Lanthimos? A me è piaciuto molto, pur non arrivando ai picchi di quel gioiello che è Kynodontas.
Grazie ancora dello scambio di idee, Mauro.
Buona giornata e a presto.
“Anomalisa” è un super-film !!! Io non sono deluso con il lavoro di Charlie Kaufman, tanto più che ha girato un grande film, “Lei” ( http://www.altadefinizione.one/1560-lei-2014.html ).