Tre cose imparate e una scusa per non dormire.
Lo zaino è piccolissimo e mi chiedo se sulle spalle lo sentirà pesante.
Mi dico di no e tanto lo so che domattina comunque non riuscirò mai a convincerlo a infilarselo e finirò per portarglielo io.
Usciremo di casa, Meme davanti con lui, io dietro a chiudere a chiave la porta, cercheremo le lucertole sulle scale fino al cancello, poi i gatti del vicinato, le corse tra le piante incolte nel parcheggio, le urla per le foglie cadute e trovate in terra come piccoli tesori e poi in macchina, nel seggiolino, fino al suo primo giorno di asilo.
Siamo cresciuti con le voci di uomini che raccontavano la crescita dei propri figli, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, quello all’età adulta, il passaggio di testimone. Così tante storie, spesso piatte e zuccherose, che anche solo toccarla, questa materia, è un gioco di fioretto, un equilibrio romantico ed esibizionista, una destrezza tra il ridicolo e il cheppalle.
Ma io guardo, penso, rimugino, ritorno e sento la necessità di scriverlo, questo tempo, prima di viverlo.
Di anticiparlo prima di saperlo, per trasformare i dubbi in una distrazione.
La vita di mio figlio è iniziata ventuno mesi fa e negli ultimi ventuno mesi lui ha imparato tutto, io soltanto tre cose.
La prima: non mi chiedo più perché la gente vive lamentandosi.
Il lamento, il pianto, è l’unica forma espressiva, di sopravvivenza, con cui nasciamo. L’unica skill già compresa nel pacchetto base delle necessità. Il neonato piange se ha fame. Piange se ha male. Piange se vuole la madre vicina.
Non ride soddisfatto di quello che ha ottenuto ma piange per comunicare quello che gli manca.
Ed è più o meno quello che ogni essere umano farà per i successivi cento anni della sua vita.
Per cui, colleghi umani, non ce l’ho più con voi per le vostre lamentele, non è colpa vostra, siamo stati disegnati così: piagnoni.
Il sorriso è un meraviglioso sforzo successivo che non ci appartiene e che dobbiamo imparare.
Una fatica, lo so.
Seconda cosa che ho imparato: il recupero delle prime volte.
A 35 anni solitamente si sono mangiati i piatti delle più svariate cucine, si sono esplorati almeno tre dei cinque continenti, si sono ascoltate tutte le canzoni preferite e già visti i film che ci hanno cambiato la vita. Abbiamo fatto l’amore con tutti quelli che volevamo (tranne uno) abbiamo letto libri che abbiamo regalato (tranne uno), abbiamo litigato così tanto coi nostri genitori che abbiamo imparato a amarli e abbiamo studiato così a lungo da non volerne più sapere.
Difficile, quindi, che qualcosa ci risulti del tutto nuova.
Per mio figlio invece è nuovo starnutire, sentirsi la lingua brillare per l’acqua frizzante, addentare il rosso del cocomero, vedere una palla rimbalzare, mettere i piedi nella sabbia. E la sua espressione estasiata, stupita e ansiosa di condivisione rispetto a qualsiasi nuovo lo sfiori, è aria fresca e cibo caldo. E’ il dono di poter vivere di nuovo una scoperta dopo aver già scoperto tutto.
E’ vedere Twin Peaks dopo aver dimenticato chi ha ucciso Laura Palmer. I Beatles prima di Yoko Ono. Italia/Germania al fischio d’inizio.
E infine c’è una terza cosa che prima di essere padre non immaginavo e ora invece sì, e mi viene particolarmente facile raccontarla stanotte perché è – rullo di tamburi – la mia paura per il suo primo giorno di scuola.
Sì, ok, stiamo parlando del nido, non proprio della “scuola”, ma il senso è lo stesso.
E non è proprio quella paura che ti ghiaccia le gambe e ti mischia la testa, ma più un pensiero ricorrente, però fatevi spiegare.
Io sono fortunato: ho una famiglia numerosa, vicina e presente. Una famiglia che mi ha aiutato tanto con GZ e che ha contribuito parecchio a crescerlo permettendo a me e a Meme di non modificare drasticamente le nostre vite.
Escludendo sporadici incontri con altri bimbi nei parchi, questa famiglia, insieme ai miei amici più belli, rappresenta la totalità degli esseri umani con cui è entrato in contatto GZ da quando è nato.
Esseri umani che vivono per tutelare i suoi bisogni, rispondere alle sue domande, stargli vicino, amarlo, dargli tutto ciò che gli serve.
E ogni volta che ho visto GZ ridere di cuore, ogni volta che mi ha abbracciato con le mani strette al collo, che si è stupito per aver sbattuto la testa per sbaglio, che l’ho sentito addormentarsi tra le mie braccia, eccolo lì il pensiero: cosa avrebbe provato nel primo momento in cui si sarebbe trovato senza nessuno di noi, vicino?
Da domani inizierà a incontrare chi gli porterà via un giocattolo perché lo vuole per lui. Chi lo farà cadere a terra per divertimento. Chi starà con lui per un po’ e quando si stuferà andrà via.
Voi non immaginate quanto io mi senta sciocco a scrivere queste robe, ma il pensiero che da domani, inizierà per la prima volta quel processo che lo porterà inevitabilmente a scoprire le prime delusioni, le prime incomprensioni, i primi dispiaceri e a dover lottare per affermare la propria identità, mi fa sentire così minuscolo e impotente al punto da non riuscire a vedere la maestosità dell’impresa.
Eppure allo stesso tempo mi esalta.
Felice che inizierà a forgiare realmente il suo carattere, mi resta il pensiero che l’essere così tranquillo e pulito che adesso dorme nella stanza accanto dovrà iniziare a cavarsela da solo circondato da chi non risponderà necessariamente ai suoi sorrisi con un altro sorriso.
Una di quelle problematiche, me ne rendo conto, che tirate alla lunga trasformano le persone nella madre di Norman Bates, ma vi racconto una cosa.
La prima volta che GZ ha visto tanti bambini insieme aveva poco più di un anno ed era il compleanno di Gabriella.
In una sala, due ragazze li controllavano e facevano animazione per permettere ai loro genitori di godersi liberamente la festa della loro amica bella.
Nell’istante in cui GZ li ha visti tutti insieme mi si è stretto al collo e non s’è staccato per trenta minuti buoni.
Paura. Panico. Bimbi no.
A un dato momento è sceso, mi ha preso la mano e ha voluto che lo accompagnassi davanti alla porta a vetro che lo divideva da tutti gli altri. C’era una bambina, lì, dall’altra parte del vetro trasparente, che ci strusciava le dita e la bocca sbavandoci sopra.
GZ mi lascia la mano, corre da lei, ma non sa aprire la porta. Mi fa un gesto, gliel’apro io. La bambina esce e si mette sullo stipite. GZ le mette una mano sulla guancia e le dà un piccolo bacio di presentazione sull’altra guancia. Sorride, poi entra.
A quel punto, come se dovesse presentarsi a TUTTI i bambini presenti, va da ognuno di loro e gli dà un bacio sulla guancia seguito da un sorriso.
Nessuno di noi gli aveva detto che si doveva fare così, fu un gesto spontaneo, semplice, voluto e purissimo.
Qualcuno ricambiò, ma per ogni bambino più grande che rifiutò quel saluto scappando via, GZ si voltò verso di me chiedendomi senza parole che cosa avesse sbagliato.
Mi sforzai di fargli capire che non aveva sbagliato nulla, consapevole che è a causa di tutte quelle piccole paure di aver sbagliato che accumuliamo negli anni che finiamo per trasformarci in qualcosa di completamente diverso.
E spesso opposto.
Poi, dimostrandosi decisamente più forte di me, si lanciò nel gioco e due ore dopo era ancora lì, senza alcuna voglia di andare via.
Scrivo queste ultime righe, poggio il portatile a terra e mi alzo dal letto.
Vado a guardarlo.
Dorme come dormo io: inizialmente sul fianco destro, con una mano sotto il cuscino, per poi spostarsi a pancia in su mantenendo quella mano sempre sotto il cuscino.
Mi rivedo in ogni suo gesto e per questo so che voglio essere le armi con cui affronterà la sua crescita, non la zavorra che regge sulle spalle.
Ma per riuscirci devo crescere un altro po’.
Devo imparare una quarta e una quinta cosa e intanto continuare a raccontargli tutto quello che so.
Magari evitando di dirgli chi ha ucciso Laura Palmer.
La mia sveglia suonerà tra quattro ore, speravo di chiudere questo post un’ora fa per dormirne almeno cinque, ma già sapevo che non ce l’avrei fatta.
La notte che precede un nuovo viaggio si porta sempre dietro la scusa per non dormirla.
Ti conosco appena e praticamente non so nessuno per dirlo,ma sei una persona fantastica e la tua famiglia non poteva essere diversa.
Ogni volta che condividi queste esperienze imparo qualcosa e penso che riflettere su queste piccole grandi cose oggi,sia quelllo che renderà migliori domani. Dovevo dirtelo perchè,leggendo,la lacrima è stata inevitabile,
Spero che GZ trascorra anni straordinari tra giochi dell’asilo e banchi di scuola,anzi sono sicura che sarà così.
Un abbraccio.
Hai scritto una cosa molto bella, nella forma e nel contenuto. A parte l’emozione del sentimento hai colto con precisione quanto di errato o negativo mettiamo come zaino sulle spalle dei nostri figli, nipoti, piccoli essere umani che incrociamo nelle nostre vite. E quanto è decisivo che un qualsiasi gesto, frase o anche solo pensiero, perché colgono anche solo quello, debba essere pensato ed espresso con attenzione. Perché anche solo un abbraccio freddo, che pare un ossimoro, li rende confusi e li ferisce per sempre. Forse sei uno psicologo. Se non lo sei, bravo. E’ bello vedere che da qualche parte, ogni tanto, possono esserci genitori che forse riusciranno a non rovinare la vita ai loro figli.
@Margherita
Grazie per le tue parole. Un abbraccio grande a te e a Aureliano!
@Angela
Non sono uno psicologo, anzi. Credo che scrivere queste cose, trovare il tempo per fermarle e fermarmi, sia una roba molto simile a una autoterapia.
Speriamo funzioni!
Per il resto del tuo commento: grazie.
sei straordinario. bi