Dark Side of the Sun: intervista a Carlo Hintermann.
Dopo avervi presentato l’intervista a LRNZ, mente e mano al servizio del lato animato del documentario The Dark Side of the Sun, è il momento di fare quattro chiacchiere con Carlo Shalom Hintermann, regista e vero e proprio motore di tutto il progetto.
Hai dichiarato di aver scoperto dell’esistenza di Camp Sundown leggendone sul New York Post. Come si passa dall’interesse per una notizia al farla diventare una missione per i successivi tre anni della propria vita?
Ho avuto bisogno di tempo. Quando ho letto l’articolo non mi sentivo pronto a girare un film su una tematica così delicata. Qualche anno più tardi, dopo aver fatto un programma sulla pena di morte che mi ha messo a confronto con la realtà durissima del braccio della morte in Texas, mi sono sentito pronto ad affrontare questo progetto. Quasi sempre quando iniziamo un progetto con la Citrullo sappiamo che durerà molto perché cerchiamo di conoscere e diventare parte di ciò che raccontiamo, in questo caso quando abbiamo conosciuto Dan and Caren Mahar siamo rimasti talmente impressionati che abbiamo da subito deciso di prenderci tutto il tempo necessario per poter realizzare il miglior film possibile.
Quali sono le prime persone che hai pensato di coinvolgere nel progetto? E quale la molla – narrativa/etica/quello che ti pare – che ti ha convinto che poteva nascerne un film, il tuo film?
Ho subito coinvolto Daniele Villa come produttore, la mia società Citrullo International e Lorenzo Ceccotti, perché da subito ho pensato che l’animazione fosse necessaria per documentare quello che era indocumentabile: i sogno, le passioni e le paure dei bambini malati di XP. A questo punto ho sentito che poteva diventare un film perché si poteva ragionare con le persone giuste su come articolare la narrazione. Ho chiamato il direttore della fotografia Giancarlo Leggeri, pedina fondamentale per ragionare sulla questione che più di ogni altra mi interessava a livello visivo: non riprendere al buio quanto riprendere IL buio. Perché la notte doveva essere la protagonista del film cambiando la nostra prospettiva e cercando di farla cambiare anche agli spettatori.
Ho capito però che il film poteva andare nella giusta direzione solo quando ho incontrato i nostri protagonisti: Katie, Rachel, Chris, Patrick, Hannah, Fatima, la loro eccezionalità mi ha convinto che se avessi rispettato la loro natura avrei potuto far conoscere anche al pubblico la loro forza.
Rispetto per una natura diversa. Rispetto per le persone. Per la malattia. Per le scelte. Per il buio e per la luce. Ma anche per le diverse professionalità coinvolte e per le esperienze che si portano dietro. Cos’è il rispetto? E soprattutto, come si racconta il rispetto?
Non solo è l’elemento fondamentale di base, ma credo sia anche un enorme motore creativo: senza il rispetto non si lasciano le persone libere di dare un apporto creativo pieno.
Prima di tutto per me è fondamentale capire l’essenza del lavoro dei collaboratori coinvolti. Con Lorenzo significava davvero entrare nel suo universo, confrontarsi con i suoi riferimenti artistici e lasciarsi guidare dalla sua percezione della storia che stavamo raccontando, lasciandogli piena libertà e intervenendo solo per rilanciare ancora più in alto. Per fare un passo in più, a volte, incoscientemente.
Lo stesso è accaduto con il musicista Mario Salvucci. Collaboro con lui da molti anni e so quale valore aggiunto può apportare al film.
Una volta settato il tono è fondamentale rispettare la sua creatività, rimanendone anche un po’ sorpreso ascoltando il risultato finito.
Quello che mi esalta è accogliere le idee più originali dei collaboratori proprio quando ti sottopongono qualcosa che non ti aspettavi. Questo spinge il film verso una nuova direzione, spesso quella giusta. In un certo senso a Camp Sundown succede la stessa cosa: Dan e Caren Mahar lasciano che lo spirito del campo sia la somma di tutte le personalità che vi prendono parte, e il risultato è eccezionale proprio perché ognuno dà il suo contributo. In questo senso ho ritratto il rispetto: il rispetto di Patrick, bambino di 8 anni che non ha l’XP, verso Rachel, bambina sua coetanea molto fragile.
Nel loro rapporto sta forse la chiave di tutto il film. Il rispetto si lega indissolubilmente alla compassione, ma nel senso etimologico del termine: esperire insieme qualcosa moltiplicandone la forza.
Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda perché in questa ottica il rispetto è il vero protagonista del film e se io o qualsiasi collabortore avessi rotto questo eqilibrio tutto sarebbe crollato. Io credo che questo film non possa piacere alle persone sgradevoli, e questo non per merito mio ma per la grandiosità dei protagonisti.
E a proposito di rispetto, sei riuscito a guadagnarti quello di una personalità complessa come Terence Malick che ti ha voluto come regista dell’unità italiana per alcune sequenze di Tree of life girate nel bel paese. Come è nato il vostro rapporto? Come si è sviluppato e verso cosa è proiettato?
Il rapporto con Terrence Malick è nato quando io Daniele Villa, Gerardo Panichi e Luciano Barcaroli (Citrullo International) abbiamo girato Rosy-fingered Dawn – a Film on Terrence Malick.
L’impresa era molto complessa perché Malick ha sempre rifuggito interviste, quindi quando gli abbiamo presentato il progetto del film attraverso il suo agente ha subito rifiutato.
Ma un citrullo non è un citrullo se non sbatte la testa contro il muro almeno due volte: abbiamo quindi deciso di contattarlo nuovamente spiegandogli che non volevamo intervistarlo ma che, al contrario, sarebbero stato il suo cinema e i suoi collaboratori a essere protagonisti. Abbiamo così iniziato un viaggio che ci ha portato a contatto con Sean Penn, Arthur Penn, Martin Sheen, Sissy Spacek, Jack Fisk, Jim Caviziel e moltissimi altri. Malick ha capito lo spirito del progetto e da lì è nata una vera e propria amicizia, che per me ha significato anche un confronto con una sorta di padre adottivo. Nel tempo ho avuto un confronto diretto con lui su quasi tutti i miei progetti compreso The Dark Side of the Sun. Per quanto riguarda invece la collaborazione su The Tree of Life è stata quasi uno sbocco naturale. Ricordo che il suo scenografo Jack Fisk, collaboratore abituale di Malick ma anche di David Lynch, professionista di valore assoluto, ci disse dopo l’intervista che gli facemmo: “Secondo me Terry rimarrebbe incantato dalla vostra passione e vi coinvolgerebbe in un suo progetto”.
Questa frase mi ha dato forza e per questo motivo ho proposto a Malick di girare delle cose in Italia (per motivi contrattuali non posso dire esattamente cosa ho girato). A quel punto mi è stata lasciata grandissima libertà, il che è stato un insegnamento straordinario, perché il principio che animava questo atteggiamento era quello di rimanere sorpresi. E così è stato, le immagini inserite nel film sono quelle che ho girato di mia iniziativa, grazie anche alla collaborazione preziosa dell’operatore Matteo Ortolani. Riguardo al futuro stiamo finendo un libro su Malick per la casa editrice inglese Faber & Faber, che uscirà per il mercato americano e inglese. Malick è stato anche molto generoso nell’appoggiare il film di finzione che stiamo cercando di produrre insieme a Rita Rusic, The Book of Vision.
Ora che il film è stato trasmesso pubblicamente, possiamo dire che si è chiuso un ciclo e presto se ne aprirà un altro. Cosa ti ha sorpreso in questo percorso? Sia positivamente, che negativamente, intendo.
Quando parlo di The Dark Side of the Sun non posso non ricordare quanto sia stato difficile produrre il film. Penso al produttore Daniele Villa, compagno citrullo, che non si è mai tirato indietro e ha sempre assecondato le spinte creative mie e di Lorenzo.
In questo percorso ci sono stati partner generossissimi: Tecnolight che ha fornito tutte le luci, Lanterne Volenati, tutte le luci a fiamma, AB Medica che ci ha dato un contributo fondamentale, Muse Roma e Muse Italia, Presa diretta di Andrea Fiorentini. Poi Rai Cinema, NHK, DR e YLE (telvisione italiana, giapponese, danese e finlandese). Dulcis in fundo è arrivato il contributo indispensabile di Rainbow, grazie alla generosità e incoscienza di Iginio Straffi.
Detto questo per il resto ci siamo scontrati con le solite pastoie italiane, con tutto il peggio del sistema nepotistico e soffocante del nostro paese.
Il ministero, in primis, che valuta i progetti con criteri assolutamente imperscrutabili, e assolutamente condannabile è anche un certo mondo “ufficiale” legato a festival e istituzioni che si muove per rapporti clientelari.
E’ più facile, per noi, avere contatti con Brad Pitt o con professionalità eccelse americane, tedesche o francesi, piuttosche che con l’ultimo dei distributori italiani.
Questo a volte è disarmante e testimonia una cosa indiscutibile: l’Italia è ferma per una precisa volontà di immobilismo che fa comodo a poche persone arroccate sui loro privilegi.
Una nota amara ma doverosa.
bellissimo post, come sempre.
l’intensità di questa frase è commmovente: “il rispetto si lega indissolubilmente alla compassione, ma nel senso etimologico del termine: esperire insieme qualcosa moltiplicandone la forza.”
qualche tempo fa avevo visto un qualcosa che parlava di xp, ma la compassione che ne scaturiva esprimeva tutta la negatività del termine e il disagio dell’intervistatore nel parlare di qualcosa di cui non aveva idea e lo terrorizzava. alla fine a farne le spese erano i bambini dipinti come piccoli vampiri!
bella intervista, belle persone. bravo scrittore, come sempre.
Bella quest’intervista. Al Festival di Roma dovevo scegliere se vedere The dark side of the sun o Death of a Superhero, proiettati in contemporanea. E, non so perché, ho scelto purtroppo il secondo. Recupererò questo film, da quello che vedo a livello fotografico è stupefacente.
Vengo dopo Veronica, stupendo. Bella la giraffa, OH-OH-OH! Dài, ragazzi, così è troppo facile.
bellissimo post, come sempre.
l’intensità di questa frase è commmovente: “il rispetto si lega indissolubilmente alla compassione, ma nel senso etimologico del termine: esperire insieme qualcosa moltiplicandone la forza.”
qualche tempo fa avevo visto un qualcosa che parlava di xp, ma la compassione che ne scaturiva esprimeva tutta la negatività del termine e il disagio dell’intervistatore nel parlare di qualcosa di cui non aveva idea e lo terrorizzava. alla fine a farne le spese erano i bambini dipinti come piccoli vampiri!
bella intervista, belle persone. bravo scrittore, come sempre.
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