Speciale BURIED – 3 di 4 – Recensione.
(per leggere le interviste al regista presenti nelle altre parti di questo speciale clicca qui e qui )
Un attore, un’unica location.
Un’ora e mezza in una cassa da morto.
Questo è quello che promette Buried ed è molto meno di tutto quello che riesce a mantenere.
Perché se i punti di partenza e arrivo sono obbligatoriamente Hitchcockiani (da I prigionieri dell’oceano a Nodo alla gola) quello che c’è in mezzo, il corpo del film, è tutt’altro che scontato.
Una “commedia kafkiana” lo definirà il regista presente in sala subito dopo la visione del film e non avrebbe potuto scegliere terminologia migliore.
Buried è quello che il miglior Sclavi scriverebbe per il cinema se gliene venisse data la possibilità.
Il sepolto del titolo non è il trasportatore americano che si ritrova sottoterra dopo un attacco iracheno (nè c’è alcuna traccia di sottotesto politico), ma l’uomo moderno, “seppellito” da una quantità di burocrazie omologanti, di attenda in linea, mi dia il suo codice, attenda in linea, ha compilato il modulo, attenda in linea.
Tutti noi veniamo quotidianamente messi in una cassa e infilati sottoterra, in attesa che qualcuno venga a liberarci.
E il compito di Cortés non è quello di tirarci fuori ma di farci vedere quanto in fondo siamo stati infilati assolvendo al compito base della narrativa di genere horror o s.f.: la distorsione della realtà come monito per evitare che gli orrori di oggi diventino le certezze di domani.
La claustrofobia dei primi minuti del film svanisce lasciandoci a tu per tu con l’uomo, dimentichiamo di essere in una bara e partecipiamo allo scorrere degli eventi verso un finale e un controfinale, telefonato per molti (chi ha detto Descent?), shockante per altri.
Tutto, in questo film, è funzionale alla narrazione.
Montaggio e regia (entrambi opera di Cortés) procedono a braccetto in un continuo rimpallo di tensioni, colpi di scena, sdrammatizzazione.
E ritmo, signori miei.
Il ritmo è la materia che il regista spagnolo gestisce con tale padronanza da far sembrare semplice il tutto e far dimenticare che questo film sia stato ritenuto “ingirabile” per anni prima di trovare chi gli desse corpo e anima.
L’interpretazione di Reynolds è asciutta, credibile, viscerale.
Segue il registro narrativo che non porta mai ad una concreta drammatizzazione degli eventi risultando perfettamente coerente nella grottesca messa in scena filmica.
Le luci, tre in tutto, ci accecano, rassicurano e illudono, svolgendo funzione diegetica ed extradiegetica contribuiscono a renderci partecipi delle sensazioni del protagonista.
Ennesimo film della new wave spagnola, Buried è appena uscito e viene già usato come termine di paragone sia dai fan del genere (non è un remake, non è un reboot, non è un sequel, non è splatter, non ha le musiche saltone, non è fintamente diretto da uno dei protagonisti che non molla mai la videocamera, non è insozzato di orrida cgi), sia dal cinema dei grandi numeri (è costato poco più di un milione e mezzo di euro).
Tra le tante vie percorribili, questa mi sembra la più onesta.
Stellette? 8 su 10
L’impressione è che il regista abbia migliorato la sceneggiatura di base grazie a tutto quello che hai ben descritto e che condivido. La mia impressione, ovvio. Lo script mi è sembrato forzato in alcuni punti e eccessivamente oscuro o addirittura banale in altri. I punti di forza sono Cortés e Reynolds.
Gran rece, Mauro!
Mi hai decisamente convinto sul versante concettuale… L’unica cosa che continuo però ad imputare al film a livello di disonestà è l’avere buttato in mezzo false piste senza però averle legate in modo coerente alla trama (vedi il numero di telefono non rintracciabile per i federali/militari(?), mentre invece lo è per il datore di lavoro, tanto per dirne una a memoria).
Sta di fatto che la visione che ne hai dato tu mi risolleva decisamente il film di un buon paio di punti! Grazie mille!
Concordo parola per parola, stelletta per stelletta. 🙂