Venere in pelliccia – Recensione.
Di nuovo personaggi rinchiusi all’interno di uno spazio da cui non è possibile uscire.
Di nuovo il mondo esterno relegato a un semplice carrello di in e out, a un contenitore di storie e palcoscenici, di autori, attori e personaggi da raccontare e interpretare.
Di nuovo un gioco al ribasso nei confronti della messa in scena, che mostra un’unica location come nel precedente Carnage, ma che riduce gli attori al numero minimo di due.
Un record anche per un regista che al suo esordio con “Il coltello nell’acqua”, ne mise in campo soltanto tre!
E così, dopo Jesus Franco, Crepax e i Velvet Undergound, anche Roman Polanski si confronta con quella Venere in Pelliccia che ormai da quasi 150 anni mette a nudo le dinamiche tra schiavitù e dominazione, vittime e carnefici, desiderio e oggetto del desiderio, sacrificio e soddisfazione.
E lo fa col rigore dell’entomologo e l’ironia del giocatore.
Partendo dalla piece teatrale che ne ha tratto il commediografo David Ives nel 2010 (qui in veste di co-sceneggiatore) Polanski ci racconta due ore nella vita di Thomas, regista e sceneg… pardon, adattatore, teatrale, esasperato da una giornataccia di audizioni andate male nella vana ricerca di una attrice adatta ad interpretare Vanda, la Venere nata dalla penna di Leopold von Sacher-Masoch.
Tutte le attrici provinate da Thomas si sono rivelate “attricette impreparate e più simili a puttane pseudolesbiche che a una donna dell’alta classe di fine ottocento” e proprio mentre sta per chiudere le luci del teatro, Vanda entra in scena.
Non la Vanda originale del romanzo, sia chiaro, il suo è solo un caso d’omonimia, e dopotutto, a guardarla bene, anche nei suoi confronti sembra calzare a pennello la descrizione delle attrici che l’hanno preceduta.
Il suo nome poi, non compare neanche nella lista delle attrici in lizza, per cui, l’unico interesse di Thomas è liberarsene il prima possibile e tornarsene a casa.
Ma non può.
Vanda vuole provare e non andrà via da lì finché Thomas non le darà la possibilità di dimostrargli che nessuna è adatta a quel ruolo più di lei.
Questo è il setup su cui Polanski mette in scena il suo gioco dei ruoli, la sua seduzione ipnotica e ossessiva, la sua ironia, i suoi rapporti di forza, i suoi capovolgimenti e le sue ambigue ambivalenze al servizio dell’unica materia che da sempre tenta di mettere a fuoco col suo cinema: il rapporto tra la donna, l’uomo, e la donna contenuta nell’uomo.
E se nel 1976 utilizzò proprio le sue stesse fattezze per dare il volto e la voce all’indimenticabile Trelkowski che abitava al terzo piano e si vestiva con gli abiti di Simone Choule, ora è Mathieu Amalric l’avatar di un regista che tramite il confronto con una Donna (che apparentemente le riassume tutte) cerca di esplorare la propria femminilità.
Una donna splendidamente interpretata – qualora non bastasse la somiglianza tra i due uomini per renderne palese la spinta autobiografica – proprio da quella Emmanuelle Seigner che per Polanski è musa, moglie e madre dei suoi figli.
E, tra di loro, un dio che con la sua voce tonante e la sua pioggia battente li tiene prigionieri all’interno di un eden che lo sguardo di Polanski esplora in lungo e in largo: dal palcoscenico, al dietro le quinte, fino alle poltrone degli spettatori assenti, rispedendo al mittente qualsiasi ipotetica accusa di regia statica o teatrale e segnando un nuovo, importantissimo, tassello nella poetica del regista polacco.
Un capolavoro, quindi?
Quasi.
Un ottimo film.
Con quella che è a mio avviso un’unica grande pecca: la sensazione di un eccesso di tutela verso il grande pubblico che ha portato Polanski e Ives, in fase di scrittura, a non spingere su quel gioco psicologico delle parti più in là di quella che è, e vuole essere, nient’altro che una commedia grottesca e divertente.
Un’ottima commedia grottesca e divertente sulla Venere fuori e dentro l’uomo che cerca di inventarla, dipingerla, scolpirla, dominarla.
Stellette? 8 su 10
P.S.
Se potete, cercatelo in lingua originale.
Nel doppiaggio italiano,
i toni e le mossette di Emanuela Rossi vanificano del tutto il grande lavoro sulla voce, il respiro e il corpo fatto dalla Seigner, dimostrando una volta di più, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la grande stagione del doppiaggio italiano è finita da un pezzo.
Non ho sentito la versione originale, però trovo il doppiaggio eccellente e indovinato. La Rossi è bravissima ad interpretare i due registri di voce.
Ciao Gianna!
Ma se non hai sentito la versione originale, come fai a dire che il doppiaggio della Rossi è eccellente e indovinato?
Riprova del contrario, ad esempio, è già il fatto che tu riesca a riconoscere distintamente due diversi registri di voce nel personaggio, in originale, questa distinzione netta non c’è, perché l’attrice modula un diverso registro per ognuna delle sfumature della figura femminile che fa uscire dal suo corpo. Nella versione italiana invece siamo costretti a sentirne soltanto due: quella imbranata e quella aggressiva. Finite le sfumature 😀