La lingua che parla chi ascolta.
Non preoccuparsi di parlare una lingua sconosciuta facendo le facce, potrebbe essere uno stato da recuperare.
Togliendo le sovrastrutture e le contingenze mi rendo sempre più conto che il mio lavoro consiste nel comprendere la lingua che parla chi mi sta intorno.
Non parliamo italiano.
Non parliamo inglese.
Ognuno di noi parla un hopelandic fatto di esperienze vissute, di fallimenti, di barricate difensive, di strumenti per galleggiare, di maschere, di dare e avere.
Solitamente in un discorso che comprende 100 parole, 98 vengono usate per evitare di essere fraintesi e il succo è in quelle 2 ben nascoste sotto il peso delle altre.
Leggevo che in Africa venne ritirata un’intera campagna di sensibilizzazione per la prevenzione dell’Aids perchè lo studio francese che l’aveva realizzata aveva utilizzato metafore e concetti tipici di una cultura che, con quella africana, a cui il messaggio era diretto – non avevano nulla a che fare.
Ci preoccupiamo di quello che stiamo dicendo ma non della lingua che parla chi lo ascolta.
Diciamo “tu non mi capisci” senza mai chiedere “tu che lingua parli?”
Allo stesso tempo, comprendere il linguaggio dell’altro e utilizzarlo per avviare un dialogo costruttivo rischia di portare all’estremo opposto: utilizzare una lingua ad personam per ognuno di quelli con cui comunichiamo, snaturando noi stessi.
Parlare con te, ad esempio, nella tua lingua… genera un mix tra quello che ti direi per come lo direi e un compromesso comunicativo per evitare che tu mi fraintenda o che io possa, in qualche modo, ferirti.
E’, come dicevo prima, un lavoro.
E’ un lavoro che sto facendo e che ha una reale valenza pratica quando coordini decine di persone diverse ogni giorno.
Persone che sono tutto ciò che sono state fino al momento prima di avere a che fare con te e che saranno tutto quello che non saprai mai nel momento in cui andrai via.
Persone che abitano a migliaia di chilometri dal tuo modo di pensare e da quello che pensi sia corretto o sbagliato.
E la stessa regola vale per le persone che col tuo lavoro non hanno nulla a che fare, chè il confronto non garantisce sconti.
Non so se questo sia il metodo e voglio credere che il mal di testa che ho la sera sia dovuto ad altri tipi di stanchezza.
Non voglio neanche credere che la purezza sia lo stato d’animo di chi si offre senza freni e si pone direttamente libero da schemi o da ragionamenti.
Di chi legge un’ipocrisia nel cambiare linguaggio a seconda della persona che hai davanti.
Il dialogo è il risultato di un confronto tra le parti e voglio continuare a credere che questo possa essere un modo.
P.S.
Solitamente ODIO i video dei bambini che fanno cose, questo invece oltre a farmi divertire ha generato il flusso di pensieri che avete appena letto.
Vi consiglio di guardarlo, vi ritroverete un sorriso ebete stampato in faccia.
Uzzeo is my hero!
onorato!
Ecco, cazzo, lo vedi? Tu parli inglese e io rispondo italiano. Non ti ho ascoltato 🙂
Eghèin, Uzzeo iz mai iro.
(così, per individuare una lingua intermedia)
ps: ma col mio amico Dave vi siete poi sentiti?
…comunque sia, a volte anche a me capita di non ascoltare la lingua di chi parla. Però, di solito, in quei casi è perché sto guardando le tette.
Le tette molto spesso SONO la lingua di chi ascolta. Quindi nessun problema 🙂
Per quanto riguarda Dave invece si, ci stiamo sentendo… ed è imbarazzante quante cose abbiamo in comune! 🙂
Bene! Molto bene!
Conosci questa canzone di Tricky? Capita a fagiuolou:
http://giardinodeileoni.blogspot.com/2009/01/lingue-segrete.html
non la conoscevo. Direi fagiolissimo, soprattutto le tue riflessioni!
Conosco bene quello che descrivi come “un lavoro”, con le persone. Anch’io mi trovo a tenerne insieme (leggi evitare che si scapoccino vicendevolmente ) gruppi sempre diversi. Agenzie diverse, metodi diversi, clima diverso, un delirio. E i termini altisonanti anglofighetti che ti stampano sui biglietti (art director, supervisor etc) non rendono quanto quello che ho scoperto essere il più azzeccato: man on wire.
Il dialogo è il risultato di un confronto tra le parti, verissimo.
E’ quando non siamo più nella sfera dello scambio di opinioni, ma ti tocca cavare dei risultati tangibili dalle persone, che la faccenda si complica.
Facile, facilissimo purtroppo, leggere questo comportamento come un’ipocrisia.
(…)nel cambiare linguaggio a seconda della persona che hai davanti.
Ecco. Lavoro a parte, io per ‘sto dannato motivo mi sono giocato due amicizie importanti. Anzi, una delle due importantissima, vitale.
Il dubbio marzulliano che mi affligge da quel giorno è:
faccio bene ad utilizzare quella lingua ad personam anche fuori dal lavoro?
Mai saputo rispondere con fermezza.
Eppure è stato proprio quel “compromesso comunicativo” a fottermi. Che poi, diciamocelo, è quello che tanti definiscono “diplomazia” e che è facile confondere con la doppiezza, versione deviata e bastarda di quella che ancor prima di essere un lavoro è un’arte.
Con gli amici serve? Mah. Me ne son rimasti talmente pochi che ora il paradosso appare limpido:
Sono in pochi perchè ho usato quella lingua lì. E sono quei pochi che usano quella lingua con me. Altrimenti – io e loro lo sappiamo bene – finiremmo ai ferri corti per cazzate che non meritano di offuscare tutto il resto. Cose che si è avuto il reciproco privilegio di condividere. Che uno deve saperlo che è essenzialmente debole. Che bastano quattro parole dette in modo sbagliato (seppur “per amor di verità”) a fare un buco nel petto di chi ti sta di fronte, che tu lo voglia o no.
Ok, la smetto. ‘notte.
Prima o poi ci si beccherà oh!
Caro Mauro,
molti anni fa Jean Monnet, uomo politico francese, ha detto: “capirsi reciprocamente è difficile, ma quando il sospetto è stato eliminato si è già fatto molto”.
difficile vero…ma poi quanto è bello quelle poche volte in cui ci si capisce!
Disgraziatamente vero.