Black Swan – Recensione.
Aronofsky amplifica e conclude il discorso sull’Essere introdotto in The Wrestler e lo fa seguendo per 90 minuti le spalle, le dita e i riflessi negli specchi di Natalie Portman.
Laddove Randy “The Ram”, schiavo e vittima del dio che era stato, si negava ogni possibilità di adattamento ad una società che andava avanti senza fermarsi ad aspettare il suo passo lento da videogioco a sedici bit, Nina è costretta ad evolvere perché solo tingendo di nero le sue ali bianche potrà definitivamente volare.
La Portman, alla prima performance realmente memorabile della sua carriera dai tempi di Leon, si mostra tanto concreta nella prima parte del film quanto sospesa, spezzata e priva di punti di riferimento nella seconda.
Il suo è un percorso composto dai riflessi di mille specchi che rimandano indietro un’immagine in cui fa sempre più fatica a riconoscersi.
La Nina che ha lottato una vita intera per raggiungere i traguardi che si era prefissata, scopre che le sue verità sono valide quanto il loro opposto.
Che a un cigno bianco ne corrisponde sempre uno nero e che è stata chiamata, lei tra tutte, ad interpretarli entrambi.
Ma come si diventa il proprio opposto?
Su questo indaga Aronofsky, tirando una linea tra le estremizzazioni della carne che vedono a braccetto Cronemberg e Schopenahuer (il corpo come volontà e rappresentazione) e quelle dello spirito in cui fa capolino più di un grottesco VonTrier (la figura della madre, le trasformazioni in digitale) e trovando il cardine del suo discorso nella seduzione.
Quella che Cassel (inturgidendo i capezzoli della totalità delle presenze femminili in sala)
invoca come impeto di pura vita, senza freni, senza muri, e che Mila Cunis
incarna senza alcuno sforzo.
Quella sensualità che Nina non aveva mai perseguito perché ha a che fare con l’istinto più che con la dedizione.
Quella che Nina aveva sempre ignorato perché schiava di una madre che su di lei riversava i suoi fallimenti.
Quella che Nina aveva sempre negato strappando, una per volta, le ali nere che spuntavano sulla sua schiena.
Quella che Nina aveva sempre fuggito perché alla radice della seduzione c’è il confronto. E dal confronto si può uscire vincitori o sconfitti.
E si fa presto a diventare una nuova Winona Rider.
Con l’utilizzo della camera a spalla e dei 360° intorno al personaggio nella parte centrale dello schermo, ormai diventati un vero e proprio marchio di fabbrica, il regista statunitense assolve le più classiche istanze del cinema del balletto, mixandole con rara consapevolezza a quelle del thriller psicologico.
Gioca con i piani dividendoli in maniera netta, in un bianco e nero contenutistico e formale che rappresenta allo stesso tempo la vetta e la conclusione di un percorso artistico che in Logan potrebbe trovare un nuovo inizio.
In questo video, il lavoro svolto sugli effetti:
Mentre questa è la shplenteta illustrazione con cui Giovanni Rigano ha raccontato il suo punto di vista:
Stellette? 8 su 10
Sono curioso di vedere anche la locandina che gli italiani hanno adottato per il film.
Concordo con ogni parola della recensione.
Applausi ad Aronofsky e alla Portman, ma pure a te che hai colto perfettamente lo spirito del film!
Giorgio
Sono d’accordo con te su Il discorso del Re.
No su The social network
Si su 127 ore.
Ho un po’ di paura a vedere Il cigno nero.
Ah, solo su una cosa non sono d’accordo: secondo me la Portman è memorabile anche ne “L’ultimo inquisitore”. Riesce a interpretare magistralmente la dolce Ines, Ines dopo la follia, e Alicia, la figlia di Ines…
quoto Giorgio e aggiungo che la Portman su questo film è stata semplicemente la Portman, non ha dato nulla di più e nulla di meno di ciò che da in ogni suo film. E’ brava e questo film le ha dato più chance di altri perchè tutto incentrato sulla figura e la psicologia di Nina. E’ come un portiere di una squadra di bassa classifica che viene preso a pallonate ogni domenica: se è bravo ha la possibilità di mettersi in mostra più che se giocasse col Real Madrid.
Mi trovo sostanzialmente d’accordo con la recenspremuta uzzeiana.
Dissento solo sull’assoluzione delle più classiche istanze del balletto, perchè a mio modo di vedere D.A. entra con la mdp sul palcoscenico con lo stesso cadrage e gli stessi intenti di movimento con cui entrava sul ring dietro a The Ram.
Il grosso rischio che questo film si prende – vincendo – risiede proprio nell’ostinazione di uno sguardo, che persiste pur in due ambiti spettacolari diversi, opposti: Intrattenimento puro vs Arte del gesto. Il merito è tutto di Libatique e della sua ‘grana’? Forse.